(Traduzione di Livia Apa)
L’ormai celebre discorso di Emmanuel Macron pronunciato nel 2017 a
Ouagadougou in cui il presidente francese si impegnava a cambiare il rapporto
della Francia con il continente africano, ha dato vita ad una serie di
iniziative che hanno avuto come obbiettivo promuovere un’idea dell’Africa e del
rinnovato rapporto della Francia con il continente. Sono ovvi i motivi che
hanno spinto Macron a questo “cambiamento di rotta”. L’Africa è il continente
del futuro come viene ripetuto da più parti, ma è soprattutto un grande e nuovo
potenziale mercato che guadagna sempre più spazio nello scacchiere
internazionale. Macron ha quindi dal 2017 ad oggi promosso alcune (importanti)
azioni che hanno avuto come obbiettivo restituire visibilità al continente. La
cultura ha fatto la parte del leone. Il rapporto Sarr-Savoy sulla restituzione
delle opere d’arte africane presenti nelle collezioni europee, la kermesse
“Afrique2020”, le cui attività sono state però stravolte e travolte dalla
congiuntura pandemica e lo stesso Summit di Montpellier che ha avuto luogo
nella città francese l’8 ottobre scorso ne rappresentano i momenti più
salienti.
Molte critiche sono piovute su Achille Mbembe quando ha accolto l’invito di
Macron ad accompagnarlo nella costruzione di un momento di confronto rinnovato
tra Francia e il continente africano, ma a prescindere da ogni eventuale
valutazione sul suo “entrismo”, ci sono alcuni dati importanti che si possono
leggere da questa esperienza. Primo: le teste pensanti provenienti dal mondo
della cultura africana possono e devono avere un ruolo politico in senso lato
nel cambiamento del continente. Mbembe ha invitato nella sua task force
organizzativa figure come quelle di Chimamanda Ngozi Adichie, di Mohamed
Mbougar Sarr, premio Goncourt 2021, dell’architetto David Adjaye,
dell’economista Kako Nubukpo o ancora il medico Denis Makwege, per pensare un
possibile dialogo fra chi vive il continente e chi eventualmente ci vuole
continuare ad investire denaro e estrarne risorse. Secondo: la lingua in sé non
è più l’unico vettore in grado di gestire e immaginare il rapporto tra antica
potenza colonizzatrice ed ex- colonie. Dal punto di vista soprattutto
dell’economia, infatti, ci sono blocchi regionali ormai sempre più autonomi che
si reggono per dinamiche interne che superano gli assetti e le frontiere
imposti dalla colonizzazione. Si tratta di un elemento non trascurabile che può
avere ripercussioni anche sulla gestione degli aiuti allo sviluppo e l’azione
del mondo delle Ong. Terzo: si può parlare di Africa solo partendo dai
territori, ascoltandoli e decolonizzando nei due sensi un rapporto ormai troppe
volte tossico. Ma l’elemento più importante e nuovo cavallo di battaglia della
politica di Macron post Summit di Montpellier, è quello di valorizzare il ruolo
della diaspora come nuova soggettività politica. Si tratta di un passaggio
significativo ma delicato per le implicazioni che esso può avere non solo nel
rapporto Francia-Africa ma anche nelle dinamiche interne ad entrambe le
società, quella europea e quella del continente africano appunto. Stiamo a
vedere.
La tradizione dei “summit disuguali”, non è certo nata oggi. Generalmente essi
riuniscono da una parte, una potenza consolidata, e, dall’altra, un insieme di
“Stati minori” che godono di diritti teoricamente equivalenti, ma che occupano
invece una posizione subordinata nello scacchiere mondiale. È il caso dei paesi
africani che partecipano assieme alla Francia, da 27 anni a questo tipo di
riunioni. La Francia non è sola però, visto che paesi come la Cina, la
Germania, il Giappone, l’India, la Russia sono pronti a praticare lo stesso
tipo di esercizio.
Il Nuovo Summit Afrique-France si è appena tenuto a Montpellier. Vi hanno
partecipato più di 3000 persone. Ma all’appello questa volta mancava la solita
processione dei tiranni: capi di stato a vita, caporali, colonnelli e generali
che hanno preso il potere in seguito ad un colpo di stato, presidenti al potere
grazie ad un sistema di successione padre-figlio o a brogli elettorali.
