(Da: «Giornale degli economisti e annali di economia», 1971, 9-10, pp. 664-84.)
SOMMARIO: 1.
Premessa. - 2. Richiami a una indagine americana del 1955 sul funzionamento del
mercato di borsa. - 3. Il caso dell’IOS, a distanza di un quindicennio, e i
suoi aspetti più clamorosi. - 4. La “sovranità” del risparmiatore e la sua
manipolazione da parte dell’intermediazione specializzata. - 5. Mercato
azionario e efficienza economica nel periodo breve. - 6. L’efficienza
allocativa dei mercati finanziari nel periodo lungo. - 7. Se la borsa sia un
efficace guardiano dell’efficienza dell’impiego delle risorse allocate per suo
tramite. - 8. Una proposta recente di centralizzazione nazionale delle
operazioni di borsa. - 9. Possibilità di soluzioni che portino a un rigetto
della borsa e del suo folklore.
1. Premessa
Se
l’occasione immediata per le considerazioni contenute in questo scritto è stata
fornita da talune recenti manifestazioni aberranti del modo di operare dei
mercati finanziari, nel nostro come in altri paesi, l’interesse per i problemi
di cui lo scritto si occupa è ben più remoto.
Nei
primissimi anni del dopoguerra mi capitò di leggere un articolo, come sempre
limpidissimo e suadente, di Luigi Einaudi che illustrava con piena adesione le
idee espresse a suo tempo da Eugenio Rignano nel volume Per una riforma
socialista del diritto successorio (1920).
Nell’articolo
einaudiano l’accento veniva posto non sul carattere socialista della riforma
successoria, ma sulla compatibilità della economia di mercato con un
trattamento fiscale delle successioni che fosse ispirato ad avanzate ideali
sociali.
A mia volta,
più che dal problema specifico, fui interessato dalla tesi generale che esso
implicava.
La tesi,
cioè, della compatibilità della economia di mercato con riforme le quali
incidano profondamente in strutture e istituzioni che storicamente sono venute
a coesistere con l’economia di mercato stessa, ma non sono essenziali al suo
funzionamento.
Ed è
precisamente in questa tesi l’origine remota delle presenti note.
Da tempo
sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le
caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati, favorisca
non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio che
opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di
risparmiatori, in un quadro istituzionale che, di fatto, consente e legittima la
ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi.
Esiste una
evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere - legislativi,
sindacali, sociali - che vincolano l’attività produttiva “reale” nei vari
settori agricolo, industriale, di intermediazione commerciale e la concreta
“licenza di espropriare l’altrui risparmio” che esiste sui mercati finanziari.
Un rilievo
del genere non trae motivo da fatti episodici o da insufficienze istituzionali
attribuibili a carenze legislative.
Si tratta di
una costatazione originata dalla persistenza evidente, nell’ambito delle
strutture finanziarie-borsistiche, di un capitalismo aggressivo e violento, che
non sembra aver nulla in comune con lo “spirito di responsabilità pubblica” rilevabile
come componente di una moderna strategia oligopolistica nell’ambito
dell’attività produttiva industriale.
Oggi, come è
ben noto, non soltanto il creatore d’industria rozzo e brutale, ma persino il
creatore d’industria provvidenziale e paternalistico risultano incompatibili
con concezioni non obsolete della vita industriale.
Al
contrario, esercita tuttora un anacronistico fascino (ed ha, soprattutto,
deleterie possibilità di azione) il manipolatore spregiudicato di titoli di
varia specie sui mercati finanziari interni e internazionali.
Si tratta di
una smagliatura logica il cui esame presenta un interesse non minore delle
raffinate analisi intorno alla composizione ottimale del portafoglio in
condizioni varie di incertezza.
Indubbiamente
il campo di indagine non si presta a ricerche che portino a risultati
formalmente eleganti e precisi.
Ma occorre
confortarsi ricordando che può essere preferibile “aver ragione in termini
vaghi, anziché sbagliare con tutta precisione” (1).
2. Richiami
a una indagine americana del 1955 sul funzionamento del mercato di borsa
Si è detto
che le carenze del mercato finanziario-borsistico, secondo la linea di pensiero
di questo scritto, non vanno attribuite a circostanze occasionali o a difetti
istituzionali, ma a uno squilibrio intrinseco dell’economia capitalistica,
quale si venuta storicamente sviluppando.
Una
affermazione del genere sembra contrastare, da un lato, con l’imponente
contributo teorico costituito dagli studi che tendono a inquadrare la moneta
nell’ambito delle differenti forme di attività finanziarie tra le quali si può
manifestare la scelta degli operatori economici (2); dall’altro, con lo sforzo
in atto per l’armonizzazione e il coordinamento dei mercati finanziari sul
piano supernazionale.
E’ per
riflesso di questi orientamenti, nel pensiero teorico e dell’azione pratica,
che l’atteggiamento critico nei confronti del mercato finanziario-borsistico è
stato talvolta giudicato come espressione di “provincialismo”.
Ma è un
addebito che può agevolmente ritorcersi.
Può
ritorcersi sul piano intellettuale, in quanto il meritorio studio di economisti
stranieri non dovrebbe portare a trascurare gli insegnamenti stimolatori dei
nostri maggiori maestri.
E in una
raccolta di lezioni universitarie che Gustavo Del Vecchio ha avuto occasione di
osservare - con riferimento appunto ai problemi monetari e creditizi in senso
lato - che “la scienza economica ancora da fare” (verso la quale si è
costantemente indirizzato il suo interesse analitico) avrebbe dovuto occuparsi
degli aspetti non concorrenziali “del mercato monetario, del
credito, bancario, ecc.” (3).
Si è in
presenza di spunti suggestivi e non di una trattazione elaborata.
Ma quel che
appare significativo è che, all’atto stesso di una presentazione semplificata
del sistema economico per fini di apprendimento scolastico, si ponga in
evidenza che, nei problemi monetari e finanziari in senso lato, “si tratta di
elaborare tutta una teoria relativa a condizioni complesse, miste di
concorrenza e di monopolio”.
Ancor più questa
avvertenza dovrebbe essere tenuta presente allorché ci si occupi di problemi di
politica economica: nell’esame dei quali si inclina sin troppo spesso ad
avvalersi di analisi raffinate, ma estremamente discoste dalla realtà non
concorrenziale dei mercati finanziari, interni ed internazionali.
Né si dà
minor prova di “provincialismo” (posto che i dibattiti economici debbano
svolgersi sulla base di addebiti del genere) allorché si prospettano gli
assetti istituzionali “altrui” dei mercati finanziari e borsistici come modelli
ideali verso i quali si dovrebbe tendere.
Qui
veramente si è in presenza di informazioni insufficienti o di una congenita
tendenza a vedere il paradiso nell’inferno degli altri.
