Tra due avvoltoi - Vincenzo Comito
Ricavi e fatturato delle aziende telefoniche sono crollati in tutto il
continente europeo. L’annuncio di Kkr dell’interesse per Tim potrebbe essere il
segnale che un mercato sonnolento aspettava per avviare una più che probabile
grande ristrutturazione, probabilmente sanguinosa, del settore.
La partita
sul controllo di Tim vede al centro della scena due “avvoltoi”, la statunitense
Kkr e la francese Vivendi.
La Kkr,
fondata nel 1976, è stata l’iniziatrice più importante di un nuovo corso
selvaggio della finanza, tanto che la conclusione della sua prima grande
operazione, quella dell’assalto alla Nabisco, suscitò un’ondata di commenti e
di imitatori; un libro di grande successo, I barbari alle porte,
del 1993, certificava a suo tempo l’assedio riuscito alla vecchia cittadella
della finanza e ai suoi metodi tradizionali. La nuova ondata coincideva in
qualche modo con l’avvento di Reagan e della Thatcher, mentre registrava anche
il nuovo potere dominante della finanza d’assalto sull’economia.
La Kkr e i
suoi tanti imitatori usano di solito una formula di intervento standard nelle
aziende che acquisiscono: 1) suddividono l’azienda nei suoi vari business,
ottenendo, per i magici poteri del mercato azionario, un valore delle parti più
elevato del tutto, 2) ne cedono alcuni pezzi, 3) caricano la compagine dei
debiti contratti per sviluppare l’operazione, 4) tagliano la manodopera; alla
fine la società, anche se non sempre, viene rivenduta normalmente con un
guadagno.
Ora, magari
su sollecitazione dello stesso amministratore delegato di Tim, Gubitosi, che ha
cercato di muoversi per far qualcosa contro la sostanziale sfiducia dei
francesi, arriva l’offerta per l’acquisizione della totalità delle azioni della
stessa Tim, mentre Kkr è già presente con una quota di minoranza in Open Fiber.
Nella logica del gruppo sembrerebbe quasi ovvio che, se l’acquisizione avrà
successo, si cercherà di separare i due business principali di Tim, rete
e consumer, mirando anche a ridurre la forza lavoro.
Altrettanto ovvia, per fare cassa, la cessione di Tim Brasile e di qualche
partecipazione minore.
Il francese
Vincent Bolloré controlla il gruppo pubblicitario Havas ed anche Vivendi,
presente quest’ultima in grandi forze nei media francesi; è attraverso un
canale televisivo da essa controllato che il patron ha lanciato con successo il
personaggio di Eric Zemmour, una figura di estrema destra razzista che contende
alla Le Pen la rappresentanza di questa parte dell’elettorato alle
presidenziali, mentre sempre Bolloré lavora comunque con tutti i suoi media per
spostare sempre più a destra lo spettro politico del paese. A suo tempo egli è penetrato in Africa,
sfruttandone le risorse con la complicità delle forze politiche del suo paese
(è, tra l’altro, intimo amico di Sarkozy) e con sospetti di corruzione di
dirigenti africani (sono stati aperti in Francia dei procedimenti giudiziari in
proposito).
Qualche anno
fa è partito alla conquista dell’Italia, come hanno fatto peraltro nel tempo
tanti altri operatori del suo paese di solito con rilevante fortuna e senza
grandi resistenze da parte dell’establishment nazionale.
Così ha provato una scalata a Mediaset da una parte, comprando circa il 29% del
capitale, mentre dall’altra ha acquistato il 24% di Tim diventandone il
principale azionista. Per il momento, non potendo evidentemente contare
sull’appoggio di Macron, suo avversario politico, gioca al rialzo sull’offerta
di Kkr, giudicandola al momento insufficiente; in effetti ci si attende un
rilancio di prezzo dell’offerta.
La sua
discesa in Italia si è comunque rivelata alla fine disastrosa; le azioni di Tim
sono valutate nel suo bilancio a circa 3 miliardi di euro, mentre il giorno
prima dell’offerta Kkr esse valevano 1,2 miliardi e la sua presa sulla società
è apparsa nel tempo piuttosto sfuggente, mentre, dopo una dura ed estenuante
battaglia, ha dovuto accettare di liquidare gran parte della sua partecipazione
in Mediaset, sempre con rilevanti perdite.
