Wissem Abdel Latif: morto “di respingimento”, un altro squarcio sugli
orrori delle politiche italiane sull’immigrazione - Fabrizio Maffioletti
Lo abbiamo già scritto, la drammatica vicenda di
Wissem Abdel Latif, 26 anni, ha scosso, come fu per la morte di Moussa Balde,
23 anni, l’opinione pubblica
La storia di Wissem è storia di ordinaria “tunisinità”: arrivo, nave
quarantena, CPR, Palermo (così ci risulta), decollo charter per il rimpatrio,
in manette, come denunciato dal Garante Nazionale. Una macchina costosa e
perfettamente oliata: un giro di giostra e via.
Questa non è solo storia di CPR, questo è un aspetto più ampio e finora
forse non trattato: è una morte “di respingimento”, noi, di fatto, li stiamo
uccidendo. Lo stiamo facendo in Libia, nel Mediterraneo, ai confini con la
Croazia, ai confini con la Polonia e nella nostra “civilissima” Italia. Questi
sono i risultati delle politiche europee e italiane sulle migrazioni.
Nei CPR il “compenso” pro-capite riconosciuto agli Enti gestori per ogni
migrante detenuto è mediamente superiore di oltre 10 euro alla ridicola somma
riconosciuta ai centri di accoglienza, che avviano all’integrazione i
richiedenti asilo.
Questa morte rappresenta un altro insidioso squarcio di verità su un
sistema che si basa su carte, procedure, firme, nomi storpiati che cambiano di
documento in documento: cosa manca? Manca la cosa fondamentale: mancano loro,
le persone, gli esseri umani.
E quindi Wissem dalla nave quarantena si è visto titolare di una richiesta
di rimpatrio immediato da parte dell’Autorità, “Dottoreeeee, c’è da firmare”, e
quindi pronto per il “trattamento” che gli spetta: una detenzione a fini di
rimpatrio all’inferno, il CPR. Trattenimento prontamente convalidato da un mero
Giudice di pace. Ci risulta da fonte attendibile che a Milano uno di questi
giudici fotocopiasse le sentenze con i nomi in bianco. 300 secondi e via. 300
secondi: questa, secondo studi indipendenti, è la media del tempo delle udienze
di convalida e proroga delle detenzioni nei CPR.
Il CPR di Roma funziona secondo standard minimi previsti, l’Azienda
sanitaria è intervenuta tramite il Dipartimento di Salute Mentale, anche
questa, circostanza tutta da chiarire. Wissem, schiacciato da questa catena di
montaggio per indesiderati, muore.
Wissem non era un “pericoloso pregiudicato”, era solo un ragazzo tunisino,
eppure, anche lui, è morto nelle mani di uno Stato che non lo voleva. Morte per
“arresto cardiaco”, chiunque muore per arresto cardiaco, si muore perché il
cuore si ferma, ma il perché il cuore del ragazzo tunisino si sia fermato,
ovvero la reale causa della morte, resta tutt’ora da chiarire.
Il Ministero dell’Interno, che gestisce “fattivamente” le politiche
sull’immigrazione è davvero nell’occhio del ciclone, la storia di Wissem,
avvenuta nella Capitale, è un aspetto estremamente insidioso, come lo è la
storia che ha travolto l’ex Prefetto Michele Di Bari, che, come tale, era
funzionario del Viminale.
Squarci di verità che stanno minando l’ossessivo silenzio istituzionale che
permette alle istituzioni di tentare di muoversi “agevolmente” nelle pieghe di
supposti e purtroppo, talvolta reali, vuoti normativi. Ma le norme non
prevedono la violazione del diritto alla richiesta d’asilo, il diritto della
persona migrante di essere scrupolosamente, e comprensibilmente per lui,
informata su diritto e modalità di richiesta di protezione internazionale.
Purtroppo, in assenza di competenze, soldi, e contatti in Italia, i
richiedenti non fanno ricorsi e lo Stato agisce “indisturbato”. Inascoltate le
raccomandazioni del Garante Nazionale delle persone private della libertà
personale.
Il CPR di Torino è travolto da un’inchiesta giudiziaria, vedremo se la
Procura di Roma eserciterà fino in fondo la propria indipendenza dagli altri
poteri dello Stato facendo piena luce su responsabilità dirette e indirette.
La questione sta diventando rilevante anche in Tunisia, partner di un
accordo bilaterale di rimpatrio che permette questa efficiente e oliata
macchina dei respingimenti. E’ possibile che la triste morte di Wissem possa
rappresentare il “granello di sabbia” che inceppa la “macchina”.
Se non avverranno cambiamenti radicali, le morti continueranno,
così come la vergogna di essere italiani.