Già nel
1956, avendone rilevato la importanza demitizzatrice dell’assetto istituzionale
del mercato di borsa degli Stati Uniti, ebbi a illustrare piuttosto
diffusamente i risultati di una indagine parlamentare americana, svoltasi con
una imponente partecipazione di economisti accademici, di operatori pratici e
di personalità investite di responsabilità politiche (4).
Poiché
“nulla è più inedito della carta stampata”, può essere utile richiamare alcune
evidenze di tale inchiesta:
a) Indagini
per campione, compiute nel 1949 e 1952, hanno posto in rilievo l’esistenza di
una accentuata concentrazione del possesso azionario da parte dei privati e la
mancanza di modificazioni sensibili del fenomeno tra le due date. L’indagine
del 1952, compiuta presso l’Università di Michigan, ha accertato che meno
dell’1% delle famiglie americane deteneva più dei quattro quinti di tutti i
titoli negoziabili posseduti da privati
b) La
capacità del pubblico di “esporsi a delusioni speculative” (J. K. Galbraith) è
esemplificata, nella indagine in esame, dalla crescente influenza esercitata
sul pubblico da cronisti o improvvisati esperti finanziari che, con l’ausilio
dei moderni mezzi di informazione, sono in grado di orientare decisamente il
mercato nel senso da essi suggerito; dalla diffusione di lettere a catena che
sollecitano determinati acquisti come mezzo di rapido arricchimento proprio e
di persone amiche; dalle vendite di beni di consumo durevole, sollecitate con
l’offerta gratuita di un certo numero di azioni (generalmente relative a miniere
di uranio); dalle dimensioni e caratteristiche “preoccupanti” assunte dalle
vendite di taglio minimo (penny stocks) riguardanti, in prevalenza,
iniziative per lo sfruttamento di petrolio o uranio.
c) Appare
largamente documentata la riluttanza delle imprese a far ricorso al
finanziamento in forma azionaria; riluttanza non attribuibile unicamente a
motivi fiscali, o a mancanza di domanda, ma soprattutto a un deliberato “birth
control” - come lo si è definito pertinentemente - che i dirigenti delle
imprese esercitano sulle nuove emissioni. La questione è lucidamente
puntualizzata nel seguente scambio di battute tra un senatore e l’allora
Presidente del Consiglio dei Governatori del Federal Reserve System.
Sen.
Monroney: “Non vi è nulla che possa essere fatto dal sistema della riserva
federale quale incoraggiamento perché il finanziamento avvenga in misura
maggiore attraverso il mercato azionario e in misura minore in forma di
indebitamento?”
Martin
(Presidente del Consiglio dei Governatori del Sistema): “No; non ritengo che ci
spetti di decidere in materia di affari per conto degli altri”.
Indipendentemente
dalla validità che si attribuisca alla risposta, il fatto stesso della
formulazione della domanda pone in luce più realistica la politica di
finanziamento dei complessi produttivi, in condizioni di prevalente oligopolio
(e in una “era dell’inflazione”, come quella prevalsa - tutto sommato - a
partire dal secondo dopoguerra).
A distanza
di un quindicennio dall’epoca in cui questi rilievi furono formulati, gli
stessi o analoghi problemi possono essere considerati alla luce di più recenti
ricerche.
E’ su di
esse che volgeremo ora l’esame.
3. Il caso
dell’IOS, a distanza di un quindicennio, e i suoi aspetti più clamorosi
Nell’arco di
tempo appunto di un quindicennio, per impulso di un personaggio pittoresco [Bernard Cornfeld] che ha di recente formato oggetto
di due volumi biografici (5), l’inclinazione del pubblico a “esporsi a
delusioni speculative” è stata posta a fondamento dell’attività vertiginosa
dell’organizzazione denominata Investors
Overseas Services (IOS).
Partendo dal
nulla, questa organizzazione aveva raggiunto intorno al 1970 la posizione
sintetizzata dalle seguenti cifre: “più di un milione di clienti in 126 paesi,
circa 20.000 impiegati e venditori operanti attraverso un centinaio di società
azionarie, con giro medio di affari di 3 milioni di dollari al giorno per 365
giorni l’anno, con un ammontare complessivo di altrui moneta amministrata di
oltre 2 miliardi di dollari.
Le vendite e
gli acquisti di titoli da parte dell’IOS raggiunsero in qualche giorno un
volume pari al 5 per cento degli scambi di titoli nella borsa di New York” (6).
Il fenomeno
è significativo per più di un aspetto.
Nel caso in
esame, “l’intermediazione specializzata” che costituisce la ragion d’essere dei
vari tipi di fondi di investimento era in realtà sostituita dalla ricerca
spregiudicata di scappatoie fiscali, legislative e valutarie sia negli stessi
Stati Uniti che nei numerosi altri paesi nei quali l’IOS aveva esteso la sua
attività.
E poiché il
tracollo dell’organizzazione ebbe inizio nel settembre 1969 per l’azione tenace
e puntigliosa della Securities and Exchange Commission (7)
americana, l’intera storia potrebbe essere vista come affermazione finale della
correttezza finanziaria sulle costruzioni avventurose o fraudolente.
Ma a parte il
fatto che il caso dell’IOS, se è stato il più clamoroso, non è rimasto isolato,
l’intervento correttivo dei poteri pubblici è giunto sempre tardivo e quando
già ingente era l’ammontare del risparmio espropriato e il numero delle persone
coinvolte.
Riesce
pertanto difficile condividere l’apologia corrente della “intermediazione
specializzata” che, attraverso i fondi di investimento, dovrebbe salvaguardare
i risparmiatori sprovveduti dai rischi delle decisioni di investimento
finanziario, allorché poi si riversa su di essi il rischio di distinguere tra
gli “intermediari specializzati” finanziariamente corretti e quelli che non lo
sono.
D’altra
parte, quando anche i pubblici poteri assolvessero con efficacia e tempestività
il compito di fornire informazioni orientatrici delle scelte della collettività
- e si è ben lontani dall’adempimento adeguato di questa funzione già indicata
con vigore da John Stuart Mill (8) - il pubblico va spesso alla ricerca di
scuse per illudersi, più che di informazioni demitizzatrici.
Come la
recente corsa ai più spregiudicati “fondi di investimento” ha ricalcato, in
molti aspetti, le vicende del parossismo borsistico degli anni venti, così non
può escludersi che episodi analoghi abbiano a ripetersi nel futuro.
E’
l’eliminazione in toto della speculazione borsistica,
soprattutto del comparto dei titoli azionari, che appare la soluzione
appropriata ad un’epoca in cui, proprio per l’accresciuto numero dei
risparmiatori alla ricerca di investimenti finanziari, appare inevitabile, e
insanabile con accorgimenti istituzionali, che essi siano sempre esposti a
rischi sproporzionati alle proprie possibilità conoscitive.