Costoro, semplicemente, non sono stati invitati.
Parole compulsive invece di analisi critiche.
Al centro dei vari dibattiti c’è stata la necessità di fondare su nuove
basi il rapporto tra la Francia e il continente africano. Il presidente
Emmanuel Macron mi aveva chiesto, nel febbraio del 2020 di “accompagnarlo” in
questo pericoloso esercizio. Il rischio dell’equivoco c’era ed era reale. Anche
amici a me molto vicini e figure che godono del mio rispetto avrebbero
preferito che io gli dicessi un “no grazie”. Voltando però le spalle ai loro
consigli io ho invece deciso di dire “presente!”. Una risposta affermativa a
una sollecitazione di questo tipo non è necessariamente messa a tacere dal
desiderio di compromesso. Rispondere vuol dire anche prendere il testimone, e,
all’occasione, fissare una data.
Dopo essermi circondato di un comitato composto di personalità africane e della
diaspora la cui celebrità e indipendenza di spirito non potevano essere messe
in discussione, per sette mesi ho accompagnato un ciclo di 65 dibattiti in
dodici paesi africani (Sudafrica, Angola, Kenya, Repubblica Democratica del
Congo, Camerun, Nigeria, Niger, Burkina Faso, Mali, Senegal, Costa D’Avorio e
Tunisia). Questi dibattiti hanno messo insieme un gruppo di circa 4000
partecipanti, la maggior parte dei quali hanno tra i 25 e i 40 anni.
Queste discussioni pubbliche si sono incentrate su tutti i temi di un
rapporto ben meno caricaturale di quanto viene normalmente descritto. Marchiato
a ferro da innominabili contraddizioni, esso è però potenzialmente generativo
e, in ogni caso, molto più complesso di quanto ci hanno fatto credere e
continuano a farci credere molti cinici, soprattutto se lo si considera non dal
punto di vista della potenza e degli interessi, ma delle traiettorie
individuali, familiari e professionali, cioè nel senso della sua densità umana.
In effetti, reciprocamente, l’Africa e la Francia si sono messe ad
ascoltare, a parlare, a scrivere, a discutere, a pensare perché è impensabile
comportarsi come se tutto fosse accaduto per niente, o come se fosse tutto già
finito o come se non ci fosse più niente da fare insieme che potesse ormai
avere un qualche senso. In verità, oggi succede ancora qualcosa e bisogna dare
risposte, anche se per adesso è difficile dare un nome preciso a quanto sta
accadendo. I vecchi termini con cui siamo stati abituati a rendere conto dei
rapporti tra queste due entità ineguali non funzionano più. Oltre a non
spiegare più niente, non permettono ormai di aprire una strada in direzione al
futuro. Per far rivivere il linguaggio, forse dovremmo semplicemente iniziare a
dire “No, non sta succedendo niente”, facendo notare che non c’è più niente, ma
che sta succedendo qualcosa che ci chiede di aprire gli occhi e le orecchie in
modo diverso e di imparare ad ascoltare in un nuovo modo. Purtroppo, anche
negli ambienti colti e nell’opinione pubblica circola soltanto una parola
compulsivamente. Il termine “Françafrique” che tante volte ha permesso di
rompere tanti specchi, non sta forse diventando uno slogan privo di senso? Una
manifestazione del cinismo inverso che a volte caratterizza molti movimenti di
protesta, stimolo per una certa pigrizia intellettuale del giro ci porta ancora
a qualcosa di concreto? È come se fosse sufficiente esibire un panno rosso
perché tutti i tori mostrino immediatamente le corna. Da questo punto di vista
il summit di Montpellier si è nettamente smarcato dall’approccio tradizionale.
Non è stato organizzato a immagine dei capi di Stato, ma non è stato neanche
fatto contro di loro. Non è stato un summit di opposizione ai governi africani
al potere. Non avrebbe avuto alcun senso. È stato invece un incontro di
migliaia di persone che vogliono accelerare la trasformazione del
rapporto Africa-Francia. Se costoro sono accorsi all’invito di Emmanuel
Macron, allora niente impedisce ai dirigenti africani di dialogare nello stesso
modo, senza filtro, con la propria gente, nello stesso modo, a casa loro.
Peraltro, contrariamente a quello che si sente qua e là sono pochi quelli
che appartengono all’establishment francese che si augurano davvero di
ritornare alla Françafrique o di rivestirla di nuovi orpelli.
