Come aveva già sostenuto Gilbert Durand (1972)
l’immaginario, la fantasia, la creazione, in certa misura ogni
opera umana è sempre un tentativo di esorcizzare il volto minaccioso del tempo,
la sua destinazione tragica, il suo scorrere in direzione della caduta. Ma
mai come oggi probabilmente la morte è diventata inavvicinabile, anzi non solo
la morte ma tutti i suoi correlati immaginativi, la malattia, la fragilità, la
debolezza, la melanconia, la depressione, la tristezza, il silenzio, il vuoto.
Da ogni
dove si producono dispositivi atti a scongiurare la morte e i suoi sentimenti
custodi, le sue manifestazioni analogiche, i suoi caratteri o i suoi riti. Ogni
civiltà ha avuto al suo fondo la relazione che ha instaurato con la
morte. La nostra civiltà ha fatto della morte l’oggetto da fugare,
da sopprimere.
Sappiamo
bene quanto nel tempo i rituali di accostamento alla morte e alla malattia
siano stati neutralizzati da una delega alla tecnica che ormai arriva a
impedire quasi ogni contatto fisico con il morente e talora, come si è visto nell’ultima epidemia
addirittura ogni possibilità di vicinanza se non tecnologica e digitale.
Un
processo lungo che certo, come hanno già notato autorevoli studiosi, da Elias
(2011) a Ariés (1998), ha lentamente fatto uscire di scena la dimensione
pubblica del morire, con le veglie, l’accompagnamento della comunità, lo
stringersi intorno al morente e di tutti i congiunti, compresi i bambini. Oggi
il morente è custodito nell’apparato tecnologico degli ospedali, visitato solo
ad orari prefissati e brevi e spesso trapassa in assoluta solitudine, con unico
accompagnamento il rumore dei macchinari che lo tengono in vita spesso
forzatamente. Nel nostro mondo si è ormai arrivati, e sempre più spesso, per
altri versi, alle morti solitarie e obliate dei
vecchi in casa, abbandonati dalla famiglia o essi stessi essendosi assicurati
di non avere bisogno di nessuno, come ben delineato nel
documentario di Erik Gandini sulla Teoria svedese
dell’amore. Morire ed essere ritrovati dai servizi sociali magari
anche settimane o mesi dopo, senza parenti cui rivolgersi o cui restituire i
beni del defunto.
La
morte, come quasi ogni altra cosa in una vita sempre più autistica, si
privatizza, ma lo scopo latente di tutto ciò è spazzolarla via dalla scena
sociale, dal paesaggio umano, e di far sparire con essa i sentimenti della
caducità e l’esperienza potentemente trasformativa per chi resta di
presenziarvi, di accompagnarla, di accoglierla.
Non
solo, non si muore in seno al proprio mondo sociale ma la privatizzazione
tecnologica spesso espropria del proprio morire il morente,
assicurandosi con ogni mezzo possibile di tenerlo in vita ben oltre ogni
necessità biologica e soprattutto, il che è molto più drammatico, anche ben
oltre la sua volontà più o meno espressa di divenire un corpo immobilizzato o
addirittura privo di coscienza su cui sperimentare ogni possibile strumento di
prolungamento delle funzioni vitali. Questo accanimento, pronto a sorvolare
completamente sopra la dignità della persona, sopra la sua legittima volontà
(espressa o non espressa, basta la compassione a comprendere) di non essere
solo un corpo di dolore nelle mani di scienziati in guerra con la morte, va
assolutamente condannato, proprio in nome di una cultura della morte giusta,
della buona morte (su tutto ciò si confronti anche l’ottimo libro di A.
Tarabbia, La buona morte. Viaggio nell’eutanasia in Italia,
Manni, Lecce, 2014).
In
merito a ciò occorrerebbe anche una riflessione sul tema del suicidio, sulla
dignità dell’eutanasia, sulle radici storiche e culturali (religiose in
particolare) della nostra avversione al taedium mundi, una
riflessione sulla morale stoica in merito, sull’atteggiamento delle altre
culture e sull’urgenza di tutelare il diritto di ognuno a farla finita quando a
“suo” insindacabile giudizio è venuto il momento.
La
morte è un tabù così potente che anche le sue emozioni, o comunque le emozioni
correlate al morire e alla malattia, propria o altrui, sono di fatto ma anche
scientificamente sempre più poste alla gogna. Gli esempi potrebbero essere molteplici ma sia
sufficiente leggere con attenzione l’ideologia sottesa al concetto di
“intelligenza emotiva” propinato per primo da Daniel Goleman (che già mi
premurai di contestare con forza in Mottana, 2000). Nel suo testo Intelligenza
emotiva (1996) è detto a chiare lettere che i sentimenti inefficaci
sotto il profilo della propria affermazione sociale sono ovviamente quelli di
tipo doloroso e in qualche misura tali sentimenti vanno silenziati. I
sentimenti che si provano in situazioni di sofferenza, come la tristezza, la
malinconia, la rabbia, sono sentimenti da spurgare quanto prima, da bonificare,
fin da piccoli, così come i caratteri di tipo introverso o timido,
disfunzionali alla riuscita professionale. Al loro posto occorre assumere come
via maestra l’estroversione, l’assertività, l’empatia (specie per poter
manipolare il meglio possibile il prossimo, aggiungo io), la
collaboratività. Il dolore deve essere cancellato, e
laddove non bastano gli esercizi di focalizzazione cognitiva, si intervenga
pure con la farmacologia.