4. La
“sovranità” del risparmiatore e la sua manipolazione da parte
dell’intermediazione specializzata
Le vicende
non edificanti che hanno accompagnato lo sviluppo di istituzioni tipiche della
“intermediazione specializzata” nel settore finanziario, quali i fondi di
investimento, hanno finito per esplodere, negli ultimi tempi, con la diffusione
di tutta una serie di particolari sconcertanti (9).
Tuttavia, e
ci riferiamo ora in modo specifico al nostro Paese, l’esigenza di istituzioni
dirette a realizzare una “intermediazione finanziaria specializzata” viene
sostenuta con argomentazioni basate soprattutto sulla “povertà” del nostro
mercato finanziario (nel senso di scarsezza di titoli tra i quali possa
operarsi la scelta dei risparmiatori) e sulla conseguente difficoltà dei
risparmiatori stessi di effettuare la desiderata differenziazione degli
investimenti.
E’
certamente sorprendente che, in un periodo nel quale è ben nota la pressione
esercitata in forme varie sulle preferenze dei consumatori, in vista di
condizionarle, influenzarle e indirizzarle nelle direzioni volute, si prospetti
il mercato finanziario come quello nel quale la “sovranità del risparmiatore”
avrebbe ancora possibilità di affermarsi.
Che, anche
nel settore finanziario, l’inesperienza degli operatori sia manipolata con
forme sottili di suggestione e di propaganda “di porta in porta”; che l’azione
pubblicitaria svolta in questo campo sia necessariamente di tipo persuasivo,
dato che nessuno possiede le informazioni occorrenti per un’attendibile
valutazione dell’andamento futuro dei mercati finanziari; che la
“intermediazione specializzata” miri in sostanza a soddisfare esigenze in larga
parte artificiose che essa stessa concorre a creare; sono aspetti che non
andrebbero ignorati e che potrebbero essere utilmente sottoposti ad
accertamento empirico.
Esistono
forme di “inquinamento finanziario” il cui costo sociale sembra meritare
un’attenzione non minore di quella che è oggi di moda riservare ad altri
aspetti di perturbamento ecologico.
Ora, come
l’inquinamento in genere può combattersi con mezzi idonei di prevenzione e di
repressione, così “l’inquinamento finanziario” non dovrebbe (secondo quanto
sembra di poter desumere dalle opinioni prevalenti) portare alla eliminazione
della “intermediazione specializzata”, bensì degli inconvenienti che vi sono
connessi.
Ecco dunque
- a voler esemplificare - il provvedimento che ha mirato ad “arricchire” il
nostro mercato finanziario con l’ammissione alla quotazione dei titoli di
alcune grandi banche (misura talmente incongrua che riesce difficile giudicarla
come una cosa seria).
Ecco il
ricorso a illustri vegliardi da mettere a capo delle istituzioni di
“intermediazione specializzata”, perché forniscano ai risparmiatori un
dignitoso avallo che in realtà (come poi dimostrano i fatti) non può porli al
riparo dalle vicissitudini borsistiche e risulta in definitiva mistificatorio
(per quanto sia penoso il rilevarlo).
E’ la
riflessione su questi e molti altri fatti che mi fa considerare preferibile la
ricerca di vie più semplici di quella dell’assoggettamento a controlli e a
vincoli della “intermediazione specializzata”, che considero comunque in larga
parte artificiosa.
Nell’indicare
questa via più semplice come “socializzazione delle sovrastrutture
finanziario-borsistiche” ho inteso soltanto dire che potremmo utilmente
adattare alle nostre esigenze alcuni aspetti del finanziamento degli
investimenti praticato dalle economie socialiste: soprattutto l’eliminazione
della speculazione borsistica.
Non ritengo
che il groviglio delle manipolazioni finanziarie odierne, che trovano nella
borsa il centro operativo, sia essenziale per il mantenimento di una attività
produttiva multiforme, dinamica, progressiva.
Non ritengo
che l’integrazione economica dei mercati debba portare all’estendersi della
sofisticazione finanziaria, con tutto il suo folklore e i suoi prestigiosi
manipolatori di titoli, realizzatori di scalate espropriatrici di falangi di
risparmiatori inconsapevoli.
Mi corre
obbligo di aggiungere che queste affermazioni vengono avanzate con piena
consapevolezza della dissociazione che oggi esiste nelle economie occidentali
tra la formazione del risparmio e la sua utilizzazione per fini di
investimento.
Anzi è
appunto l’accrescersi del numero dei risparmiatori, la costatazione ben nota
della loro riluttanza ad assumere rischi, il ripudio in larga parte intervenuto
(quanto meno nel nostro paese) del possesso azionario, che inducono a ritenere
preferibile il ricorso a forme più semplici, limpide e palesi di investimento
finanziario.
5. Mercato
azionario e efficienza economica nel periodo breve
Sin qui
l’enfasi sembra essere stata posta sugli aspetti patologici della
“intermediazione specializzata” nei mercati finanziari.
Dalla
documentazione di cui si dispone risulta che questi aspetti sono di notevole
gravità; ma occorre anche soffermare l’esame sulle funzioni positive che
vengono abitualmente riconosciute alla borsa e ai mercati finanziari in
generale.
Un’analisi
particolarmente chiara e penetrante di queste funzioni è stata svolta, qualche
anno fa, da un economista di reputazione internazionale, William J. Baumol, in
un volumetto dedicato appunto al “mercato azionario e l’efficienza economica”
(10).
Poiché, come
del resto l’autore non manca di avvertire, i suoi interessi sono essenzialmente
di carattere teorico, la trattazione - pur presupponendo una complessa realtà
istituzionale - tende a cogliere l’essenza dei problemi indagati.
Di qui
l’utilità ancor oggi notevole, a mio avviso, di far richiamo alle premesse
dalle quali lo studio parte, agli interrogativi che esso pone e alle risposte
che fornisce.
Le premesse
riguardano le funzioni “ideali” di norma attribuite al mercato finanziario.
E’ appena il
caso di ricordare l’importanza che riveste, per un sistema economico e per la
sua crescita, l’impiego appropriato delle risorse che si designano con la
denominazione comprensiva di “capitale”.
Sia nel
significato “reale” del termine che dal punto di vista “monetario”, “la
flessibilità e la capacita di tempestiva reazione del meccanismo di allocazione
del “capitale” influenzano direttamente l’adattabilità dell’apparato produttivo
e conseguentemente incidono sulle prospettive di periodo lungo dell’intera
economia” (11).
Ora,
considerato come parte di questo meccanismo, il mercato finanziario è
contraddistinto da caratteristiche che sembrano renderlo particolarmente idoneo
a svolgere questa funzione di allocazione appropriata del “capitale”
(monetario).