A chi servirebbe infatti un corpo a pezzi, ormai destinato alla putrescenza?
Compiacersene o gioirne, importa davvero poco. La Francia non ha più i mezzi
per il tipo di egemonia che crede di avere in Africa. Se l’asimmetria persiste,
con tutta la serie di ineguaglianze, paternalismo e a volte di condiscendenza,
essa si sposta a colpi di piccole rotture che sarebbe un errore sottovalutare e
che hanno bisogno di una nuova griglia di analisi.
Alla ricerca di un nuovo blocco storico
La verità è che la bussola sta cambiando direzione. È ormai impossibile parlare
d’Africa da lontano, al suo posto e a suo nome, e questo non vale solo per la
critica esogena.
Una critica intergenerazionale è in corso all’interno dello stesso continente.
A titolo di esempio si pensi a tutte le discussioni intorno alla “decolonizzazione”,
rivolte al rifiuto dell’imperialismo contemporaneo nella sua forma neoliberale
ma anche all’ordine interno gerontocratico, patriarcale e maschilista. Esistono
almeno due tipi di critiche africane alla Francia. La prima, utilizza
l’argomento della sovranità e del panafricanismo, a volte nella sua versione
razzialista, con la finalità di mantenere lo status quo. La Francia
è allora vista come il capro espiatorio dei mali del continente, in primo luogo
dalla classe al potere che ha beneficiato della sua protezione, e che si augura
che un eventuale cambio di rotta non finisca per nuocere ai propri interessi.
La seconda non intende necessariamente mantenere lo status quo. Si
rifà ad una autodeterminazione africana a volte ipostatizzata. Essa tende a
chiudere gli occhi sul colonialismo interno, anch’esso responsabile
della distruzione dei mezzi di sopravvivenza nel continente.
Ma queste dispute non ci portano a ragionare sul tipo di rapporto che
l’Africa dovrebbe avere con il resto del mondo. Su questo piano, si disegna una
biforcazione tra quelli che cercano di abbracciare il mondo in un modo diverso
e quelli che promuovono una certa autarchia, e tra quelli ai quali occhi l’odio
per un capro espiatorio è sufficiente e quelli per cui la rivoluzione consiste
nel rimpiazzare questo demonio per un qualunque altro non importa quale (i
luogotenenti del “tutti tranne la Francia”).
Ed è per questo che è importante ascoltare bene, e soprattutto capire
profondamente le voci che si sono espresse a Montpellier perché loro indicano
una terza via. Invece di parlare dei giovani in generale, essi sono espressione
di una lotta intergenerazionale su cui si innestano delle considerazioni di
classe, sullo sfondo di immaginari contrastanti del mondo e del rapporto
dell’Africa con esso. Va detto che le figure presenti alle assise di
Montpellier non rappresentavano solo i paesi francofoni.
Alcuni di loro venivano dall’Africa cosiddetta anglofona, lusofona e arabofona,
dal mondo associativo e da piccoli collettivi. Qualcuno di loro si trova a capo
di imprese che si occupano del digitale, di start up. Altri fanno nuovi
mestieri nella comunicazione e nei media. Altri sono dei tecnici, esperti di
informatica, o sono a capo di piccole e medie imprese, o di progetti nel
settore bancario. Altri sono analisti di dati o specialisti di marketing e
finanza, agro-ecologia, salute, servizi post-vendita, assicurazioni. E che dire
dell’arte, sport della cultura e degli altri campi della creazione e
dell’innovazione?
In fondo un nuovo blocco storico cerca di costituirsi al posto delle mille
forme delle pulsioni françafricane, ma anche di un panafricanismo
sfrenato, mischiato di incantamento, caporalismo e sovranismo. Gli impegni
espressi dalla generazione che ha preso la parola a Montpellier si inscrivono
piuttosto nell’orizzonte di un’Africa a multipli fusi orari, pronta a diventare
uno dei laboratori più enigmatici del pianeta, ma che rifiuta il ruolo di
mendicante universale che gli è stata incollata addosso da troppo tempo.
Quest’Africa del futuro è già un tutto, ancorato in modo trasversale a molti
mondi diversi.