Dopo la
sciagurata privatizzazione nel 1997 di quella che allora si chiamava Telecom
Italia ed era la migliore impresa di telecomunicazioni di Europa, si sono
susseguiti intorno alla società moltissimi nuovi assetti azionari, da quello
ruotante intorno al gruppo Agnelli, a quello di Colaninno, a Tronchetti
Provera, a Telefonica, infine a Vivendi. Ogni volta i conti economici
peggioravano, mentre calavano gli investimenti ed aumentavano i debiti.
Il valore di
Borsa è diminuito dal 2018 ad oggi di quasi i due terzi, le linee fisse sono
passate a 8,7 milioni di unità nel settembre 2021 contro gli 11 milioni del
2017, mentre nella telefonia mobile i ricavi medi per abbonato sono diminuiti
del 40% negli ultimi 4 anni.
Ora i
principali problemi che si intravedono sono almeno tre: la continua conquista
di grandi e medio-grandi imprese nazionali da parte dello straniero, senza che
i vari governi battano un colpo e senza peraltro che anche i protagonisti dell’economia
italiana mostrino qualche capacità o volontà di reazione; la necessità poi di
una tutela nazionale della rete di telecomunicazioni da una parte, di quella,
dall’altra, dei 51.000 posti di lavoro, che, se sarà portata avanti questa
operazione, sono certamente a rischio per una parte
consistente. Il tutto mentre il governo si mostra possibilista sull’intervento
di Kkr.
Intanto, a
distanza di tanto tempo, l’assetto delle partecipazioni del gruppo Iri dimostra
di avere avuto una sua logica precisa, radicata nella situazione economica e
sociale del paese. In effetti, stanno ora tornando all’ovile una parte
consistente delle imprese a suo tempo privatizzate, dall’Ilva alle Autostrade e
noi pensiamo che anche per la Tim si dovrebbe rispolverare il controllo
pubblico di una rete tendenzialmente unica, una infrastruttura così essenziale,
fattore strategico, se ce ne è uno, dello sviluppo del paese e del suo ruolo
internazionale. Magari, per il settore consumer si
potrebbe utilizzare invece quella formula che ha mostrato avere successo,
con un controllo pubblico aperto al mercato, con l’ingresso nell’azionariato,
perché no, di qualche altra Telecom europea. Ovviamente, in ogni caso, bisogna
tutelare a tutti i costi i livelli di occupazione, cosa che può peraltro
funzionare bene solo in un’ottica di un progetto adeguato di sviluppo. Così la
società ha anche bisogno di una nuova strategia “offensiva” e di un management
forte.
Ma temiamo
che Draghi pensi invece a cedere il settore consumer agli
americani e di creare un assetto azionario pubblico-privato nella rete, magari
di nuovo con Kkr e qualcun altro.
Appendice
La difficile situazione delle imprese di Tlc europee
Il caso
della Tim appare per molti versi certamente complicato sul piano economico e gestionale,
con continue perdite di fatturato, conti spesso in rosso, mancanza di un
assetto proprietario in qualche modo stabile. Ma il caso dell’azienda italiana
è solo forse il più difficile in una situazione in cui quasi tutte le grandi
imprese di telecomunicazioni europee si trovano in una situazione non
brillante.
Che almeno
in parte ci troviamo di fronte a dei problemi comuni è indicato anche dal fatto
che mentre in Italia il valore di borsa del titolo Tim saliva in misura
rilevante dopo l’annuncio di Kkr, aumenti di prezzo si registravano
contemporaneamente anche per tutte le principali imprese europee del settore,
da Deutsche Telecom alla francese Orange alla spagnola Telefonica, indicando in
qualche modo una almeno parziale comunità di destini.
Intanto a
livello della sola Italia, secondo i dati della School of Management del
Politecnico di Milano, si registra un totale del fatturato del settore,
considerando l’insieme delle imprese operanti nella Penisola, che è passato dai
44,8 miliardi di euro del 2008 sino a 28,5 del 2020; un vero crollo e
consideriamo che c’è stata comunque un poco di inflazione. Ma i ricavi sono
diminuiti, nello stesso periodo, sia in Francia che in Germania che in Spagna,
anche se l’Italia è il paese che ha sofferto di più.
Un aspetto
fondamentale del problema è costituito dal fatto che, in una situazione di
continue trasformazioni tecnologiche, mentre negli Stati Uniti ed in Cina il
mercato è ormai controllato da sole tre imprese, in Europa si disputano un
business in calo circa 100 società. Appare evidente da questo punto di vista la
necessità di un consolidamento, che prevediamo non sarà indolore, in
particolare in quei paesi in cui almeno sino ad oggi i poteri pubblici sono
rimasti inerti.
