“Un buon
capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione”
(A. Bloch)
L’11 novembre, la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, come noto, ha
emanato una direttiva per limitare le manifestazioni pubbliche. La ministra,
nelle dichiarazioni che hanno accompagnato il provvedimento, ha detto che il
disagio causato alle attività commerciali nei centri storici motivasse
ampiamente il divieto dei cortei. Per i prossimi mesi, il governo Draghi
vieterà, nei centri urbani, i cortei, tutti i cortei. Chiunque voglia
manifestare la propria indignazione, nei confronti delle misure adottate dalle
forze governative, non potrà farlo nei centri delle città, né a ridosso dei
cosiddetti obiettivi sensibili, i quali, tra l’altro, corrispondono, il più
delle volte, ai responsabili che hanno determinato le condizioni per cui si
manifesta.
Il conflitto sociale viene gestito a partire da una logica preventiva. Non
c’è alcuna soglia di tolleranza per le lotte sociali. Ciò avviene nel nome
del diritto/dovere a consumare, attraverso l’abuso, assolutamente strumentale,
dell’aumento dei contagi. Entro questa logica si scarica, per
l’ennesima volta, la pessima gestione della crisi pandemica sul
comportamento dei cittadini. La crisi di legittimità del comando
corrisponde al carico di coercizione che esso impone. Il divieto di
manifestare nei centri cittadini risponde alla stessa logica adottata con i
decreti antiaccattonaggio, e con i daspo urbani. Tale misura non ha nulla a che
vedere con l’adesione o con la contrarietà al green pass. Quanto
avviene mette in evidenza la profonda crisi di legittimità dello Stato. Lo
Stato, nel momento in cui non ritiene percorribili le soluzioni a disposizione,
si blinda, vieta e reprime.
Militarizzare il territorio
La gestione criminale della pandemia da parte dei governi Conte e Draghi ha
prodotto più di centomila morti e un contesto perfetto per lo “stato di
emergenza” perenne. In Italia, durante questa emergenza pandemica, si è
assistito a un gigantesco sperpero di soldi pubblici. Anziché mirare a un
potenziamento della sanità pubblica, depauperata da trent’anni di
“aziendalizzazione”, di tagli e di esternalizzazioni, abbiamo constatato che le
principali voci di spesa hanno riguardato la militarizzazione, i posti di
blocco e i pattugliamenti. Alla pandemia è stata fornita una risposta univoca:
la militarizzazione del territorio. In continuità con i “decreti sicurezza”
degli ultimi anni, la militarizzazione è stata reputata la soluzione più
adeguata al problema della povertà, delle diseguaglianze e dell’esclusione.
Nei quasi due anni di “stato di emergenza” pandemica, è stata condotta una
progressiva ridefinizione del capro espiatorio, e dunque del “nemico pubblico”:
in principio era riconducibile a chi faceva la “corsetta” o anche solo la
passeggiata, mentre le fabbriche di Confindustria restavano aperte e i mezzi
pubblici viaggiavano stracolmi di pendolari. In un secondo momento è stato
sferrato l’attacco alla “movida” e a chi non aveva scaricato l’app “Immuni”.
Poi è stato il turno degli “irresponsabili”, coloro che erano andati in ferie,
molti dei quali accedendo al “Bonus vacanze” disposto dal proprio governo.
Attualmente il nemico pubblico è chi si oppone al green pass. In ognuno dei
casi passati in rassegna, e attraverso specifiche modalità, le colpe del
governo e dei padroni sono state scaricate sui “nemici pubblici”, al fine di
perpetuare una gestione aziendalista dell’emergenza. La pandemia ha costituito
la leva con la quale azionare un’enorme ristrutturazione capitalistica della
società.
L’emergenza nazionale per il covid-19 è stata dichiarata dal governo
italiano il 31 gennaio 2020, per una durata di sei mesi. Le prime misure di
emergenza, invece, sono state intraprese il 23 febbraio, con il blocco delle
manifestazioni sportive e la chiusura delle scuole. In data 8 marzo 2020, il
decreto numero 11/2020, ha disposto la chiusura di tutte le attività, ad
eccezione di quelle essenziali come farmacie, negozi di alimentari, logistica.