Un’Africa a più fusi orari
In questo insieme di rapporti, la Francia e assieme a lei l’Europa, ma
anche le Americhe, hanno un posto significativo. In effetti la parte africana
dell’Europa e del Nuovo Mondo e la parte europea dell’Africa non emergono solo
dal verbo. Che lo si voglia o meno, l’Africa si è fatta carne in Europa, così
come l’Europa si è fatta carne in Africa. Questa co-nascita, o questa
co-incarnazione, anche se è stata esercitata sulla base di un rapporto di forza
asimmetrico, è un fatto oggettivo da cui non abbiamo ancora cominciato a trarre
tutte le possibili conseguenze filosofiche, politiche e culturali.
Poco importa questa doppia genesi, che gli si dia o meno il nome di
“creolizzazione”, come fece l’antillano Édouard Glissant. D’altra parte
quest’intreccio è proprio l’enigma che siamo chiamati a decifrare assieme, in
questo nuovo tempo per dargli una dimensione politica.
A questo riguardo, sarà sempre necessario tornare a quelle fonti battesimali
che furono la tratta atlantica e la colonizzazione, a condizione di sapere con
chiarezza che le significazioni ultime di questo incastro mutuo trascendono
entrambi questi eventi. Per questa ragione precisamente risalire all’origine di
queste significazioni impone che si ritorni sempre e continuamente a tale
memoria, non per compiacersi, ma per ricordare da una posizione vigile come è
urgente prendersene cura. Alcuni possono pensare che i problemi di memoria e
cura non servono a niente. Eluderli rivelerà semplicemente la loro evidenza e
aggraverà ancor più la loro tossicità.
Non esiste alcuna memoria delle sofferenze sterili che possa essere messa
al servizio della vita e della responsabilità. Perché le sofferenze del passato
siano superate, è necessario un paziente lavoro di verità e riparazione, e
questo lavoro è per definizione, interminabile. Sepolti nella profondità di
ogni trauma storico si trovano giacimenti di possibilità. Ed essi non possono
essere scoperti se non grazie ad un nuovo pensiero e a delle nuove azioni su
dei fronti sempre nuovi.
Far esistere un altro avvenire
Montpellier ha inoltre rivelato l’esistenza, sempre più affermata, di
un’Africa che non aspetta più. Quest’Africa io l’avevo già incontrata nel mio
periplo per i dodici paesi che sono serviti come terreno di sperimentazione di
questo nuovo summit. Quest’Africa non si fissa su ciò che inciampa, su ciò che
urta, sul fatalismo che oggi passa per radicalismo. Essa parte dal presupposto
che c’è qualcosa da cogliere dalla parte del varco che si apre, nel nuovo
spazio che arriva.
Ha una conoscenza viva di Kwame Nkrumah, di Cheikh Anta Diop, di Patrice Émery
Lumumba, di Nelson Mandela, di Thomas Sankara e di molti altri. Ma non sente
più il bisogno di inginocchiarsi davanti a loro tutte le mattine, di ripetere i
loro nomi mattina e sera. Ha piuttosto gli occhi aperti, dritti verso quello
che l’aspetta, che dovrà elaborare e costruire in vista di quello che arriva,
per far esistere un avvenire.
In effetti in mezzo alla confusione attuale, un’altra cesura sta prendendo
forma. Chi cerca di far esistere un altro avvenire si oppone a quelli che,
neutrali o meno, si accontentano del ruolo di semplici commentatori incapaci di
pesare sulla storia che si succede sotto i loro occhi.
In questo momento, di fronte all’imprevisto e a volte in condizioni di estremo
abbandono, le comunità forgiano pazientemente dei mezzi fragili di esistenza
fuori dei circuiti ufficiali. Intorno a questi gesti apparentemente anodini,
nascono nuove modalità, altre forme di legittimità, e con esse si creano nuovi
spazi autonomi. La maggior parte di questi sforzi hanno luogo negli ambienti
che la stessa vita sembra aver disertato, contesti di insicurezza generale
caratterizzati da una mancanza strutturale di assicurazioni e garanzie contro i
rischi di ogni tipo.
Democrazia e redistribuzione dei mezzi di sopravvivenza.
Oggi la miriade di lotte esistenti riguardo la redistribuzione equa dei
mezzi di sopravvivenza ricolloca, poco a poco, la questione della democrazia e
della mobilità al primo posto dell’agenda Africa-Francia-Europa. Perché senza
democrazia, vale a dire la creazione di ambienti istituzionali, legali
economici e culturali capaci di assicurare i mezzi di sopravvivenza al maggior
numero di persone, tutto resterà vano e sarà costruito sulla sabbia.