Dal Cpr alla morte
in contenzione. Gli ultimi giorni di Wissem Ben Abdellatif - giulia beatrice filpi
(con la collaborazione di ibrahim ezzat)
Wissem Ben Abdellatif era arrivato a Lampedusa il
3 ottobre scorso, mentre sull’isola si celebravano le cerimonie istituzionali
dedicate alla “Giornata della memoria e dell’accoglienza”, in ricordo delle
vittime del naufragio del 3 ottobre 2013. Il 28 novembre successivo,
a ventisei anni, Wissem è morto in un ospedale romano, legato
mani e piedi al letto di un reparto di psichiatria, in seguito a circa un mese
di detenzione amministrativa nel centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr)
di Ponte Galeria. Veniva dalla città di Kebili,
nel sud tunisino povero e battagliero da cui partì la rivoluzione del 2011, ma
che resta tra le aree meno sviluppate del paese. Chi lo conosceva lo descrive
come un ragazzo sportivo, semplice, bravo a giocare a calcio, convinto di poter
fare fortuna in Europa. Dopo aver perso il lavoro in un
supermercato, Wissem aveva deciso di imbarcarsi per l’Italia alla
volta della Francia, partendo con un barchino salpato il 2 ottobre
dal porto di Kerkennah.
Una volta in Italia, Wissem viene
portato nell’hotspot di Lampedusa, in quel momento stracolmo. A
causa del sovraffollamento, secondo gli attivisti di LasciateCIEntrare,
è costretto a dormire a terra, circondato da una rete. Il giorno stesso dello
sbarco viene trasferito nel porto di Augusta per una
quarantena obbligatoria che dura due settimane, a bordo della nave GNV
Atlas, anch’essa al massimo della capienza, con quasi un migliaio di
persone a bordo. A questo periodo di confinamento vengono sottoposti tutti i
migranti, anche quelli che, come Wissem, risultano negativi
al Covid-19. Se nell’hotspot presentare domanda d’asilo è
estremamente difficile, nell’isolamento della GNV Atlas è del tutto
impossibile.
«Sulla nave quarantena stava ancora bene»,
racconta Houssam Ben Fraj, uno dei due cugini del ragazzo che in
questi giorni stanno tenendo i contatti con i media. I problemi inizieranno più
tardi, a Ponte Galeria, quando il giovane comincia a denunciare
maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine.
Già a bordo della nave, tuttavia, la
situazione è causa di non poche preoccupazioni: «Alcuni sono stati rilasciati
ma noi siamo ancora in quarantena», dice Wissem nel primo di
una serie di video che ha girato lui stesso e che poi sono circolati su
Facebook. «Dio solo sa cosa ci succederà. Per favore, cercate delle
informazioni e rassicurateci», continua la sua voce fuori campo, mentre la
telecamera inquadra il porto di Augusta. Siamo intorno al 13
ottobre. Niente, in quel momento, fa pensare che Wissem possa
avere problemi psichiatrici, tanto che prima del trasferimento a Ponte
Galeria gli viene rilasciato un certificato di “idoneità al
trattenimento”. Documenti come questo, spiega Yasmine Accardo di LasciateCIEntrare,
dovrebbero escludere qualsiasi patologia che possa essere aggravata dalla
reclusione, compresi disturbi psichici o psichiatrici. Di fatto, però, si
tratta di passaggi meramente formali che accertano che i migranti non abbiano
contratto malattie contagiose.
Una volta a Ponte Galeria Wissem
registra altri video con il cellulare che è riuscito a portare, di nascosto,
all’interno del centro. Racconta di essere stato diviso da altri sessantotto
compagni di viaggio e di essere stato portato prima a Catania, poi
nella prigione romana. «Siamo stati scortati in aereo da tre osservatori, ci
hanno preso i telefoni, ci hanno lasciato senza cibo e senza nulla per
coprirci. Le nostre famiglie non sanno niente di noi», afferma, mentre la
telecamera inquadra le sbarre del centro.