In breve,
esso è di guida alla gestione imprenditoriale con le informazioni che fornisce
sul costo del capitale e sul livello più conveniente di investimenti da
intraprendere; offre possibilità di accesso a un elevato numero di
risparmiatori anche con disponibilità individualmente esigue, ma ragguardevoli
nel complesso; consente la trasferibilità di fondi con un limitato sforzo
amministrativo per gli interessati; dà modo di valutare le prospettive future
delle imprese, e quindi le loro capacità di credito quando si presentino come
richiedenti di nuovi fondi; rende infine possibile l’impiego in investimenti a
lungo termine di risorse finanziarie appartenenti a individui che intendono
conservarne la disponibilità in ogni momento.
“Per tutte
queste ragioni e senza dubbio per altre ancora, si è portati a considerare il
mercato di borsa come lo strumento allocativo per eccellenza del capitale e,
quando si eccettui qualche perplessità sugli effetti dannosi della
speculazione, si è inclini a pensare che esso costituisca un meccanismo
allocativo fornito di notevole efficienza” (12).
L’interrogativo
fondamentale che lo studio in esame si pone è quello di verificare in modo
approfondito la validità di questa affermazione.
Il quesito
di fondo si scinde, per fini di analisi, in altri interrogativi pin specifici.
Con
riferimento all’operare quotidiano del mercato quali sono le procedure e le
interrelazioni mediante le quali le forze di domanda e offerta si traducono in
quotazioni correnti?
Con
riferimento alla funzione cruciale di allocazione efficace delle risorse
finanziarie, quali relazioni effettivamente esistono tra i guadagni prospettivi
delle imprese azionarie (guadagni che, idealmente, dovrebbero determinare le
quotazioni dei rispettivi titoli) e i valori correnti di mercato?
Converrà
considerare in termini più espliciti i problemi connessi con questi due
quesiti.
L’operare
quotidiano del mercato di borsa, a prima vista, sembra identificarsi con il
meccanismo automatico delle forze di domanda e offerta.
Ma, in
realtà, le cose stanno in modo diverso.
“II
meccanismo automatico non è lasciato a se stesso; c’è un uomo
nascosto nel meccanismo e che in effetti lo fa muovere. Poiché questa è, in
essenza, una delle funzioni principali di chi opera come specialista nel
mercato di borsa” (13).
Volendo
limitare il nostro esame ai problemi essenziali non interessa,
ai fini attuali, distinguere le varie qualificazioni professionali che questa
attività specialistica può assumere, o le varianti che le qualificazioni stesse
presentino nei diversi ambiti istituzionali.
Quello che
preme accertare è, da un lato, ciò che ci si attende dall’attività
dell’operatore specialista sul mercato di borsa; dall’altro,
la misura in cui la sua azione effettiva si discosta da quella in certo
senso ideale.
Il compito
assegnato allo specialista è quello di stabilire il prezzo (14); egli non può
farlo, ovviamente, in modo completamente arbitrario, ma lo fa con un ampio
margine di discrezionalità.
Nelle
presentazioni convenzionali della sua opera si tende a sottolineare che le
operazioni da lui compiute, come compratore o venditore residuale (15), hanno
una influenza stabilizzatrice sul mercato e vi salvaguardano il mantenimento di
condizioni ordinate.
Con maggior
realismo, Baumol pone in rilievo alcune circostanze di fatto dalle quali
risulta che queste operazioni costituiscono, per gli specialisti, anche una
fontte non indifferente di profitti (16).
Ma le
considerazioni di maggior peso riguardano l’esatto inquadramento teorico della
parte svolta dallo specialista.
Anziché come
soggetto che operi in condizioni competitive, egli va correttamente analizzato
come monopolista, o oligopolista, in grado di amministrare i prezzi, rispetto
al gruppo (concorrenziale) degli operatori che gli sono di fronte quali
venditori o compratori.
La
conseguenza ultima è che “i prezzi ai quali si perviene sui mercati finanziari
e le quantità di titoli vendute ed acquistate non sono ottimali dal punto di
vista sociale, perché potrebbero essere scelti altri livelli di prezzi e altre
quantità in modo da avvantaggiare qualche compartecipe, senza danneggiare
nessuno” (17).
Né, secondo
la serrata critica del nostro Autore, può affermarsi con certezza che l’azione
dello specialista riesca ad avere una influenza stabilizzatrice sul mercato.
Questa
influenza potrebbe essere riferita: alle tendenze dei prezzi nel periodo lungo;
alle oscillazioni quotidiane dipendenti dalla discontinuità tra offerta e
domanda; all’ampiezza e frequenza di altre fluttuazioni di tipo moderato; alle
variazioni improvvise dovute all’insorgere di crisi.
Fatta
eccezione per le oscillazioni quotidiane. sulle quali lo specialista ovviamente
influisce, con il fornire una continua fonte di offerta o la contropartita di
una domanda continuativa, gli altri compiti di stabilizzazione o sono
ragionevolmente al di fuori delle possibilità di azione dello specialista (come
accade per le tendenze di lungo periodo), o non risultano soddisfatti in modo
valido o persistente.
In
definitiva, l’operare degli specialisti del mercato finanziario, pur essendo
indispensabile nell’attuale assetto istituzionale, né porta a una formazione
dei prezzi che possa dirsi socialmente ottimale, né esercita una significativa
influenza stabilizzatrice.
Dobbiamo ora
passare al secondo dei problemi indicati.
6.
L’efficienza allocativa dei mercati finanziari nel periodo lungo
L’esame dei
problemi di periodo lungo si propone di accertare - come si è già indicato - se
le tendenze dei prezzi che si affermano sul mercato di borsa siano tali da
assicurare una allocazione efficiente delle risorse finanziarie.
Per
rispondere a questo intento, le quotazioni azionarie non dovrebbero
discostarsi, nel periodo lungo, dalle prospettive di profitto delle
corrispondenti società.
“Se infatti
i prezzi dei titoli di una società non corrispondessero ai suoi profitti, le
risorse finanziarie non affluirebbero con prontezza verso le imprese più idonee
ad utilizzarle, tale idoneità essendo necessariamente misurata dai guadagni
previsti dall’impresa (...). Conseguentemente, le risorse reali verrebbero
allocate in modo imperfetto.
Inoltre, se
i prezzi dei titoli fossero dissociati dalle potenziali di guadagno, la borsa
non avrebbe modo di agire come forza disciplinatrice, in grado di spingere le
amministrazioni delle imprese nel senso della salvaguardia dell’efficienza
operativa delle imprese stesse. Pertanto il prezzo dei titoli sul mercato è di
importanza fondamentale per “l’allocazione delle risorse” (18).
Ma se il
modo in cui il mercato dovrebbe operare risulta
ragionevolmente chiaro, l’analisi del modo in cui effettivamente opera
appare ancora oggi contraddistinta da punti di vista contraddittori, dipendenti
verosimilmente da persistenti lacune conoscitive.