E
d’altra parte se nessuna obiezione può essere fatta al tentativo lodevole di
attenuare il dolore fisico o la sofferenza psichica con qualsiasi mezzo, è
l’ideologia sotterranea che inquieta, quella che prescrive la postura smiling per
vincere nella competizione sociale e professionale, esautorando così la
possibilità di considerare naturale e sano manifestare i propri stati d’animo a
seconda delle situazioni che si sperimentano. E noi sappiamo bene che
l’esistenza non ci propone costantemente solo rose e fiori.
Il
lutto non si porta più e l’oblio del morto spesso ormai si realizza a tempo di
record, perché la pressione a ritrovare i comportamenti “positivi” è sempre più
potente.
Ed è
proprio attraverso le dottrine del pensiero “positivo” e
l’infinità di discipline, esercizi, terapie che favoriscono quella che spesso
viene definita la “decisione” di essere felici che negli ultimi tempi si sta
celebrando il definitivo de profundis (per
paradosso) alla nostra sensibilità, alla nostra vulnerabilità, alla nostra
capacità di entrare in contatto profondo con le emozioni intonate al nostro e
altrui venire meno, ammalarsi, invecchiare, morire. Ben inteso, non che questi
non siano sempre stati propositi della civiltà umane, cercare di lenire il
dolore e controllarlo ma oggi è in atto una lotta contro ciò che è ineluttabile
perché non contamini in nessun modo la vita sociale e produttiva di un’umanità
che inevitabilmente però diventa sempre più cinica, insensibile, dissociata.
Sono
perfettamente d’accordo con una morale edonistica come quella propugnata dal
filosofo francese Michel Onfray (2009), il quale sostiene che solo vivendo con
accanto “il proprio scheletro” si possa cogliere appieno il valore dell’essere
vivi ma credo che tutto ciò vada ricompreso anche alla luce di un recupero
della nostra finitudine come consapevolezza che induca a moderare
le tendenze pragmatiche e “positivizzanti” e in qualche modo anche
colpevolizzanti nella misura in cui non si sappia decidersi per
propria felicità.
Queste dottrine più
o meno identificantesi con lo slogan del “pensiero positivo” tanto diffuse
oggi, così figlie dell’idea fallace che si possa costruire il
proprio benessere da soli, individualmente, anzi addirittura che il
nostro benessere dipenda da noi e da eventuali esercizi di meditazione o di
sana alimentazione, sono solo il frutto caduco di filosofie che avevano una
profonda consapevolezza del morire e dell’ambivalenza della vita e che certo
non si sognavano di delegare il sentimento della serenità o dell’equilibrio
semplicemente a “decisioni” personali. Oltre al fatto che noi oggi consociamo
benissimo il ruolo determinante dell’inconscio nel condizionare i nostri stati
d’animo accanto a quello delle condizioni di contesto. L’immagine del
bodhisattva o dell’eremita, posto che davvero abbiano raggiunto la felicità,
sono puri miraggi una volta consegnate ai volti del nostro tempo e soprattutto
alle violente pressioni della nostra vita inconscia.
In
noi dolore e piacere si alternano in una dinamica che è ineludibile e che va
onorata sia in un versante che nell’altro. Dove dunque il piacere pretende
giubilo, estroversione e festa nel dolore occorre coltivare il silenzio, la
solitudine o il conforto della compassione.
Un’autentica
educazione alla morte (che è di per sé un’educazione alla vita) significa
riprendere confidenza con queste esperienze (e dunque con l’esperienza del morire), non solo
sperando di guarire a ogni costo ma anche sapendo stare al fianco
di chi ormai ha imboccato la sua vita d’uscita dal vivere. Tanti
frequentano l’esperienza del volontariato o del pronto soccorso per
interpretare il ruolo del guaritore ma occorre anche riprendere contatto con
ciò che non guarisce, con le sue necessità e le sue specifiche cure, che a
volte possono solo ammutolire o costringere a riconoscere di
essere impotenti. È con questi sentimenti che dobbiamo tornare ad
affratellarci, anche per non far sentire colpevole o sbagliato chi è malato o
chi muore.
Dobbiamo
ritrovare il senso dell’impotenza, della cronicità del male, del suo ruolo nel
renderci meno carogne come tanti soggetti maniacali che circolano in un mondo
sempre più frettoloso e competitivo.
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