Sono stati inoltre limitati gli spostamenti all’interno delle città di
residenza, dietro presentazione di un modulo di autocertificazione che ne
fornisca la giustificazione. Sulla base delle norme emergenziali varate dal
presidente del Consiglio Conte, secondo i dati forniti dal ministero
dell’Interno, dal giorno 11 marzo 2020 al giorno 26 marzo 2020, 115.738
cittadini sono stati denunciati penalmente. Alla stragrande maggioranza di essi
veniva contestata la violazione dell’art. 650 del codice penale. La
disposizione su cui si basavano le contestazioni era quella dell’art. 3, comma
4, del d.l. n. 6/2020: “Salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il
mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è
punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale”. Questa disposizione è
stata poi abrogata dal d.l. n. 19/2020: Il legislatore, però, non si è limitato
all’abolizione. All’art. 4, comma 8, del d.l.: n. 19/2020 ha previsto che ai
fatti incriminati dalla norma ora abrogata, e commessi prima dell’abrogazione
(cioè prima dell’entrata in vigore dello stesso d.l. n. 19/2020), sarebbe stata
applicata, retroattivamente, la sanzione amministrativa pecuniaria di 200 euro:
vale a dire, la sanzione amministrativa prevista in via generale dall’art. 4,
comma 1, del decreto, ridotta della metà rispetto al minimo edittale (400
euro). In questo specifico caso, il legislatore ha tentato di salvare la
faccia, ma è quasi certo che non sia riuscito nel suo poco nobile intento. Più
di centomila denunce si sono accumulate nell’arco di quindici giorni. E queste,
oltre ad essere di assai dubbio fondamento, avrebbero certamente finito con
l’ingolfare il sistema giudiziario. Per non incappare in una mole abnorme di
procedimenti archiviati, e, al fine di scongiurare un giudizio di
costituzionalità dell’art. 3, comma 4, d.l. n. 6/2020, il governo ha eliminato
la norma dall’ordinamento, escogitando, al suo posto, una sanzione
amministrativa pecuniaria retroattiva.
Quindi, nel momento in cui l’emergenza sortisce effetti squilibrati, il
potere lavora a un’attenuazione della presa, smussa gli spigoli, diminuisce
l’intensità della propria morsa e, nel tempo, si lascia sedimentare. Attraverso
la gestione calibrata dei propri “ritmi” d’azione, il potere è in grado di
stabilizzare i suoi effetti e renderli permanenti: le emergenze che si
sono succedute hanno prodotto un’effettiva “sovrapposizione”. Tale
“accumulo” consente di sottoporre le stesse emergenze, nonché le relative
misure, a una vera e propria “stratigrafia”.
La lunga storia dell’allarmismo emergenziale
È nelle perenni emergenze che occorre indagare, poiché intercorre uno
stretto rapporto tra la dichiarazione di emergenza nazionale e il controllo
politico-militare dello Stato e dei suoi apparati repressivi. L’allarmismo
emergenziale serve spesso a giustificare la sistematica erosione dello stato di
diritto e a “sorprendere” l’opinione pubblica. Stiamo ancora vivendo le emergenze
della legislazione speciale anti-terrorismo, quando i militanti della lotta
armata erano nemici dello Stato e del sistema partitico. Essi furono introdotti
in carceri speciali, furono assoggettati all’articolo 90 (l’antesignano
dell’attuale 41bis) e subirono torture. Tra gli anni Settanta e gli anni
Ottanta, lo Stato varò leggi d’emergenza e istituì tribunali speciali. Ai
militanti furono inflitte condanne esemplari.
Negli anni Ottanta lo Stato si accanì contro i tossicodipendenti,
importando dagli Stati Uniti logiche e norme di “tolleranza zero”. I
consumatori di sostanze furono stigmatizzati e sottoposti a regimi detentivi,
trasformando la “guerra alla droga” in lotta a oltranza contro le
vittime delle droghe, che intanto morivano a migliaia. Anche in quest’ultimo
caso, furono promulgate nuove leggi, improntate alla massima severità: la
tossicodipendenza, da problema sociale, fu tradotta in una questione penale.
All’inizio degli anni Novanta, in nome della lotta alla mafia.
furono varate ulteriori leggi e misure eccezionali: l’ergastolo ostativo e il
carcere duro del 41 bis sino alla morte.