Da un lato
(e questa posizione estrema può farsi coincidere con le note tesi di Merton H.
Miller e Franco Modigliani) le quotazioni azionarie tenderebbero ad essere
determinate in modo sistematico e razionale, con un processo che le porterebbe
a gravitare intorno al valore economico delle risorse reali rappresentate dai
titoli; la politica dei dividendi delle imprese essendo del tutto irrilevante,
nel quadro di questa analisi, in quanto sarebbero esclusivamente le
potenzialità di profitto (indipendentemente dalla parte trattenuta per fini di
finanziamento interno) a determinare il “valore intrinseco” dei titoli.
Dall’altro
lato - e la posizione in tal caso si ricollega alle sottili considerazioni di
Keynes sullo “stato dell’aspettativa a lungo termine” e sullo sforzo diretto a
“prevedere in qual modo l’opinione media pensi che l’opinione media medesima si
orienti” (19) - le quotazioni azionarie rifletterebbero soprattutto fenomeni di
speculazione e di aspettative.
Le
prospettive di profitto rientrerebbero ancora nel quadro, ma esclusivamente
come uno dei possibili stimoli suscettibili di influire sulle aspettative degli
operatori circa il comportamento altrui.
In aggiunta,
una disponibilità crescente di indagini empiriche, spesso svolte con l’ausilio di
elaborate tecniche statistiche (20), porta a concludere che le quotazioni sui
mercati di borsa non consentono previsioni di tipo deterministico.
Un
comportamento puramente casuale delle quotazioni, peraltro, non è conciliabile
con una loro sostanziale dipendenza dalle prospettive future di profitto delle
imprese.
Un certo
carattere erratico dei guadagni societari può verificarsi nel periodo breve; ma
sembra scarsamente plausibile con riguardo alle prospettive di periodo lungo,
che sono quelle che qui interessano.
II dibattito
interpretativo su questi risultati delle indagini empiriche è ben lungi
dall’essersi concluso (21).
Ma, ai fini
attuali, l’esistenza stessa di questi contrastanti punti di vista dovrebbe
portare quanto meno a sospendere il giudizio circa l’efficacia funzionale del
mercato di borsa come strumento allocativo delle risorse finanziarie nel lungo
periodo.
Può
aggiungersi che quanto si è detto finora riguarda quella parte del meccanismo
di mercato che si esprime nella domanda.
Ove l’attenzione
si rivolga al lato dell’offerta emergono ulteriori motivi che allontanano il
funzionamento effettivo del mercato dallo schema del processo riequilibratore
di periodo lungo, in condizioni ragionevolmente concorrenziali.
Dal lato
dell’offerta, infatti, le imprese che “offrono” titoli sono generalmente di
tipo oligopolistico e il ricorso o meno al mercato azionario, mediante nuove
emissioni, rientra nel quadro della loro complessa strategia.
Negli Stati
Uniti, rileva il Baumol, “per un insieme di motivi, (...) coloro che
controllano la gestione delle società azionarie americane non hanno, negli anni
più recenti, materialmente accresciuto la loro offerta di titoli azionari delle
loro imprese, anche quando le condizioni di mercato erano particolarmente favorevoli.
Occorre anzi dire che le amministrazioni azionarie hanno fatto di tutto per
evitare l’offerta di nuovi titoli” (22).
E’ un
rilievo, questo, che conferma una osservazione analoga gi in precedenza
esposta, e che dovrà essere ancora brevemente ripresa in seguito.
Per ora,
questo sguardo sommario ai problemi di periodo lungo dei mercati finanziari può
chiudersi prendendo atto che “il meccanismo concorrenziale di periodo lungo,
come lo si concepisce abitualmente, funziona sul mercato di borsa soltanto in
modo molto imperfetto, se pure funziona affatto. Ciò in quanto componenti
importanti ed essenziali di quel meccanismo o non sono presenti o non sono
operanti” (23).
7. Se la
borsa sia un efficace guardiano dell’efficienza dell’impiego delle risorse allocate
per suo tramite
Se quanto
finora esposto solleva notevoli dubbi sull’efficienza funzionale del mercato di
borsa, con riguardo a coloro che ottengono le risorse finanziare,
vi è un ulteriore interrogativo che può porsi (sempre seguendo l’esposizione
del Baumol).
In quale
misura, cioè, la borsa riesce a controllare l’impiego efficiente delle risorse
finanziarie da parte di coloro che se ne sono procurata la
disponibilità?
Un simile
compito di “guardiano dell’efficienza”, non è estraneo alle funzioni della
borsa: dovrebbe concretarsi nel più agevole accesso al mercato di borsa, da
parte di chi fa uso proficuo delle risorse finanziarie, e in un trattamento
punitivo assegnato invece agli amministratori inefficienti nel caso del loro
ricorso al mercato finanziario.
Sennonché
(con riguardo alla situazione degli Stati Uniti d’America) la possibilità
stessa di esercitare questo compito di “guardiano dell’efficienza” è
praticamente esclusa, poiché le imprese societarie ricorrono in modo molto
limitato - come si è detto - al lancio di nuove emissioni.
Riprendendo
l’accenno in precedenza ricordato, il nostro Autore menziona varie indagini
compiute negli Stati Uniti, tutte concordi nel porre in evidenza l’importanza
predominante assunta dalle fonti interne, nel finanziamento delle imprese
societarie, e il ricorso limitatissimo alle nuove emissioni azionarie (24).
D’altra
parte alcune importanti ricerche empiriche effettuate in Inghilterra, e che
sarebbe utilissimo ripetere altrove, sembrano indicare che le risorse ottenute
con l’autofinanziamento sono utilizzate in modo molto inefficiente (25).
Ne deriva
cosi un insieme significativo (anche se non definitivo) di elementi informativi
che dovrebbe relegare nel novero dei “miti” la concezione della borsa come
guardiana dell’efficienza.
La forza dei
miti tuttavia, come è ben noto, consiste nella loro resistenza ai fatti che li
smentiscono.
Lo stesso
autorevole economista di cui ci siamo tanto largamente avvalsi, nella
consapevolezza che in questa materia non avremmo potuto in alcun modo
improvvisare una autonoma competenza, addolcisce la sua stringente critica con
una considerazione finale fiduciosa, allorché osserva che il mercato di borsa
(americano) “ben lungi dall’ideale competitivo, minato da numerose e palesi carenze,
svolge tuttavia un compito meritevole” (26).
Non ci
sembra di poter condividere questo giudizio, anche se il nostro Autore lo
qualifica con la considerazione che si tratta di un mercato “mai programmato da
una organizzata deliberazione umana” (p. 83).
