A ottobre di quest’anno Elon Musk, fondatore e CEO di Tesla, ha dichiarato di aver raggiunto, nel terzo trimestre 2021, il fatturato più alto mai registrato nella storia dell’azienda e pochi mesi prima Jeff Bezos, amministratore delegato di Amazon, chiudeva il 2020 con ricavi di 386 miliardi di dollari, il 38% in più rispetto all’anno precedente. Ma questi non sono casi isolati: secondo l’annuale classifica stilata da Forbes, l’anno scorso i miliardari erano 660 in più del 2019 e, di questi, l’86% si era addirittura arricchito rispetto al periodo pre-pandemico. A favorire il guadagno dei più ricchi sarebbero state soprattutto le scommesse sulla ripresa dei mercati azionari, che hanno toccato il loro punto più basso durante il primo lockdown per poi risalire nei mesi successivi. Una sorte molto diversa ha riguardato però il resto della popolazione mondiale, economicamente penalizzata dalla pandemia con un’intensità inversamente proporzionale al suo reddito.
Jeff BezosElon Musk
In Italia, il divario socio-economico fra classi sociali continua ad
ampliarsi. Dal report Time to Care di Oxfam, pubblicato a
inizio 2020, emerge che il 10%
più ricco della popolazione possiede circa sei volte la ricchezza della metà
più povera, con un patrimonio complessivo che negli ultimi vent’anni ha seguito
un trend crescente per i primi e decrescente per i secondi. Secondo l’ultimo rapporto Caritas,
nel 2020 la quota dei “poveri cronici” (le persone che si rivolgono
abitualmente alla Caritas da più di cinque anni) è cresciuta di oltre un quarto
rispetto al 2019, mentre il numero di italiani in povertà assoluta ha superato
i 5,6 milioni – la cifra più alta mai registrata. L’incidenza delle famiglie
che faticano ad arrivare a fine mese è rimasta più alta nel Mezzogiorno, ma
l’aumento della povertà da un anno all’altro ha riguardato soprattutto le
regioni del Nord, in particolare le grandi città.
Le categorie più penalizzate dalla pandemia sono state quelle composte da giovani e donne, le stesse che
già prima del lockdown versavano in uno stato di maggior incertezza economica.
Le persone under 30 erano infatti le più concentrate nei contratti di lavoro
atipici – quali contratti part-time, a chiamata o a tempo determinato – e nei
settori più coinvolti nelle chiusure, a partire dal turismo e dalla ristorazione. Chi attendeva
il rinnovo di un contratto a termine si è così trovato penalizzato dal calo
della richiesta e dal blocco dei licenziamenti; nel frattempo, la chiusura
delle scuole e dei servizi educativi, sommata alla necessità di prendersi cura delle
persone più fragili, ha inevitabilmente aumentato il carico di lavoro familiare
– soprattutto nel caso delle
madri, spesso costrette a lasciare il lavoro a causa dell’implicita imposizione
dei ruoli di genere e dello stipendio inferiore a quello dei partner.
La devastazione economica dell’ultimo anno e mezzo ha evidenziato quanto il
patrimonio del nostro Paese sia distribuito in modo disomogeneo, ma il ruolo
determinante della classe sociale di nascita sulle prospettive di arricchimento
degli italiani era evidente anche prima della pandemia. Secondo il Global social mobility
report del World economic forum l’Italia è il Paese europeo
con la mobilità sociale più bassa: in altre
parole, la percentuale più ricca (e minoritaria) della popolazione gode dei
benefici maggiori in termini di servizi, mentre l’accesso alle opportunità – e,
quindi, alla possibilità di migliorare la propria situazione economica – crolla
al diminuire del reddito. In questo modo non solo la ricchezza rimane a
disposizione di pochi, ma si tramanda dai genitori ai figli in modo sempre più
circoscritto.
Tutto inizia dalla scuola, dove negli ultimi vent’anni l’ascensore sociale
è rimasto sostanzialmente fermo. I figli e le figlie dei genitori più ricchi
sono quelli che durante l’adolescenza frequenteranno i licei
più rinomati, seguiranno corsi di lingua, trascorreranno periodi di studio
all’estero; chi appartiene a famiglie meno abbienti e istruite tenderà, invece,
a iscriversi a istituti tecnici o scuole professionali e meno
probabilmente conseguirà una laurea. Dai risultati dei test Invalsi emerge come i
livelli di apprendimento di chi proviene da una famiglia svantaggiata siano
sistematicamente inferiori rispetto a quelli dei coetanei più ricchi. Questi,
di conseguenza, saranno non solo i più culturalmente stimolati, ma anche quelli
con più competenze e che, nella maggior parte dei casi, svolgeranno le
professioni meglio retribuite.
