(nuova introduzione a 'La fabbrica della cura mentale')
All’inizio
del 2021 esce il libro di uno psichiatra ormai in pensione che romanza l’arte
di legare le persone. Questo psichiatra ha esercitato la professione nella
città di Genova, città molto poetica, lui si chiama Paolo Milone. Il libro è
abbastanza ben scritto e siccome non è un saggio ma una sorta di romanzo ecco
che ci frega. Abboccano per primi alcuni intellettuali insospettabili, che non
avrei mai creduto capaci di applaudire a questa malafede psichiatrica camuffata
da gesto narrativo. Intellettuali convinti che siccome la letteratura è
letteratura, in quanto tale deve poter dire tutto, Contro l’impegno,
per dirla con Walter Siti.
La
letteratura d’altra parte è magica, e ha il potere di muovere gli eventi e far
rinascere, come zombie, certe pratiche che credevamo di aver seppellito. Come
ogni magia la letteratura può essere bianca oppure nera, quando la letteratura
riesce a persuadere che legare le persone è un’arte, io dico che è una sorta di
magia nera.
Come i topi
del pifferaio di Hamelin, psichiatri afoni, psichiatri balbettanti, psichiatri
che non hanno scritto, non dico un romanzo alla Mario Tobino (quanto gli
piaceva a Mario Tobino il suo manicomio di Magliano, le libere donne, scriveva,
e quanto odiò Franco Basaglia e i novatori che glielo tolsero
quel suo manicomio) o alla Paolo Milone (quanto gli piace a Milone il manicomio
di Quarto, quanto si è gustato la sua rivincita sui novatori con
questo libro con cui ha persino vendicato Tobino di quel furto), ma nemmeno
mezza pubblicazione scientifica su una qualche rivista a pagamento, ebbene
psichiatri che per anni si sono vergognati di questa pratica – legare le
persone, si faceva nei reparti ma senza dirlo, senza neppure scriverlo nelle
cartelle cliniche talvolta – adesso che questo romanzo li ha rivalutati,
dipingendoli non più come fascisti ma come artisti, ecco che anche la carriera
diventa più facile. Devono ringraziare la superficialità di alcuni
intellettuali, che inconsapevolmente hanno sdoganato l’arte in cui certi
psichiatri si sentono maestri.
E così fa
carriera lo psichiatra che nel 2006 lavorava nel SPDC di Cagliari dove fu
ricoverato in TSO un venditore ambulante, Giuseppe Casu, che ebbe il TSO perché, sprovvisto di licenza
elementare, senza la quale non poteva fare il venditore ambulante, lanciò una bottiglietta
di acqua minerale al poliziotto municipale che gli smontava la bancarella e lo
ricoverarono coattamente. Dopo una settimana di legamento al letto Giuseppe
Casu morì, per un’embolia. L’immobilità forzata spesso causa tromboembolie, le
persone legate quando muoiono annegano nel proprio stesso respiro. Poco dopo il
corpo di Giuseppe Casu sparì dall’obitorio. Davvero. Non si trovò più. Che tipo
di SPDC era questo reparto psichiatrico di Cagliari, nel 2006? Lo descrive
molto bene Giovanna Del Giudice nel suo libro E tu slegalo subito. Un reparto chiuso, con
una guardia giurata. Nel primo semestre dell’anno precedente i tredici medici
che vi lavoravano avevano fatto ben 177 contenzioni – sì, avete letto bene, per
177 volte in sei mesi una persona era stata legata al letto – e inoltre
praticavano l’elettrochoc, uno dei pochi SPDC, dei 323 attivi in Italia, dove
ancora le persone venivano elettroscioccate. Nel 2012 a questo SPDC se ne
aggiunge un altro, nella città di Cagliari, dove va a lavorare lo psichiatra
che oggi ha vinto il posto di direttore di un CSM a Trieste. Entrambi i Servizi
Psichiatrici di Diagnosi e Cura di Cagliari, dopo una felice liberazione nel
periodo 2006-2012, quando la direzione del Dipartimento di Salute Mentale
cagliaritano fu affidata a Giovanna Del Giudice (periodo in cui le contenzioni
furono eliminate e le porte aperte), ritornarono velocemente allo status
quo ante, tant’è che il Garante nazionale dei diritti delle persone
detenute o private della libertà personale, nel suo rapporto del 2019, scrive
che la qualità degli habitat, la pratica della contenzione, la rinnovata
presenza di guardie giurate, le porte chiuse, caratterizzano entrambi i SPDC di
Cagliari, in uno dei quali, tra l’altro, nel 2018 è morto un altro uomo legato.
