Si dice che si viva sempre in un’epoca di transizione, ma quello che ormai è evidente è che viviamo in un’epoca di fine. Il novecento è stato un secolo lunghissimo, a dispetto delle sue interpretazioni affrettate, che non smette di finire.
Stiamo dentro almeno tre crisi planetarie: il cambiamento climatico, quella del
patriarcato, quella del neoliberismo (ovvero della fase più avanzata del
capitalismo). C’è un mondo che sta finendo e un altro che fatica a iniziare.
Questa fatica è espressa dall’egemonia del distopico: ci affanniamo a trovare
un nuovo realismo. La pandemia ha fatto deflagrare, ha evidenziato, ha
accelerato questi processi che stavano emergendo anche nella scena pubblica.
Quello che prima era sottotraccia, inconscio, ora è visibile.
Ma come finiscono le cose? In che
fase di queste crisi siamo? Come vengono distrutte, superate queste forme di
dominio predatorio di un essere vivente sugli altri esseri viventi, di un
genere sugli altri generi, di una classe sull’altra?
All’apparenza in una forma melodrammatica. Dovunque si piange, dovunque
assistiamo alle lacrime pubbliche di chi finora ha praticato questo dominio e
ora sente che non è più possibile, o allo scioglimento del trucco come in un
film di Luchino Visconti: le lacrime di Elsa Fornero, le lacrime di Allegra
Stratton, la tintura che cola sul volto di Rudolph Giuliani nella conferenza
stampa dopo Capitol Hill…
Ma questa modalità comprende solo
una parte della performance della fine. La forma che questa fine prende è nella
maggior parte dei casi diversa. Non melodrammatica, ma aggressiva, cinica
quando non sadica, indifferente: è la forma del backlash – come l’ha definito
Susan Faludi -, del contrattacco, dell’esasperazione parossistica di quel
dominio.
Di fronte a una crisi irreversibile,
ecco cosa abbiamo: negazionismo, recrudescenza, misoneismo, delegittimazione
del nuovo, della critica, del conflitto, del dissenso. Ogni dialettica è
negata, quella della storia più delle altre; per questo il distopico è
diventato così mainstream, anche nell’entertainment e dilaga: perché è la forma
della fantascienza che non apre a un mondo nuovo, ma stira fino alla tensione
massima il presente.
Ma c’è un sintomo in più che
dobbiamo cogliere in questa crisi multifattoriale. La crisi estrema, la fine
che non finisce, si mostra come una ferita narcisistica. Se per il patriarcato
sembra essere giunta una crisi irreversibile che tenta di contenersi come una
crisi di mezz’età, assumendo forme di reiterazione del dominio in modalità che
sembrano meno predatorie: il paternalismo, o il patetico (come chi si tinge i
capelli o Weinstein che cammina con il girello); dall’altra parte invece il
neoliberismo con le sue promesse mancate e i suoi danni planetari non solo non
accetta la possibilità di una sua seria crisi, ma reagisce come un narcisista
di fronte alla mancanza di consenso, di plauso. Come è possibile? Come
mai non ti piaccio? Eppure finora era così. Come è possibile che un
governo dei migliori non solo venga sostenuto da tutto il parlamento ma non abbia
le fanfare a ogni angolo di strada? Come è possibile che nonostante tutta la
bontà di chi decida i destini collettivi, qualcuno decida di non applaudire e
scioperare?
Ecco la ferita narcisistica.
Qualcuno che dice: non mi piace. Nonostante quel dominio si presenti in forme
più suadenti e dolci: resilienza, educazione alla responsabilità, ripartenza,
valore sociale, rigenerazione urbana… Cosa deve fare di più per piacere?
Eppure in massa, ovunque,
cominciano a dichiararsi i no. Netti, argentini, rotondi.
Le grandi dimissioni sono un
fenomeno globale che si amplierà. È come se un fronte di Bartleby si stesse
affacciando al mondo e dicesse, con pacata determinazione, Preferirei di no.
Di fronte a questi no, come nel
racconto di Bartleby, si impazzisce: cosa succede? Perché? Bartleby si è
ammalato all’improvviso? Tutta questi no sono sintomi di depressione
collettiva, di irresponsabilità, di mancanza di buon senso?
Il conflitto, il dissenso viene
così delegittimato.
Ma questa delegittimazione non è una novità. Margaret Thatcher è la prima a
avere l’intuizione che poteva minare nel profondo la cultura del lavoro del
movimento operaio. Nel 1984-1985 il Regno Unito è attraversato da un
leggendario sciopero dei minatori: dura 51 settimane, coinvolge 165mila lavoratori,
e finisce con una resa da parte del sindacato della National union of
mineworkers, sconfitto dall’intransigenza della iron lady. Ma a
Margaret Thatcher non basta vincere, vuole delegittimare la battaglia: uno
degli elementi che usa per sfiancare/trattare i sindacati a la proposta di
spesare le spese psicologiche degli operai che avrebbero perso il lavoro. Il
conflitto viene ridotto a disagio, a trauma.
Il quarantennio del neoliberismo
nasce così insomma, come un dominio sociale e sulla psiche. Quale è allora la
novità attuale?
Finora questa delegittimazione
attraverso la patologizzazione è riuscita. I decenni che abbiamo vissuto ci
hanno mostrato come questo conflitto venisse preso in carico e introiettato da chi subiva il dominio.
Oggi può andare diversamente? Sì. La pandemia ha slatentizzato sia
l’aggressività del dominio nelle sue forme di backlash, sia ha permesso di fare
acting out a chi sentiva ma non riusciva a legittimare il conflitto, ha dato la
possibilità ai subalterni di emanciparsi non solo dal dominio dalla
patologizzazione della crisi.
È come se arrivato il tempo di
ribaltare le diagnosi: ovvero il tempo che la ferita narcisistica del
capitalismo sanguini. Si può scioperare, dimettersi, sindacalizzarsi,
rivendicare diritti, senza dover minimamente cedere alle lusinghe o alle
proiezioni del capitalismo che dice Ma come? Non ti piaccio più? Sei sicuro?
La risposta è un bellissimo no.
'La ferita narcisistica del capitalismo" è bellissimo come titolo. Assai interessanti i contenuti. Grazie.
RispondiEliminaproprio vero, lo sciopero è una ferita per il capitalismo, pensiero unico senza disturbatori
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