Alla base di questa “povertà educativa”, un ruolo
determinante è svolto dalle risorse pubbliche messe a disposizione degli
istituti scolastici stessi. Spesso, infatti, le scuole che lavorano nei
contesti più difficili sono anche le più ignorate dallo Stato, in un circolo
vizioso in cui a rimetterci sono, di nuovo, gli studenti che appartengono alle
famiglie più svantaggiate. Destinare la porzione maggiore di finanziamenti agli
istituti che ne hanno meno bisogno – perché collocati nei quartieri più benestanti,
più forniti di dispositivi tecnologici o frequentati dagli insegnanti più
motivati – fa sì che alla segregazione abitativa legata al luogo di nascita si
associ una altrettanto ingiusta segregazione scolastica e, di conseguenza, un
divario educativo destinato ad alimentare quello economico. Le conseguenze di
questa disparità, però, non riguardano solo la futura carriera lavorativa degli
studenti: riprendendo l’analisi del World
Economic Forum, infatti, una crescita della mobilità sociale del 10%
favorirebbe un aumento del PIL di quasi il 5% in 10 anni, a conferma dei
benefici che una maggior inclusione fra ceti diversi, a partire dall’età dello
sviluppo, apporterebbe alla produttività del Paese e al benessere economico
della collettività.
Il ruolo delle lacune formative nel mantenimento delle disuguaglianze non
si limita però al contesto scolastico. La possibilità di migliorare la propria
condizione economica, infatti, dipende anche dalle opportunità di formazione
continua grazie alle quali lavoratori e lavoratrici potrebbero perfezionare le
proprie competenze, acquisirne di nuove e ambire così ad un avanzamento di
carriera. Opportunità che, in Italia, si riscontrano in meno del 13% delle
aziende, per il 20% degli occupati totali –
la metà della media Ue. Oltre a diminuire il potenziale competitivo delle
aziende, la mancata formazione di chi lavora contribuisce a cristallizzare –
quando non ampliare – il divario economico già presente fra persone che
ricoprono ruoli diversi, con le posizioni di maggior responsabilità (e meglio
retribuite) sempre meno accessibili e limitate ad un’élite ristretta
– nella maggior parte dei casi benestante, di mezza età e di genere maschile.
Oltre a godere di maggiori prospettive di guadagno, le persone che nel
corso del tempo hanno accumulato più ricchezza sono anche le meno penalizzate
dall’attuale sistema fiscale. Come nota l’economista Marta Fana, per
esempio, dalla riforma dell’Irpef approvata
il 25 novembre non trarrà alcun vantaggio oltre il 42% più povero delle
famiglie italiane, quelle cioè con un guadagno inferiore ai 20mila euro annui. Ripensare un modello
retributivo che negli ultimi decenni è diventato sempre meno progressivo – a
partire dall’introduzione di un’imposta patrimoniale – non è,
quindi, solo la strada più sensata, ma anche
l’unica umanamente accettabile in un momento in cui le fasce più fragili della
popolazione faticano a immaginarsi un
futuro che non le veda al di sotto della soglia di povertà.
La ricchezza che più contribuisce al mantenimento delle disuguaglianze
rimane, tuttavia, quella che si trasferisce dai genitori ai figli. Nonostante
l’Italia sia uno dei Paesi Ocse con la pressione fiscale più alta, nel 2019 è
stata anche uno di quelli con il più basso gettito
fiscale legato all’eredità (circa lo 0.1% delle
entrate tributarie), in linea con un sistema economico strutturalmente fondato
sui rapporti familiari e sull’accentramento dei capitali. Per favorire una
redistribuzione più equa della ricchezza sarebbe necessario valutare
l’introduzione di un’imposta di successione proporzionata all’entità del
patrimonio tramandato (come ad esempio succede in Francia): difficilmente i più
ricchi vedrebbero peggiorare il proprio stile di vita, e ne gioverebbe la
mobilità dell’intero Paese.
Il Governo deve rivalutare le proprie priorità. Per far ripartire
l’ascensore sociale è necessario agire concretamente a partire dalle sue basi, fissando una soglia al di
sotto della quale nessuna persona possa essere pagata e promuovendo politiche
di contrasto allo sfruttamento lavorativo e alla precarietà cronica. Non solo:
consentire alle famiglie di uscire dalla povertà significa anche investire in
asili nido, doposcuola e nell’intero settore della cura, a vantaggio delle
migliaia di persone – perlopiù donne – che
puntualmente si ritrovano costrette a scegliere se crescere i propri figli o
guadagnarsi da vivere. Promuovere la mobilità implica, infine, smettere di stigmatizzare misure di
contrasto alla povertà quali il reddito di cittadinanza o i sussidi di
disoccupazione ma, al contrario, lavorare affinchè tali incentivi non siano più
necessari, garantendo a tutta la popolazione un’istruzione di qualità e
investendo in politiche attive e in formazione professionale su larga scala.
L’Ocse ha stimato che, in
Italia, una persona nata nel 10% delle famiglie più povere potrebbe impiegare
cinque generazioni per raggiungere il reddito medio. La possibilità di
arricchirsi è sempre più legata alla propria condizione di partenza e,
nonostante la narrazione prevalente continui a ripeterci il
contrario, sempre meno dipendente dalla propensione dei singoli all’impegno
o al sacrificio. Se è vero che il successo va conquistato, è altrettanto vero
che tutti dovrebbero avere la possibilità di farlo. Altrimenti non si tratta di
conquiste ma di privilegi, sintomi di una società strutturalmente classista
che sopravvive grazie allo sfruttamento di chi non li detiene.
https://thevision.com/attualita/poverta-italia/?sez=all&ix=1
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