La faccio
breve: alcuni mesi fa il dottor Pierfranco Trincas, forte di questa sua lunga esperienza nei
SPDC cagliaritani, ha pensato di concorrere a nuovo direttore di un Centro di
Salute Mentale aperto nelle 24 ore di Trieste. Lo ridico: il direttore di un
SPDC chiuso, con porte chiuse e fasce, si candida a dirigere uno dei CSM aperti
24 ore su 24, tra i più avanzati al mondo. Ciò accade perché lo psichiatra sa
di avere delle chance. Forse perché l’arte di legare è stata riabilitata
perfino dalla letteratura? Infatti, lo psichiatra restraint, pur
senza titoli, vince il concorso.Impossibile, direte. La valutazione delle
pubblicazioni e del curriculum dei candidati assegnava il primo posto a Mario
Colucci, psichiatra di formazione basagliana e lacaniana, tra le altre cose
redattore della rivista «aut aut», autore di decine di pubblicazioni importanti,
tra le quali, coautore con Pierangelo Di Vittorio, la migliore monografia su Franco Basaglia. La prova orale,
però, premia Pierfranco Trincas (era terzultimo quanto a titoli, con le
sue due pubblicazioni).Per capire le ragioni di un sorpasso
impossibile si può andare a vedere da chi era presieduto questo concorso che si
svolge in una regione e una città amministrate dalla Lega. Lo presiedeva un’altra
psichiatra della scuola dei legatori, potremmo dire. Emi Bondi, nel 2019,
dirigeva il SPDC dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, reparto dove la
diciannovenne Elena Casetto muore
bruciata il 13 agosto di quell’anno, mentre è legata al letto. Anche in questo
caso, non sto insinuando che la colpa della morte di Elena Casetto sia di
questa psichiatra, ci mancherebbe altro, non posso dirlo anche perché non è
stata condannata né lei né gli altri operatori sanitari del reparto (sono stati
rinviati a giudizio solo due operai del servizio antincendi). Quel che voglio
sottolineare, però, è il paradosso di una psichiatra, responsabile di un
SPDC restraint (con porte chiuse e uso di fasce), che si trova
a valutare chi debba essere il miglior candidato a direttore di un CSM aperto
nelle 24 ore della città di Trieste, dove c’è un Dipartimento di Salute Mentale
che ha un solo SPDC, sempre aperto e dove non si legano le persone.Insomma, si
sarà ormai capito il mio punto di vista: l’arte di legare le persone è
l’arte in cui devi eccellere, in questo momento storico, se vuoi fare carriera
nella psichiatria italiana.
C’è un altro
psichiatra che non ha mai preso le distanze dall’esercizio di quest’arte,
nonostante nel 2018 la Cassazione abbia confermato la sua condanna per
sequestro di persona e falso ideologico (pena sospesa perché inferiore ai due
anni, mentre il reato di morte in conseguenza di altro delitto è andato in
prescrizione) per la morte, nel 2009, di Franco
Mastrogiovanni. Il maestro – lo chiamavano i suoi alunni – più alto
del mondo. Dopo 87 ore di agonia – filmati inesorabilmente dalle telecamere a circuito
chiuso del SPDC di Vallo della Lucania, poi diventati film grazie al magistrale
lavoro di montaggio di Costanza Quatriglio – Mastrogiovanni, come un Cristo in
croce, muore legato e l’intera équipe di medici e infermieri viene condannata.