In ogni
caso, l’annuncio di Kkr potrebbe essere il segnale che un mercato sonnolento
aspettava per avviare una più che probabile grande ristrutturazione,
probabilmente sanguinosa, del settore.
Tim nelle fibre del
potere - Matteo Bortolon (Cadtm Italia)*
*articolo pubblicato su il
manifesto del 4 dicembre 2021 per la Rubrica Nuova
Finanza Pubblica
Leveraged buyout è una di quelle sofisticate espressioni in ambito finanziario che
indicano una pratica alla fine abbastanza comprensibile: comprare un’azienda
con soldi presi a credito. E che dovranno essere ripagati con i profitti di
essa. In sostanza significa indebitarla.
Chi negli anni ha seguito la catastrofe (per il Paese) ricca di profitti
(per i capitalisti straccioni) che è stata la serie di privatizzazioni italiane
non avrà difficoltà a riconoscere lo schema che ha prodotto la “madre delle
privatizzazioni” di Telecom Italia e fine anni Novanta. Numerose analisi hanno
indicato quanto tale tara abbia ammorbato tale processo, risoltosi in
predazione e sfruttamento del lavoro e scarsi investimenti. Ma è una ben
curiosa nemesi che a fine 2021 entri in campo uno dei precursori del “comprare
col debito” come strategia industriale per comprare Tim: il fondo KKR.
La storia di Telecom Italia nasce nel 1994, quando secondo il piano di
riassetto del governo Ciampi vennero fusi diverse aziende pubbliche per essere
in seguito privatizzate dal governo Prodi nel 1997, passando attraverso le mani
di Colaninno e di Tronchetti-Provera per approdare in un dedalo di
partecipazioni azionarie, ad una cordata italo-spagnola, ed infine ai francesi
di Vivendi come azionisti di controllo.
Nell’aprile 2021 prende corpo una società unica formata da varie aziende
che lavorano col web per fornire la tecnologia della fibra a tutto il paese:
FiberCop Spa. In essa compare, accanto a TIM e Fastweb, KKR & Co. Mette
così radici in Italia un potente fondo finanziario che investe in una enorme
quantità di settori: energia, media, servizi sanitari, tecnologia, chimica,
viaggi. A novembre il fondo manifesta una offerta di acquisto per TIM, che al
momento è in fase preliminare.
Giovedì 2 dicembre il ministro Giorgetti fornisce al Parlamento la
posizione del governo, che possiamo definire attendista: aspettiamo che le cose
si concretizzino, poi si vedrà; annuncia una valutazione delle implicazioni
della transazione, riservandosi la possibilità di bloccare tutto. L’esecutivo
per le norme del D. L. 21 del 2012 può impedire acquisizioni e fusioni in
settori strategici.
I membri del governo e dei maggiori partiti si sono già incontrati con i
sindacati dei lavoratori, ovviamente preoccupati (da parte dell’esecutivo
Giorgetti e Colao, da parte delle segreterie Letta e Salvini).
Nella sua informativa il Ministro ha affermato di voler tutelare la libertà
di mercato e gli interessi nazionali. Le due cose sono in contraddizione
flagrante. Una delle preoccupazioni è che le autostrade digitali sono diventate
uno dei fatto più importanti per la società dell’informazione e un elemento
fondamentale del PNRR – che va implementato per ottenere i soldi dalla Ue. Una
società comandata da un fondo speculativo sarà in grado di sviluppare una
coerente e efficace strategia produttiva?
Altro tema molto significativo è la tutela dei dati. Avere il maggior
operatore di telecomunicazioni in mano ad un’azienda USA può essere molto
pericoloso per la privacy delle persone; dai tempi delle rivelazioni di
Snowden, come ci ricorda la giornalista Stefania Maurizi che ha lavorato molto
sulla persecuzione di Assange e sui suoi sottesi strategico-spionistici,
sappiamo che gli USA non trattano l’Italia da pari a pari ma da subordinata; e
che aziende americane sono state indotte a fornire i dati in loro possesso alle
agenzie di intelligence con l’avallo di corti FISA in sedute
precluse al pubblico. Del resto è desumibile che il sempre osmotico legame con
gli apparati di potere statunitense delle grandi aziende renda più agevole la
collaborazione. A capo della unità di valutazione del rischio di KKL c’è l’ex
generale David Petreaus. Un nome una garanzia.
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