A seguire fu il turno dei migranti: erano troppi, a detta dei
politici e dei media; il flusso migratorio incuteva timore, e, per tal motivo,
poteva essere facilmente strumentalizzato da forze politiche sempre più
ciniche. La legge Martelli del 1990 tentava di governare i flussi,
programmandoli sulla base delle necessità produttive del Paese, riducendo così
gli uomini a manodopera; al contempo, questa legge sanzionava penalmente, anche
con il carcere, l’immigrazione clandestina e fissava meccanismi di
espulsione. La successiva legge Turco-Napolitano del
1998 istituì per la prima volta i Centri di Permanenza Temporanei, vale a dire
prigioni in cui detenere persone colpevoli solo di essere straniere,
sottoponendole a un “diritto penale del nemico”. Questi impianti normativi sono
stati potenziati con l’innesto della legge Bossi-Fini del 2002.
Negli anni Novanta venne istituito anche il daspo, per colpire le tifoserie
violente. Il daspo indica il divieto per uno spettatore di assistere a diverse
competizioni sportive, per un arco di tempo ben preciso. Il daspo viene deciso
dal questore, ma nei fatti sono i funzionari di polizia, attivi sul campo, che
segnalano ai propri superiori di infliggere un divieto di accesso allo stadio
per un soggetto preso in flagrante o coinvolto in un’inchiesta. Il daspo può
essere attivato a completa discrezione dei funzionari di polizia, senza alcun
obbligo di controllo giudiziario preliminare. Nel corso degli anni, l’istituto
del daspo è stato ulteriormente inasprito per i tifosi, e la sua applicazione è
attualmente prevista per un’ampia fascia di soggetti “marginali”.
Minniti, Salvini e Scelba
Nel mirino sono finiti i poveri, i senzatetto, i mendicanti, i lavavetri, i
malati psichici: questo specifico strato sociale arrecava disturbo, ed è stato
quindi criminalizzato a colpi di decreti-sicurezza, di polizie municipali e di
“daspo urbani”. Dal florilegio di ordinanze dei sindaci, nella metà degli anni Novanta,
si è giunti alle più recenti norme Minniti-Orlando e ai decreti Salvini. Con
gli ultimi due decreti è stata reintrodotta la penalizzazione del blocco stradale
e del blocco ferroviario. Questa fattispecie di reato fu introdotta, a suo
tempo, da Scelba, il ministro dell’Interno che negli anni Cinquanta era
specializzato nella repressione antioperaia!
Da più di dieci anni assistiamo a un abuso della decretazione d’urgenza in
tema di “pubblica sicurezza”. Ben quattro ministri (Maroni, Minniti,
Salvini, Lamorgese) hanno impropriamente utilizzato la formula del decreto
legge per introdurre all’interno del nostro ordinamento norme finalizzate a
sacrificare, in nome del “decoro”, della “sicurezza” e “dell’ordine pubblico”,
i principi costituzionali, comportando una preoccupante flessibilizzazione dei
diritti fondamentali.
Nell’attuale contesto, le forme di opposizione o gli interessi divergenti
al Capitale sono affrontati come “nemico bellico”. La logica e la
tattica del conflitto bellico sono progressivamente adattati e calibrati alle
“operazione di polizia”. Questa forte tendenza ha compromesso i fondamenti
dello Stato di diritto, giacché, in una guerra permanente e infinita, lo Stato
che la conduce deve assumere i connotati di uno “Stato di guerra permanente”.
All’interno di questa cornice istituzionale e “bellica”, alle forze di
opposizioni è sottratta la propria legittimità. Se lo stato di
eccezione diventa, giorno dopo giorno, la “normalità” del mondo, il
“laboratorio Italia” scopre di avere una rilevanza strategica sul piano
teoretico ed empirico. Quarant’anni di “legislazione d’emergenza” hanno
mutato in ovvia consuetudine la manipolazione indiscriminata dei codici penali,
senza alcun riguardo per il grado di coerenza delle norme stesse con lo “Stato
di diritto”.
Nella prospettiva securitaria, l’identità del nemico deve restare
nell’indeterminatezza, affinché chiunque possa essere identificato come tale. Il mantenimento di
una stato di paura generalizzata, la depoliticizzazione dei cittadini e la
rinuncia a qualsiasi certezza del diritto sono solamente tre delle
caratteristiche che qualificano lo Stato di sicurezza. Da un lato, infatti, lo
Stato di sicurezza verso il quale stiamo scivolando fa il contrario di quanto
promette; una condizione di sicurezza implica un’assenza di preoccupazioni,
invece, lo Stato, nel verso opposto, sostiene la paura e il terrore. Al
contempo, lo Stato di sicurezza si traduce in uno Stato di polizia. Attraverso
l’eclissi del potere giudiziario, lo Stato generalizza ed estende i margini di
discrezionalità della polizia.