Uno di loro, il dottor Raffaele Basso, da qualche mese è il responsabile del
SPDC di Frattamaggiore.
«Non si
resta ancorati a una visione antica» ha puntualizzato Massimo Di Giannantonio,
presidente della Società Italiana di Psichiatria, intervenendo nel dibattito del
concorso triestino vinto da Trincas. Come dire che una salute mentale di
comunità, senza fasce e senza reparti chiusi e con centri aperti nelle 24 ore è
l’antico, mentre il ritorno dei manicomi camuffati in forma di circa 300
servizi psichiatrici ospedalieri di diagnosi, farmaco e fasce è il nuovo che
avanza.
Io intanto
divento sempre più vecchio, quando ho iniziato a scrivere i primi pezzi di
questo libro non avevo quarant’anni e ora ho superato i cinquanta, eppure
continuo a non sopportare quest’arte di legare e chi di quest’arte s’è
innamorato e ne ha fatto narrazione. È più forte di me.
Sin dalla
prima volta che ho messo piede in un reparto psichiatrico, l’ho sempre vista
come una… cosa da pazzi, davvero, dell’altro mondo, che non sta né
in cielo né in terra, una cosa che noialtri vocati a curare le persone con l’io
fragile non ci possiamo permettere. Il lazo, il cappio, la fascia, la fune, la
corda, noialtri che siamo gli psichiatri non dobbiamo più averli tra i nostri
strumenti. E se pure fossero le nostre uniche armi per difenderci, noialtri che
siamo psichiatri dobbiamo operare disarmati.
Quando
arrivai in uno dei tanti SPDC dove ho lavorato, era il 2006, una delle mie
prime notti di guardia, il collega che mi lasciò il reparto affidandomi i
dodici pazienti ricoverati mi disse sommariamente come stava ognuno, del più
turbolento disse, assertivo: Questo se continua a fare casino va legato.
Nemmeno i cani lego, risposi – esagerando – al giovane collega che poi avrebbe
fatto una splendida carriera come sindacalista.
Basaglia,
quando il 16 novembre del 1961 arrivò nel manicomio di Gorizia come nuovo
direttore, si confrontò col caposala (o meglio, l’ispettore, allora si chiamava
ispettore) che voleva fargli firmare il registro delle contenzioni già fatte, e
in veneziano disse E mì non firmo. Io non ero direttore, non ero
veneziano e soprattutto, in quella primavera del 2006, erano già passati
quarantacinque anni dal 1961 e trent’anni dall’abolizione dei manicomi, eppure
quella pratica di legare le persone era più che mai in voga e anche io, come
Basaglia, mi sentivo un cane, un cane in chiesa, un cane nella chiesa della
psichiatria, un cane nella chiesa di questa miserabile psichiatria che legava –
nei manicomi – e lega – nei SPDC – le persone, qualcuno credendo, o volendo far
credere, che sia perfino un’arte. Se è un’arte, io dico che è la più miserabile
delle arti.
L’ultimo
episodio di non contenzione. Ve lo racconto. D’altra parte, ognuno racconta ciò
che sa fare. Io, se c’è una mezza cosa che ho imparato, è cercare
disperatamente di non legare le persone. Non sempre ci riesco. E le volte – non
molte per fortuna – in cui non ci sono riuscito, per le tante condizioni
avverse, mi sono sentito veramente una merda. Una delle volte che non ci sono
riuscito l’ho raccontata proprio all’inizio de La fabbrica della cura
mentale. Nel capitolo Prendila tienila legala! Allora mi
dissi: mai più. Inutile dire che non sono riuscito a mantenere la promessa.