La maggior parte di queste lotte si effettuano attraverso linguaggi che noi non
capiamo. Sono portati avanti con “armi miracolose” (Aimé Césaire). Il nostro
modo di analisi e le nostre griglie di valutazione non riescono a misurarne il
valore. Esse resistano alle nostre logiche contabili. All’improvviso non le
vediamo più, non le sappiamo nominare, e soprattutto non sappiamo seguirle come
si deve, quando si deve e lì dove si deve. Del resto troppo spesso i progetti
che preferiamo e gli investimenti che facciamo, finiscono per distruggere
queste piccole infrastrutture, impedendo la necessaria circolazione di ciò che
è vivo.
È dunque arrivato il momento di riflettere sulle nostre priorità e sui nostri
strumenti, sulle nostre azioni e sui nostri metodi, e soprattutto sui valori su
cui poggiare tutto il progetto di ripartenza. La politica della purezza, che
consiste in non comunicare che con quelli e quelle che pensano come noi, non ci
porta da nessuna parte. Una critica che si accontenta di decostruire per non
costruire niente.
Non è il momento solo dell’analisi, ma anche quello delle proposte. Una
concezione del politico come lotta mortale in cui l’obbiettivo è sterminare il
nemico o sottometterlo, o come un gioco a risultato nullo non è auspicabile.
Porta solo al settarismo. La dicotomia tra agire dall’interno delle strutture e
mantenere la propria purezza restando fuori è debilitante. Ricreare puramente e
semplicemente la Françafrique non è la scommessa che Emmanuel Macron fa
sull’Africa. Che si sia d’accordo o meno con lui, gli atti compiuti dopo il
2017 non equivalgono a una rottura completa, certo, ma non sono neanche poca
cosa. Del resto, vengono sollevate questioni di fondo che si sbaglierebbe ad
eludere. È possibile per esempio minare le fondamenta dell’autoritarismo post-coloniale
sulla base di una nuova categoria di attori sociali e su nuove generazioni
disposte all’innovazione che vogliono ardentemente approfittare delle
opportunità che gli vengono offerte dall’economia di mercato? Se deve aver
luogo la rivoluzione dei “cadetti sociali” (le giovani e le donne) ciò non
dipende forse da un maggiore accesso a nuove dotazioni in risorse e capitale?
Quale nuova generazione di strumenti potrà effettivamente dispensare queste
risorse e questo capitale?
In questo scenario non sarà più il ruolo della Francia ad assumere la
responsabilità della decapitazione delle élite predatrici che ha sostenuto a
forza dopo gli ultimi decenni della colonizzazione o supportare il costo
diretto di una trasformazione politica dei paesi africani. In teoria, questo
compito tornerà agli stessi africani – e non deve essere impedito con diversi
pretesti come la stabilità, la sicurezza e l’aiuto allo sviluppo.
Dopo il 2017, si è scelto di dare la priorità a degli investimenti
apparentemente neutri. È il caso del digitale, del mondo imprenditoriale, e poi
quello dell’innovazione, i PME, i rapporti di genere, le industrie culturali e
creative, lo sport. Questi investimenti permettono alla Francia di
salvaguardare se non di estendere i suoi interessi in direzione di nuove
nicchie di influenza. Ma la vera questione politica non è solo sapere come
finanziare questi nuovi settori. È soprattutto sapere come contribuire
all’emergenza di un nuovo blocco storico. Questo non può che emergere
quando il rapporto di forza tra lo Stato e la società è profondamente messo in
causa. Pensare questo riequilibrio e riorganizzarlo non è forse l’inizio di
nuove lotte per la democrazia?
Tre vettori del cambiamento di passo.
La Francia ha su questo piano perduto molto tempo e molto credito nel
continente. Cercando a qualsiasi prezzo il favore di poteri vecchi e corrotti,
ha fatto imputridire troppe situazioni che esigevano invece di essere trattate
energicamente, con urgenza e audacia, e non di svegliarsi solo quando tutto
ormai è consumato, spesso per ricorrere alla soluzione militare là dove i
conflitti sono invece nell’ordine dell’economia morale. Delle situazioni per la
maggior parte putride hanno finito per infettare gli spiriti, profondamente.