Saremmo
piuttosto portati ad osservare che, quando manca l’organizzata volontà umana
programmatrice, inevitabilmente gli interessi sezionali finiscono per prevalere
su quelli della collettività.
Di fronte
alla limitata utilizzazione della borsa, come strumento di collocamento di
nuove emissioni azionarie da parte dei grandi complessi oligopolistici, da un
lato, e delle imprese di dimensioni medie, dall’altro, gli “specialisti” del
mercato finanziario hanno dato vita a un artificioso lavoro puramente speculativo
sui titoli in essere, sia con il moltiplicarsi dei fondi di investimento, sia
con lo sviluppo - che qualcuno ha considerato incline alla mania (27) - delle
concentrazioni finanziarie, nazionali e internazionali.
L’accrescersi
dei fondi di investimento negli Stati Uniti ha determinato, verso la metà degli
anni sessanta, una situazione tale che i mezzi raccolti erano più del doppio
del valore delle nuove emissioni azionarie collocate sul mercato dalle società
americane.
Questo non
poteva non riflettersi in un gonfiamento dei prezzi artificioso e quindi
precario.
Lo
spostamento degli acquisti verso altri mercati, d’altra parte, non faceva che
estendere il fenomeno, in quanto si trovava di fronte praticamente ovunque a
una offerta esigua di nuove emissioni.
Quanto alle
concentrazioni finanziarie e alla tendenza odierna di presentarle come mezzo
per realizzare indispensabili riorganizzazioni industriali, o adeguamenti
dimensionali idonei a produrre significative “economie di scala”, può essere
utile riflettere sulle seguenti considerazioni.
“L’esperienza
dimostra che “le economie di scala” non sono una illusione. Essa dimostra,
tuttavia, che spesso il loro conseguimento richiede un intervallo di tempo ben
superiore a quello prospettato dagli amministratori agli investitori, nel
momento in cui la concentrazione venne decisa. Inoltre le maggiori dimensioni
possono provocare tutta una serie di problemi che, allo stato delle cose non
risultano sufficientemente indagati. In altri termini, le concentrazioni possono essere
utili per l’attività industriale e per il paese, ma possono invece provocare
notevolissimi danni” (28).
La loro
realizzazione, conseguentemente non dovrebbe essere lasciata all’apprezzamento
intuitivo dei manipolatori dei titoli, ma costituire il risultato di indagini
nelle quali appare indispensabile la partecipazione del potere pubblico.
D’altronde,
la consapevolezza delle carenze dei mercati finanziari è ormai notevolmente
diffusa, malgrado il persistere dei convincimenti di coloro che continuano a
considerare i mercati stessi come soddisfacentemente concorrenziali.
Si deve a
questa consapevolezza se “riforme” più o meno incisive di tali mercati hanno
formato oggetto di numerosi studi e progetti, su alcuni dei quali sarà utile
soffermare il nostro esame.
8. Una
proposta recente di centralizzazione nazionale delle operazioni di borsa
Un progetto
di completa riorganizzazione dei mercati di borsa negli Stati Uniti, è stato
presentato, di recente, dall’antico presidente del Consiglio dei governatori
del sistema della riserva federale, William McChesney Martin (29).
Ai fini
attuali, non interessa se le sue proposte saranno accolte e se, nel corso delle
discussioni che esse vanno suscitando, subiranno modificazioni più o meno
notevoli.
Quel che
importa è l’indicazione che le proposte stesse forniscono delle carenze
rilevabili nei mercati di borsa americani e, soprattutto, della estensione del
fenomeno della intermediazione parassitaria.
Intanto è
utile tener presente la situazione che ha portato a sollecitare l’indagine
conoscitiva affidata a Martin.
E’ ben noto
che, a partire dalla metà del 1965, sono prevalse negli Stati Uniti accentuate
e persistenti tendenze inflazionistiche, alle quali si è cercato di far fronte
con varie misure restrittive, monetarie e fiscali, con le quali si desiderava
altresì evitare conseguenze sfavorevoli troppo grandi sul reddito e
sull’occupazione.
In realtà,
lo stato di cose che ha finito per prevalere, nello scorcio più recente del
1970-71, assomma gli inconvenienti del ristagno produttivo con quelli di una
“ostinata” tensione inflazionistica.
Ora, nel
quadro di queste incertezze congiunturali, la borsa ha reagito smodatamente sia
nell’esuberanza del periodo anteriore al delinearsi di una politica
restrittiva, sia nel collasso seguito all’adozione dei provvedimenti
antinflazionistici.
Il
fallimento di una trentina di “intermediari specializzati” nei mercati di borsa
ha documentato l’incapacità del sistema di fornire quelle condizioni di
“continuità, regolarità e ordine” che sono essenziali perché esso funzioni
effettivamente nell’interesse dei risparmiatori e dell’economia.
La soluzione
proposta da Martin tende alla formazione di un mercato di borsa unificato, di
dimensioni nazionali, nel quale le negoziazioni siano soggette a condizioni
uniformi e le informazioni necessarie (incluse quelle relative ai prezzi e al
volume di tutti gli scambi) siano centralizzate, con possibilità di accesso
alle informazioni stesse da parte di tutti gli interessati (30).
Il progetto
non mira dunque alla eliminazione della “intermediazione specializzata”, bensì
al suo assoggettamento a un controllo pubblico efficace e “moderno”.
Il carattere
non sovvertitore di questo obiettivo, del tutto “conforme” anzi a una logica
operativamente concorrenziale, non impedisce che il Martin, per avvalorare il
suo disegno di un mercato di borsa funzionante su scala nazionale, debba fare
tutta una serie di ammissioni, che costituiscono conferme autorevoli di quanto
si è in precedenza posto in rilievo.
Così, egli
riconosce l’influenza - definita addirittura “sconvolgitrice” - degli
investitori istituzionali per il potere da essi acquisito di “fare” il mercato.
Contesta che
l’esistenza di più mercati finanziari (in contrapposto a quello unificato che
egli suggerisce) sia espressione di uno stato concorrenziale, poiché non vi é
concorrenza allorché i mercati sono sottoposti a regolamentazioni differenti
che influiscono sulle possibilità di informazione dei partecipanti e sulle
responsabilità che essi assumono.
Difende il
mantenimento dell’attività degli “specialisti”, in quanto non si è trovato di
meglio per assicurare la continuità del mercato; ma suggerisce l’aumento del
loro numero, l’’accrescimento delle loro risorse dirette, la definizione più
chiara delle loro responsabilità mediante l’adozione di norme uniformi.
Ma il
rilievo di maggior interesse (e comprensibilmente il rilievo che ha provocato
le più vivaci reazioni al progetto) è quello che porta a respingere
l’ammissione, come membri dell’organizzazione destinata a concretare il
progettato mercato unificato di borsa, delle banche, delle compagnie
fiduciarie, dei fondi di investimento e di altre istituzioni analoghe.