Alcuni mesi
fa. Primo Maggio del 2021. Ancora non è iniziato il concertone, che stavolta si
fa all’Auditorium, e ancora l’imprenditore Fedez non ha sostituito Che Guevara
nel cuore del popolo della sinistra. Io sono in turno per tutto il giorno. C’è
l’ex detenuto ricoverato perché fuori non ha più una casa. C’è l’euforico che è
in fase mistica. Entra una nuova ragazza con idee esoteriche. I due si battono
per dimostrare a se stessi e alla ragazza di essere il maschio alfa tra i
ricoverati. L’euforico con un pugno stordisce l’ex detenuto. Ma l’euforico è
smilzo e l’ex detenuto è un torello ex pugile. È chiaro che il duello
proseguirà. Mi chiamano gli infermieri. Sono quattro. Due uomini, piazzati e
calmi. Due donne, piccole e gentili. L’équipe è perfetta. Loro mi piacciono.
Tutti e quattro. Non sono di quelli che perdono la pazienza, che vogliono
guardare la televisione o sgranocchiare patatine o guardarsi il telefonino. E
che al primo gesto di violenza ti chiedono di tirare fuori le fasce. Sanno che
lavorare in un reparto psichiatrico è diverso che lavorare in altri reparti.
Una specie di missione, mettiamola così. Parlo con l’euforico: Ok, hai fatto
bene a mantenere la calma. Parlo con l’altro: Mi ha tirato un pugno ma non mi
ha abbattuto, ora vedrà che gli faccio. Ma no, dai, tu sei un adulto in
confronto a lui, un uomo maturo, dimostragli quanto sei saggio. Si puntano, si
incontrano, gli infermieri ben piazzati li prendono, con forza e gentilezza
allo stesso tempo, e li separano, io faccio l’arbitro, è un incontro di boxe o
di lotta libera o di arte marziale da strada o da galera o da reparto
psichiatrico, un duello che non si deve fare. Che dobbiamo impedire. Passa il
tempo. Inizia una danza di noi, quattro infermieri, due ricoverati, un medico,
altri pazienti. All’inizio il marcamento è a uomo poi diventa a zona, infine si
sono sbolliti, viene l’ex detenuto da me, ride, dice: Ha visto che capacità di
controllo che ho avuto? Ho preso un pugno ma non mi sono scomposto. Dico:
Bravo, sei stato proprio bravo. Arrivano pure i carabinieri perché l’euforico,
minacciato di morte dall’altro, lo vuole denunciare, è un suo diritto, di
solito se un ricoverato chiama i carabinieri quelli non lo prendono sul serio
perché è ricoverato in psichiatria quindi inattendibile, ma li faccio passare,
dico: Venite perché lui è attendibile e ha tutto il diritto di dirvi ciò che
crede. E anche l’altro deve sapere che se minaccia di morte qualcuno, ne
risponde. Insomma, la faccio breve: nel 90% dei reparti psichiatrici d’Italia
questi due sarebbero stati legati. Per molti giorni. Così funziona. Non legare
è molto più faticoso. Ma vuoi mettere, tornare a casa stanco e non sentirsi una
merda.
«Io sono
della vecchia scuola, non sopporto i tentativi di convincimento infiniti, li
trovo più folli e violenti di una rapida virile e chiara contenzione». Perché –
aggiunge – «bastano due minuti per capire se un paziente è convincibile o no».
Così scrive Milone nel libro che non volevo leggere perché già il titolo mi
suonava orribile.
Secondo lo
psichiatra legatore, formato alla scuola del manicomio, quel che ho fatto io,
per l’intero pomeriggio del Primo Maggio del 2021, è qualcosa di folle – beh,
forse ha ragione, un po’ folle lo sono – ma soprattutto ingaggiarmi in una
negoziazione e una de-escalation continua è stato violento.
Poi è stato poco virile, si capisce. Giusto una femminuccia perde tempo con
questi due, quando avrebbe le fasce per metterli a corpo morto.
E i TSO?
«Fare un TSO vuol dire irrompere nella casa di qualcuno e trascinarlo di forza
in ospedale. Questa è un’operazione militare. Come tutte le operazioni
di tipo militare, richiede che nella squadra che parte vi sia conoscenza
reciproca, fiducia reciproca e accordo sulla gerarchia».