Il G20 di Roma: logiche e applicazioni degli apparati di potere
L’itinerario “emergenziale” ricostruito consente di porre un fermo immagine
sullo sfoggio che il potere fa della propria forza.
Le risorse umane, gli strumenti tecnologici e le tattiche operative
assemblate dagli apparati di Stato, in vista del G20 di Roma, hanno evidenziato
l’adozione di un’inedita postura securitaria: l’area urbana, che nella
preparazione a questo genere di appuntamenti istituzionali è modellata entro un
assetto prevalentemente poliziesco, ha assunto, in un questo specifico caso, un
assetto marcatamente militare. Tale “strappo” securitario si è
caratterizzato per la compresenza di specifici fattori, predisposti entro il
perimetro delle attività governative e inter-governative:
1.
È stata istituita dalle ore 20 locali del giorno 28 ottobre alle ore 01:59
locali del giorno 1 novembre, una zona di interdizione a tutto il traffico
aereo (No fly zone, comprensiva di un’area circolare estesa per 6,5 chilometri,
avente come asse centrale il centro congressi La Nuvola). Nello stesso arco
temporale è stato chiuso lo scalo di Roma Urbe e sono stati proibiti i voli
VFR, per un raggio di 35 miglia dal punto centrale. Entro un raggio di poco
inferiore ai 140 chilometri da Roma, è stata istituita un’air defense
identification zone, nella quale il traffico attivo ha operato
esclusivamente con il corretto codice trasponder assegnato. Nel caso in cui gli
aeromobili, compresi i piccoli droni civili, non fossero stati muniti di tali
requisiti speciali, sarebbero stati abbattuti da un sistema anti-droni. Sono
stati emessi, inoltre, divieti per le attività di volo nelle avio/elisuperfici
del Lazio, fatte salvo specifiche eccezioni.
2.
Sono state dispiegate 2.542 unità della Polizia di Stato, 1.774 dell’Arma
dei Carabinieri, 580 della Guardia di Finanza e 400 unità militari, in aggiunta
al contingente dell’Operazione “strade sicure”, per un totale di 5.296 uomini
delle forze di polizia e delle forze armate, integrati dai servizi di sicurezza
appartenenti ai paesi partecipanti al G20. Il contingente delle unità militari
destinate a “strade sicure” è salito, in vista del G20 di Roma, a circa 2000
unità1.
3.
Sono stati azionati, nelle attività di monitoraggio, droni e aerei spia.
Gli elicotteri adoperati erano muniti di visori notturni.
4.
Sono stati mobilitati i reparti speciali anti-terrorismo, Nocs e Uopi per
la Polizia di Stato, Gis, Api e Sos per i Carabinieri. Sono stati inoltre
collocati, in postazioni strategiche, tiratori scelti e unità speciali
interforze.
Durante le attività del G20, nella città di Roma, gli apparati di potere
hanno disinnescato, attraverso un approccio preventivo, e con evidente
successo, le potenziali forme di mobilitazione popolare, in contrasto con le
attività dei capi di Stato e delle relative diplomazie. L’inter-operatività
degli elementi su elencati, la loro capacità di attivazione istantanea e
simultanea, l’ampiezza del proprio dispiegamento, la propria effettiva potenza
di fuoco e, in ultimo, l’estensione della propria capacità panottica, hanno segnato
l’aumento significativo del gap fra le potenzialità di dispiegamento
governative e le azioni di contrasto delle forze popolari. L’ampiezza di questo
divario pare, con la chiusura dell’ultimo G20, pressoché incolmabile: le
forze popolari non dispongono di un’organizzazione tecnica e operativa in grado
di fronteggiare il dispositivo poliziesco-militare delle forze statuali e
intergovernative. Gli apparati di potere hanno imposto e disposto un
assetto da guerra, all’interno di una capitale europea, Roma, la quale, sino a
prova contraria, non presenta condizioni e rischi di ordine bellico.
I fattori descritti nei quattro precedenti punti costituiscono un insieme
assolutamente eterogeneo (Foucault, 1977), di matrice prevalentemente
operativa, che include e investe, col e nel proprio dispiegamento, apparati
istituzionali (attori governativi e forze di polizia), spazi
geografici (edifici, strade, luoghi di socialità), specifiche
misure di polizia (cordoni di contenimento, presìdi, stazionamenti,
armi di difesa e offesa), norme e disposizioni amministrative (chiusura
dello spazio aereo, specifici divieti di volo, di transito, di sosta
etc.), discorsi di autolegittimazione (la necessaria
prevenzione al rischio “anarco-insurrezionalista” e a quello “antagonista”). Un
dispositivo di potere è costituito, per l’appunto, dal coordinamento funzionale
fra questi elementi.