La
concentrazione di potere economico che potrebbe derivarne, l’influenza
predominante che queste istituzioni finirebbero per avere portano il Martin a
escludere sia che le indicate istituzioni acquistino la qualità di membri
abilitati a operare sul mercato finanziario unificato, sia che un membro possa
partecipare alla gestione di fondi di investimento.
In
definitiva, indipendentemente dal seguito che potrà avere il progetto Martin,
esso ha rilevanza da un duplice punto di vista.
Da un lato,
occorre indubbiamente prendere atto dell’esigenza di garantire a coloro i quali
contribuiscono alla formazione del capitale mediante l’acquisizione di attività
finanziarie di poter rivendere le attività stesse in qualunque momento lo
desiderino e in condizioni che non incidano negativamente sul loro stato di
fiducia.
Dall’altro,
le procedure odierne del mercato di borsa, le sue operazioni speculative allo
scoperto, la commistione di interessi che attualmente si accentra negli
operatori specializzati, la connessione tra l’attività bancaria e l’attività
borsistica costituiscono, nel loro complesso, un “accidente storico” in nessun
modo intrinsecamente connesso con l’esigenza di assicurare il collocamento, o
la mobilitazione, di titoli rappresentativi del capitale reale di una
collettività.
9.
Possibilità di soluzioni che portino a un rigetto della borsa e del suo
folklore
Una esigenza
aggiuntiva dei detentori di attività finanziarie costituenti la contropartita
della formazione, del rinnovo e dell’incremento del capitale reale di una
collettività è quella della difesa dall’erosione monetaria.
A tale
intento dovrebbero in particolare corrispondere gli investimenti azionari e,
come strumento di una loro adeguata differenziazione, i diversi tipi di fondi
di investimento.
Ma quella
salvaguardia che sia possibile ottenere per questa via (31), viene conseguita -
come si è visto - con un pesante costa sociale costituito dalle manipolazioni e
dalle speculazioni a cui si prestano i titoli, e in particolare quelli azionari.
Anche in tal
caso, il modo odierno di operare del mercato di borsa è ben lontano dal
contribuire a una effettiva tutela del potere di acquisto del risparmio
destinato alle varie forme di investimento finanziario.
La
possibilità tecnica di fornire questa tutela va ricercata in altre soluzioni
più dirette e limpide.
Non si
intende alludere soltanto alla indicizzazione di tipo tradizionale.
E’ stata di
recente avanzata la proposta che lo Stato, anziché indebitarsi con titoli a
reddito fisso, come accade abitualmente, collochi sul mercato azioni ordinarie,
che diano diritto a un dividendo correlato con l’incremento del reddito
nazionale, sia in termini reali che per effetti inflazionistici.
Al crescere
del reddito, per entrambi i motivi, anche il dividendo aumenterebbe,
salvaguardando in tal modo il potere di acquisto delle azioni sottoscritte
(32).
La proposta
non ha colpito l’immaginazione, come l’autorevole periodico che l’ha formulata
forse si riprometteva e non ha avuto, per quanto risulti, una applicazione
pratica.
Tuttavia,
concorre anch’essa a documentare la possibilità di soluzioni che si discostino
da quelle abituali nel meccanismo di finanziamento degli investimenti.
D’altronde,
non è soltanto sul piano delle riforme delle istituzioni e delle procedure che
si pone il problema del futuro dei mercati di borsa.
Occorre
agire anche nei confronti di coloro che intendono dirigere i risparmi verso le
attività finanziarie, mediante un’opera informativa che illustri e documenti il
carattere ingannevole o fraudolento delle promesse (alle quali essi si trovano
esposti) di ingenti guadagni e di rapida moltiplicazione dei loro averi.
Se le
capacità del pubblico di autoilludersi sono illimitate, l’assenza o
l’inadeguatezza di avvertimenti cautelatori, da parte dei responsabili della
politica economica, costituirebbero un comportamento inesplicabile, rispetto
agli incisivi interventi che essi effettuano in altri campi dell’attività
economica.
Quando
questa azione informativa fosse svolta in modo tempestivo, efficace, capillare,
potrebbe seguirne un diffuso o generalizzato ripudio ad avvalersi, per ragioni
di principio, delle operazioni speculative che si incentrano nella borsa;
ripudio di cui oggi fornisce significativo ma isolato esempio l’atteggiamento
delle Trade Union inglesi che, per tradizione, si precludono
di operare su quel mercato con i fondi di cui dispongono.
Un fenomeno
di rigetto costituirebbe, in altri termini, la soluzione radicale di fronte al
funzionamento odierno dei mercati di borsa.
Sono consapevole
che una affermazione del genere può essere considerata ingenua o stravagante.
Ma è tempo
che gli economisti, per esigua che possa essere la loro voce, non si limitino
ad analizzare a posteriori il susseguirsi di “great crash”, ma dissocino a priori
la loro responsabilità, con il documentare i costi sociali del mercato di
borsa.
Nelle
condizioni odierne di estesa concentrazione del potere economico e finanziario,
esso non è strumento di vigore competitivo e di allocazione efficiente del
capitale monetario; bensì strumento di un complesso intreccio di manovre e
strategie, prive di ogni connessione con la logica di una economia di mercato e
rese possibili dalle deformazioni che essa ha subito con l’affermarsi di una
configurazione storica del capitalismo, ormai anacronistica.
Roma, Università.
__________
Note:
(1) Citato
da K. W. Rothschild in Teoria del prezzo e oligopolio, in
“Economisti moderni”, Laterza, Bari, 1971.
(2) Alcuni
dei più significativi contributi in questa direzione di indagine sono stati
raccolti, a cura di M. Monti, nel volume Problemi di economia monetaria,
Etas/Kompas, Milano, 1961.
(3) Cfr.
G. DEL VECCHIO: La sintesi economica e la teoria del reddito, parte
quarta delle Lezioni di economia politica, Cedam, Padova, 1950, p.
68.
(4) Cfr. Factors affecting the stock market: Staff Report
to the Committee on Banking and Currency, United States Senate, Washington,
1955; Stock market Study: Hearings before the Committee on Banking and
Currency, United States, 1955. Conformemente all’uso, 1’indagine viene designata con
il nome del Presidente del Comitato suddetto, J. W. Fulbright. Lo scritto
ricordato, con il titolo Problemi odierni del mercato finanziario,
è incluso nei nostri Saggi critici di economia, De Luca, Roma,
1958, pp. 35-59.
(5) Cfr.
B. CANTOR: The Bernie Cornfeld story, Lyle Stuart, Inc., New
York, 1970; C. RAW, G. HODGSON, B. PAGE: Do you sincerely want to be
rich - Bernard Cornfield and IOS: an International Swindle, H.
Deutsch, London, 1971
(6) Cfr.