Ecco la
lezione di psichiatria militare, di psicopolizia, che prelude alla successiva
contenzione di quando poi si arriva in SPDC. E sì. Perché certe contenzioni
cominciano fuori, nel cosiddetto territorio, molto dipende da come il ricovero
viene iniziato, condotto, gestito. Lo psichiatra dice all’infermiere suo
sottoposto: «Procediamo», ma l’infermiere è Bartleby e risponde: «No,
aspettiamo», ma lo psichiatra non è Basaglia e fa: «Aspettiamo cosa? […] Io
sono medico e tu infermiere. […] La responsabilità è mia, quando dico
procediamo, procediamo».
Applausi. I
lettori che hanno letto questo trattatello di psichiatria manicomiale camuffato
da romanzetto autobiografico si sdilinquiscono. Come dicevo: si sono commossi
di tanta bellezza perfino intellettuali insospettabili.
L’infermiere
sottoposto allo psichiatra a quanto pare era un fenomenologo e voleva
fare epoché. Pur senza aver letto Husserl (ma non è detto), voleva
fermare l’azione. Iniziare la negoziazione. Negoziare è l’arte di convincere,
senza vincere. Farsi un’ora, due, tre di negoziazione per convincere a
ricoverarsi. Si può fare. Ma bisogna aver pazienza. Quel paziente, rapidamente
obbligato, sarà certamente giunto legato, in reparto.
Sapessi
quante volte, o lettore, ho evitato legamenti solo perché ho fatto come
quell’infermiere, ho aspettato. Talvolta ho aspettato anche tutta la notte.
Prenderli per sfinimento. Il fatto è che voi non li conoscete, quelli che
cantano l’arte di legare le persone sono i peggiori, con quello sguardo umano
di chi dice ti lego per il tuo bene, sono colti il giusto e gli piace pure
scrivere, e però sanno scrivere meglio ciò che hanno fatto peggio, non lo
diresti mai, ma sono dei sadici che sanno farsi amare. Nel legare le persone e
nel farne un’arte c’è una considerevole quota di sadismo che si bilancia col
masochismo di chi si fa legare. È un gioco perverso. A cui partecipi pure tu, o
lettore.
In tutta la
mia carriera, ho lavorato sempre nei reparti restraint, quelli dove
si lega, in tutto ne ho legati in numero che si conta sulle dita di due mani.
Troppi, lo so. Purtroppo, non posso dire, come Peppe Dell’Acqua, per esempio, o
Franco Rotelli o Giovanna Del Giudice o Roberto Mezzina o Mario Colucci (la
razza dei triestini che ho sempre invidiato) di non sapere che cosa sia legare
una persona. Ho legato ma avrei potuto non legare. Se fossi stato in un
reparto no restraint, con altri infermieri, con altri colleghi…
anche quei pochi che ho legato sono certo che sarei riuscito a non legarli.
Però, se sono riuscito a legare così poco, in reparti dove si legava molto, è
perché ho sempre fatto de-escalation. Significa: non provocare i
pazienti, non rilanciare alle provocazioni o alle aggressioni. Non mi sono mai
permesso, per esempio, di andare in pronto soccorso e a una ragazza che urla e
spacca tutto – come scrive lo spaccone genovese – dire: «Calmati stella».
Perché se dico stella a una di quelle persone definite borderline,
do l’innesco perché mi salti addosso o mi tiri un pugno di modo che io abbia la
giustificazione per legarla. Infatti, prosegue: «Poi, via con la sarabanda».
Ricordo,
anni fa, un mio collega che legava i pazienti con cui io, poco prima, ero
uscito amabilmente a prendere il cappuccino al bar. A uno gli disse: «Si calmi,
a un vecchietto come lei, le parte un embolo». E quello lo atterrò con un
pugno. E lui lo fece legare. Così funziona. Ci sono alcuni che fanno cento
legamenti in un anno, e altri che ne fanno quattro in tutta la carriera. I
primi, se sanno scrivere abbastanza bene, riusciranno perfino a scrivere L’arte
di legare le persone. E giù applausi.