Oggi servono come ricatto nelle mani di più di un ricattatore deciso ad agitare
lo spauracchio turco, cinese o russo con l’intenzione di estorcere guadagni,
concessioni e vantaggi. Bisogna quindi, costi quel che costi, liquidare una
buona volta tutti questi passivi per passare ad altro. Uno degli elementi
chiave di un tale lento cambio di passo consisterà nell’accelerare il ritmo
della storia africana con una iniezione di velocità. Questo cambiamento di
parametro del tempo e dell’azione produrrà inevitabilmente delle nuove
dinamiche. I sistemi inerti saranno allora obbligati ad adattarsi cambiando, o
saranno soppressi in conseguenza del ciclo naturale delle generazioni.
La strategia del lento cambio di passo non vuole dunque creare il caos né
aggravare l’instabilità, ma introdurre piuttosto complessità nel gioco
moltiplicando le variabili. Il cambiamento potrà allora organizzarsi sulla base
di una coalizione à la carte, che sia a scala di un paese o di una
regione.
È da questo punto di vista significativo che Emmanuel Macron guarda
all’equazione africana a partire da tre angolazioni. Innanzi tutto si è
sforzato di accelerare la conversione verso un nuovo tempo del mercato, della
finanza e degli affari. La salvaguardia e il proseguimento degli interessi
francesi in Africa esigono un’espansione oltre il vecchio perimetro francofono.
A testimoniare il graduale riorientarsi del flusso di scambi verso le zone
anglofone e lusofone, l’accento messo sull’imprenditoria, ma anche le
riflessioni in corso riguardo la ridefinizione dello sviluppo, il ruolo delle
banche pubbliche d’investimento i partenariati pubblico privato la creazione di
nuovi modelli di finanziamento il ruolo del debito e la sua gestione attraverso
nuovi dispositivi, e più globalmente il ruolo dell’Africa nella governance mondiale
degli istituti finanziari internazionali.
L’altro vettore del lento cambio di passo è il nuovo tempo tecno-numerico. Su
questo piano la politica di Emmanuel Macron sarà portata avanti da una
generazione inedita di investimenti nell’economia digitale. Molte speranze sono
in effetti riposte in questo settore, e le sfide finanziarie occupano la parte
più in vista della scena.
Ora, l’innovazione tecnologica deve essere vista in modo storico. Essa non
è solo un vettore di trasformazione economica ma anche di cambiamenti culturali
estremamente profondi. Può essere una leva per la creazione di nuove
piattaforme economiche ma di fronte a sistemi chiusi e inerti, può generare
anche altre modalità di rapporti e di organizzazione più adatta al carattere
aperto, poroso, elastico delle società africane.
Una delle ultime infrastrutture del lento cambio di passo è da cercare nel
campo di quello che viene chiamato creazione generale. Questo tempo
ci è stato mostrato dalla Africa2020. Là si trovano cose relativamente
inesplorate e dal forte potenziale d’innovazione e di redditività: cinema,
cucina, moda, letteratura, musica, sport, danza, fotografia, architettura,
musei, patrimonio, ecc.ecc.
E bisogna ancora una volta che questo tempo di creazione generale non sia
solo considerato dal punto di vista della finanza, ma anche e soprattutto dal
punto di vista della produzione dei beni pubblici e del senso e del valore, dal
punto di vista dei giacimenti critici, senza i quali non è possibile costruire
società durabili. Bisogna ancora creare una specie di istituzione- laboratorio,
luogo permanente e autonomo, capace di stimolare questa creazione e di
migliorarne la visibilità.
Sbloccare mobilità e circolazione permetterà di legare gli uni agli altri
questi tre vettori del lento cambio di passo. Resterà allora da trasformare
radicalmente le forme della presenza militare e le modalità di proiezione della
forza sul continente.
Sulla base delle sole risorse la Francia non è più capace di imporsi da
sola per molto tempo sull’ampio teatro del continente africano. A breve o a
medio termine sarà obbligata a cambiare direzione. Il momento della grande
occasione con il continente è dunque arrivato. Tanto vale prenderne
coscienza e organizzarsi senza indugio.
Proponiamo questo articolo per gentile concessione della rivista
francese AOC che lo ha pubblicato in versione originale il 13 ottobre 2021
(L.A.)
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