Poste tali osservazioni, è logico domandarsi: in relazione al G20 di Roma,
a partire da quali particolari motivazioni, e sulla base di quali specifici
criteri, può essere considerata legittima una sproporzione così ampia fra le
reali condizioni di rischio e un dispiegamento preventivo così imponente?
L’ex comandante del reparto mobile di Roma, Vincenzo Canterini, il quale
condusse l’irruzione alla scuola Diaz, ha espresso all’AdnKronos la seguente
valutazione2:
«Secondo me potrebbero presentarsi dei pericoli. È troppo tempo che i black
bloc stanno fermi, qualcosa devono fare. Ma quello che è successo nel 2001 non
potrà più accadere, assolutamente, anche per le diverse dimensioni… Qualcosa ci
sarà, ma roba di ordine pubblico e gestibile, se lo sanno gestire. A Genova c’è
stata tutta una serie di fattori che si sono combinati. Mi dissero che i black
bloc sarebbero stati 600-700: ho trovato una montagna. L’intelligence allora
era completamente sbagliata. Ci vuole gente che ne capisce e le ultime cose non
mi fanno pensare bene, soprattutto mi mette pensiero la direzione politica,
perché gli uomini dei reparti sono addestrati».
Al netto del pressapochismo e della genericità che, sul piano logico e
argomentativo, connotano l’argomentazione citata, ricondurre la spiegazione di
una specifica condotta politica e governativa a un episodio storicamente
determinato, seppur di enorme rilevanza (il G8 di Genova, in questo caso),
sottrae all’analisi la sostanza, ciò che letteralmente “sta sotto” e dunque
precede particolari passaggi storici, nonché le fallaci allusioni che di essi
forniscono alcuni residui del potere.
La bulimia del potere
In realtà, i progetti, le pianificazioni e le azioni governative sono
strutturalmente orientate alla realizzazione e al consolidamento di un telos
che esula, in buona parte, dalla particolare specificità di un precedente
storico e dalla relativa interpretazione storiografica: il potere
conduce, a priori, una sperimentazione costante di potenziamento dei propri
apparati, in vista di un’attivazione che garantisca, nella messa in moto
delle proprie funzioni securitarie, un livello sempre più elevato di efficienza
e di efficacia. La città è, in quest’ottica – il G20 di Roma
lo conferma – il laboratorio permanente entro cui il potere, attraverso
tentativi ed errori, conduce molteplici prove “empiriche”, al solo scopo di
sottrarre spazi geografici e risorse materiali ad ogni potenziale espressione
di contropotere.
Entro la costante logica dell’economicità, gli apparati di potere sono
sistematicamente orientati alla massimizzazione delle proprie capacità
organizzative e operative, e, al contempo, alla riduzione dei margini spaziali
e delle dotazioni strumentali attraverso cui le forze popolari possano
rivelarsi in grado di attivare le proprie residuali forme di ribellismo. È
nella dilatazione inarrestabile di questo differenziale che il potere realizza
il proprio scopo, il quale, evidentemente, ha poco a che vedere con la risposta
o la soluzione a una fatto storicamente circoscritto e, per giunta,
meschinamente manipolato nella sua narrazione (il G8 di Genova ad esempio). “Il
dispositivo ha sempre una funzione strategica concreta e si iscrive sempre in
una relazione di potere” (Agamben, 2006). L’agire del potere risponde,
anzitutto, a una necessità assoluta: legittimare la propria espansione, e,
conseguentemente, garantire la propria esclusiva conservazione. Ciò che
resta oltre lo scopo è riciclato dal potere come pretesto funzionale al
raggiungimento dello scopo stesso.
Alessandro Ugo Imbriglia, sociologo del conflitto e dell’industria
culturale
Italo Di Sabato, Osservatorio Repressione
1 I dati sono estratti da un articolo del Corriere della Sera,
pubblicato in data 28 ottobre 2021, accessibile qui
2 I frammenti citati sono estratti da un articolo pubblicato da Il
Tempo, in data 30/10/2021, accessibile qui
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