Sembra che
il libro tardivo sia servito, allo psichiatra che lega, per giustificare quel
tipo di carriera. E di esistenza. E di crimini di pace. Crimini trasformati
letterariamente in atti terapeutici: «Noi veniamo al mondo non quando usciamo
dal corpo della madre, ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce e, senza
parole, ci contiene ancora in sé. […] La sacralità di questo abbraccio
primigenio si riverbera e balugina in alcune contenzioni che facciamo».
Per
giustificare il suo legare, lo psichiatra che lega redige il referto delle
ferite di guerra: «Ferite di guerra in Sala 77. Quattro fratture costali più il
dito di una mano e quello di un piede. Graffi, escoriazioni ed ematomi.
Ingiurie, assalti, minacce».
Nella mia
carriera mai nemmeno un graffio. Ho uno scudo santo che mi protegge, forse?
Bevo acqua benedetta tutte le mattine prima di entrare in reparto? Ma no. I
ricoverati si vendicano. Si segnano tutto. L’hai legato una volta? Al ricovero
successivo cercano quel medico per vendicarsi, tanto lo sanno che da quel
medico saranno ancora una volta legati e sanno ormai che dovranno farsi
l’ennesima contenzione. Certi psichiatri formano, nei loro reparti,
un’antropologia particolare di pazienti. Pazienti che vengono addestrati alla
lotta, all’aggressione, alla tauromachia, alla contenzione, a stare qualche
giorno legato. Pensano ormai che questo sia il ricovero. Certi psichiatri li
hanno abituati così. E anche i tranquilli, a vedere certe scene, vivono il loro
ricovero come un incubo. I tranquilli sono perfino rassicurati dal sapere che
l’agitato è stato legato. Pure loro interiorizzano l’atto della contenzione
come cosa inevitabile e giusta. I reparti restraint sono meno
sicuri, sì, sono più pericolosi contrariamente a quel che si pensa, perché c’è
la violenza sempre nell’aria, pronta a esplodere. Gli psichiatri che legano si
fanno più male di quelli che non legano. Perché sono più odiati e aggrediti dai
ricoverati. Se arriva un eccitato disforico che io ho trattato con gentilezza
nei precedenti ricoveri, mi rispetta, al collega sarcastico che, come lo
spaccone genovese gli dice stella, gli va diretto a dargli una
testata in fronte.
Anche se ho
scritto Il manicomio chimico in cui contesto
l’uso a pioggia e per tutta la vita di psicofarmaci, nelle situazioni acute in
cui è necessario tranquillizzare non lesino i farmaci, capiamoci. Scrive lo
psichiatra di Genova: «Solo un anestetico endovena ha effetto immediato, ma bisogna
chiamare l’anestesista. Mi chiedo: è meglio essere legati al letto o essere
mandati in coma farmacologico?».
Alcune notti
fa, alle quattro, una donna voleva andare via dal SPDC. Ma era in TSO. Era tesa
come una corda. Un’ora di negoziazione. Aspettiamo domani, dai. Facciamo una
flebo. Prendiamo una vena. Io e quattro infermiere. Donne. Entra il Tavor. Poi
il Depakin. Non fa effetto. Anche un po’ di Midazolam. Sì, ok, ho fatto
l’anestesista. Lo so fare. Per non legare ho imparato a usare bene i farmaci.
Non ho bisogno di chiamare l’anestesista. Mettiamo il saturimetro: 94,
perfetto. Non è meglio tranquillizzare una persona coi farmaci che lasciarla
gridare tutta la notte legata?
Ancora lo
spaccone: «Oggi ho rinunciato a contenere un paziente. Non ho graffi, non sono
sudato e torno a casa in orario. Ma non sono contento». «Se mi chiedete
un’immagine simbolica della Psichiatria d’urgenza è proprio il contenere».