In un terzo video Wissem racconta
delle proteste iniziate insieme ad altri compagni di reclusione, con cui dice
di avere indetto uno sciopero della fame per chiedere di essere scarcerati e
fare richiesta d’asilo. Nel quarto e ultimo video parla anche dei rischi a cui
si espone facendo le riprese, vietate all’interno della struttura: «So che mi
metto in grave pericolo, ma voglio dire la verità». Nel frattempo, i
familiari spendevano centinaia di euro per assicurare la tutela legale di Wissem in Italia,
ma sembra che l’avvocata li abbia contattati soltanto dopo la morte del
ragazzo, senza fornire nessun supporto reale durante la sua detenzione. A Ponte
Galeria, raccontano i testimoni, Wissem continua a fare
esercizio fisico, viene descritto come una persona tranquilla. La
documentazione medica acquisita dal garante per i detenuti del Lazio, Stefano
Anastasia, parla di “buone condizioni psico-fisiche” all’indomani
dell’arrivo. Dieci giorni più tardi, tuttavia, una psicologa del centro
riferisce di sofferenza e disagio psichico, e richiede una visita con uno
specialista in psichiatria della Asl. Il consulto si svolge circa due settimane
dopo e Wissem inizia una terapia farmacologica che
probabilmente sortisce effetti indesiderati. Passano altri dieci giorni, e lo
psichiatra chiede il ricovero in ospedale. Il giovane tunisino viene portato al
pronto soccorso del Grassi di Ostia, il 23
novembre. Due giorni dopo, al momento del trasferimento di Wissem nel
servizio psichiatrico della Asl Roma 3, all’ospedale San
Camillo, un documento sanitario parla della necessità di “contenere” il
paziente perché “aggressivo”. La durata della contenzione non viene
specificata, ma le informazioni a disposizione fanno supporre che Wissem possa
essere rimasto legato ininterrottamente per oltre sessanta ore.
La notizia della morte arriva il 2
dicembre, quando la famiglia contatta il deputato tunisino Majdi Karbai per
chiedere spiegazioni in merito a una telefonata ricevuta dal consolato tunisino
a Roma, in cui si fa riferimento alla morte di Wissem per
cause naturali. È Karbai stesso, dopo una serie di verifiche,
a informare la famiglia sulle circostanze del decesso. Alcuni familiari
sprofondano nella disperazione, mentre la sorella Rania, una
studentessa di vent’anni, inizia uno sciopero della fame a oltranza nel
tentativo di ottenere verità e giustizia.
Nelle ore immediatamente successive alla
morte del ragazzo, le persone recluse nel Cpr che potrebbero testimoniare
vengono rimpatriate rapidamente, in una prassi già collaudata in altri casi,
come quello di Vakhtang Enukidze, georgiano morto nel Cpr di Gradisca all’inizio
del 2020. Alcuni riescono comunque a testimoniare, parlando agli attivisti
delle violenze che Wissem avrebbe subito dalla polizia
all’interno del Cpr.
Il 4 dicembre, l’ingresso nel centro viene
negato all’avvocato Francesco Romeo, che difende la famiglia
di Wissem, a Majdi Karbai e al senatore Gregorio
De Falco. Per giorni i familiari attendono di capire cosa ne sarà della
salma, senza sapere se ci sarà un’autopsia o meno. Solo ieri l’avvocato Romeo comunica
in una nota che la perizia medica è già stata svolta, all’insaputa sua e dei
familiari, senza la possibilità di nominare un medico legale di parte. Un nuovo
esame potrà essere eseguito soltanto adesso da un consulente della famiglia, ma
a oltre dieci giorni dal decesso e dopo una prima autopsia, la sua attendibilità
rischia di essere compromessa.
Intanto in Tunisia e
nella comunità tunisina in Italia la notizia sta suscitando
grande attenzione. Si organizzano manifestazioni a Kebili e Tunisi,
e diverse persone che hanno subito il respingimento dall’Italia raccontano
la loro esperienza tra hotspot, navi quarantena, Cpr e rimpatri, trovando il
coraggio di mettere da parte la vergogna che spesso accompagna il fallimento
dei progetti migratori. Nella capitale, un presidio dell’associazione La
terre pour tous si svolge davanti all’ambasciata d’Italia. La
protesta non è rivolta però solo alle istituzioni italiane, ma anche a quelle
tunisine, criticate per non essersi attivate né aver preso posizione sulla
vicenda, e più in generale complici dell’Italia nella politica sui
rimpatri. “A uccidere Wissem sono stati gli accordi sulle
migrazioni”, denuncia Imed Soltani, fondatore di La terre
pour tous.
Dopo avere assunto pieni poteri e sospeso
il parlamento, a luglio il presidente tunisino Kais Sayyed si
è assicurato il sostegno italiano anche attraverso la sua politica di
cooperazione sulle migrazioni, che del resto si fonda su oltre vent’anni di
accordi in materia. Negli ultimi due mesi sono state rimandate in Tunisia quasi
cinquecento persone, più di mille e cinquecento dall’inizio dell’anno, a fronte
delle circa quattromila totali che sono state rimpatriate ogni anno, negli
ultimi anni. Molto più dei numeri, però, dicono le parole di Wissem,
rinchiuso a Ponte Galeria, che parla di nascosto dal suo cellulare:
«Vogliamo solo essere liberati. I rischi a cui volevamo sfuggire nel nostro
paese li stiamo vivendo qui, ora. Dove sono i diritti umani? Sono tutte bugie.
Non torneremo in Tunisia. Resteremo qui, oppure moriremo».
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