Ecco il
problema, aveva ragione Fausto Rossano, uno che, negli anni Ottanta, aveva
impostato con pratica basagliana i servizi di salute mentale di Piedimonte
Matese (dove ho lavorato dal 2003 al 2006): «L’urgenza in psichiatria non
esiste», diceva. Se hai l’urgenza in testa, e vuoi fare come i chirurghi
d’urgenza, e vuoi decidere in due minuti se devi o non devi legare, ecco che
leghi. Se ti togli da dentro il cranio l’urgenza, e te la prendi comoda, pure
il paziente, anche il più agitato, non voglio dire che si calmi, ma si mette un
po’ più comodo.
E lo so, ho
dedicato troppo spazio, in questa mia introduzione, al collega che ho eletto ad
esempio letterario del tipo di psichiatra che io non ho mai voluto essere, lo
spaccone di Genova, anche quelli di elèuthera me l’han fatto notare: Non gli
stai dando un po’ troppa importanza a questo psichiatra? È opportuno impiegare
tutto questo spazio nell’introduzione di questo tuo libro, un libro che resta,
per uno psichiatra di cui tra qualche anno magari si sarà persa la memoria?
Hanno ragione. Il fatto è che ritengo questo mio libro, che ora torna in
libreria, un po’ la risposta alle spacconate dello psichiatra artista delle
fasce. Anche se, a pensarci, è più probabile che sia stato il suo libro la
risposta al mio. Lo avrà letto di certo, come lo lessero moltissimi psichiatri
– come fa uno psichiatra che ama legare a non avere la curiosità di leggere un
libro contro di lui? Non può, un libro dove perfino asserivo che chi non lega è
felice e chi lega è infelice ognuno a modo suo – l’avrà letto e dopo si sarà
messo di tigna per riabilitarsi, riuscendo a pubblicarlo, tu vedi i casi della
vita, con lo stesso editore che negli anni Settanta pubblicava Franco Basaglia:
ma non è un segno dei tempi tutto ciò?
Quanto a me,
non mi aspettavo che questo libretto, uscito di soppiatto nel 2013 per la
piratesca elèuthera, innescasse, negli anni successivi, la pubblicazione di
altri miei libri di psichiatria critica, che mi avrebbero portato a fare
centinaia di presentazioni, seminari, convegni, reading, in librerie,
università, centri sociali, manifestazioni letterarie, saloni del libro, e
dandomi l’opportunità di conoscere centinaia di pazienti impazienti ed
esigenti, altrettanti giovani operatori di salute mentale, solo alcuni tra
i mille giovani Basaglia che ci sono in Italia, per fortuna.
Grazie
a La fabbrica della cura mentale nel 2014 fui invitato in
audizione presso il Comitato Nazionale di Bioetica, in qualità di «esperto di
contenzione» (già), dove tenni un seminario dal titolo Moderne tecniche
di contenzione e problemi bioetici. Anche da questo mio intervento il CNB
nel 2015 redasse un documento dal titolo La contenzione: problemi
bioetici, in cui auspicava il superamento della contenzione meccanica nei
luoghi di cura. Da questo documento il Forum di Salute Mentale, di cui facevo
parte, promosse una campagna per abolire la contenzione meccanica, che iniziò
con una conferenza al Senato nel gennaio del 2016 e che dura tuttora. Nel
giugno di quest’anno perfino il ministro della Salute ha annunciato di voler
superare, entro tre anni, l’uso della contenzione meccanica nei luoghi di cura.
La cosa non accadrà, ovviamente, ma almeno serve a sapere da che parte sta il
ministro della Salute.
Ecco, ho
finito questa nuova introduzione. Mi fa piacere averla scritta. Mi fa piacere
che questo libro, a otto anni dalla prima uscita, torni in libreria in una
nuova edizione. Così ho avuto modo di fare questo piccolo raccordo di quello
che è successo in questi anni. E ho avuto modo di rileggere alcuni passi del
libro che, per fortuna, avevo completamente dimenticato. Bisogna sempre
dimenticare i propri libri, scrisse Roberto Bolaño, oppure, tutt’al più,
ricordarli come «un sogno o un incubo, per poter affrontare nuovi libri, nuovi
giorni, senza la zavorra di tutto quello che, con ogni probabilità, avremmo
potuto fare meglio e non abbiamo fatto».
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