B. CANTOR: op. cit. pag. 9.
(7) Dopo
vari contrasti manifestatisi già in precedenza tra la SEC e l’IOS, l’attacco
definitivo della prima avvenne alla vigilia della emissione internazionale
(alla quale furono associate, purtroppo, molte reputate case bancarie in base
al principio del non olet) di 11 milioni di azioni della IOS.
Mentre il prezzo nominale era di 10 dollari per azione, le quotazioni anteriori
alla emissione si aggirarono su 30 dollari per poi cadere, dopo l’inizio
dell’offensiva della SEC, a 17 dollari dopo il primo giorno dell’emissione e a
14 in quello successivo. Agli inizi del 1970 le voci prevalenti erano che le
quotazioni sarebbero state sostenute dall’IOS al livello di dollari 12,50; ma
intorno al mese di maggio dello stesso anno le quotazioni erano scese a 2
dollari e in giugno la loro contrattazione venne sospesa alla borsa di Londra.
In queste notizie è una stringata sintesi delle molte che possono
istruttivamente leggersi nel citato volume di Cantor (p. 36-38).
(8) Sulle
possibilità aperte all’azione pubblica “con l’essere di guida e accrescere le
possibilità di informazione”, si vedano di J. S. MILL i volumi di Principles
of Political Economy (1848), p. 508.
(9) Tra
le cose meno edificanti che emergono dall’esame del lungo contrasto tra la SEC
americana e IIOS è che, in una certa fase, venne raggiunto un compromesso nel
senso che la SEC avrebbe sospeso le sue indagini a condizione che l’IOS non
avesse svolto la sua attività di vendita di titoli nel confronti di cittadini
americani, anche se residenti all’estero. Sebbene la cosa possa essere
giustificata con la considerazione che spettava agli Stati esteri di proteggere
eventualmente i propri cittadini nei riguardi dell’IOS, non può non colpire
l’ambiguità morale di un tale espediente. Colpisce altresì come persone dal
nome prestigioso si siano assunte il compito di svolgere una missione
“diplomatica” nella America latina, per far comprendere ai politici locali che,
dovendo essi in ogni caso riconoscere l’inevitabilità della esportazione
illegale dei capitali, era comunque conveniente che un 20 per cento degli
importi rimanesse nel paese, dando via libera all’azione dell’IOS. Non può
escludersi che non manchi, nel nostro paese, chi inclini a considerare
“realistico” un discorso del genere.
Infine si è
accennato all’appoggio che l’IOS ha ricevuto da reputate case bancarie, anche
allorché la spregiudicatezza del suo operato era largamente nota. L’esistenza
di “scappatoie” legislative non preclude in alcun modo l’osservanza spontanea
di regole di correttezza finanziaria. Ma una delle manifestazioni
dell’”inquinamento finanziario” consiste appunto nel venir meno delle remore
che dovrebbero suggerire comportamenti meno permissivi e più prudenziali.
(10) W.
J. BAUMOL: The stock market and economic efficiency, Fordham
University Press, New York, 1965.
(11) Op.
cit., p. 2.
(12) Ibidem,
p. 4.
(13) Op.
cit., p. 9.
(14) “Un
compito cruciale nella determinazione del prezzo è effettivamente delegato a un
individuo le cui decisioni sono di solito definitive e che sembrano essere ben
raramente contestate. Sembra non esservi dubbio che, entro dati limiti, e a
condizione che le sue decisioni non siano del tutto irragionevoli, il prezzo è
semplicemente quello che egli afferma essere richiesto dalle circostanze”.
Cfr. op. cit. p. 12. Baumol si riferisce alla larga documentazione
fornita al riguardo dal Report of Special Study of Securities Markets
of the Securities and Ehange Commission, Parte II, Washington, 1963.
(15) “Egli
deve mantenere nella misura del possibile, mercati ordinati per i titoli di cui
si occupa. Allorché si verifichi una temporanea disparità tra offerta e
domanda, egli compera o vende per proprio conto per moderare le variazioni dei
prezzi tra le vendite. Nel far questo egli mantiene la continuità dei prezzi in
modo più ordinato di quanto altrimenti si verificherebbe” (Da un opuscolo
sull’attività dello specialista, redatto dal New York Stock Exchange e citato
dal Baumol, ivi, p. 17.
(16) “Sebbene
le provvigioni forniscano una quota considerevole del reddito dello
specialista, i profitti delle transazioni non sono affatto trascurabili e in
alcuni anni, ad esempio nel 1959, hanno costituito più della metà dei redditi
dello specialista. Un certo numero di imprese operanti come specialisti
conseguono più dell’80% dei loro proventi dai profitti realizzati sulle
operazioni di compra-vendita (...). In aggiunta, un’analisi per campione indica
che la prevalente maggioranza delle operazioni compiute dallo specialista
risulta aver dato luogo a profitti” (op. cit., p. 16). Anche in altro
luogo (p. 24), Baumol insiste sul fatto che le transazioni compiute dallo
specialista diano in modo predominante origine a profitti, vedendovi una prova
che “le sue decisioni tendono a discostarsi in maniera piuttosto sistematica
dall’ideale competitivo”.
(17) Op.
cit. p. 23.
(18) Op.
cit., p. 36.
(19) Cfr.
J. M. KEYNES: The General Theory of Employment, Interest and Money,
Macmillan, London, 1936, p. 156.
(20) Cfr.
C. W. J. GRANGER e O. MORGENSTERNG Spectral Analysis Of New York Stock Market
Prices, “Kyklos”, 1963; P. H. COOTNER ed.: The Random Character of
Stock Market Prices, MIT Press, Cambridge 1964; citati nel volume di
Baumol, p. 39-40.
(21) Per
interessanti considerazioni sul significato da attribuire al carattere casuale
delle quotazioni azionarie si Veda il citato volume di Baumol, in particolare
p. 43 sgg.
(22) Op.
cit., p. 51.
(23) Op.
cit., p. 59.
(24) “Nel
periodo di 15 anni (1947-1961) (...) gli utili non distribuiti hanno costituito
dal 60 al 90 per cento del totale dei fondi, la media nel quindicennio essendo
il 73 per cento. Una ulteriore caratteristica notevole è la relativa
irrilevanza delle emissioni azionarie nette. Per l’intero periodo, esse hanno
costituito meno del 4% della crescita complessiva”. Da uno studio Capital goods review del Machinery
and Allied Products Institute, 1962, citato in Baumol, p. 68. Vi è tutta una serie di motivi che
spiega questo comportamento, ma ci tratta di motivi che non possono farsi
rientrare in un meccanismo ragionevolmente concorrenziale.
(25) Cfr. I. M. D. LITTLE: Higgledy Piggledy Growth, “Bulletin of the Oxford
Institute of Statistics”, nov.1962. Da questa indagine risulta che l’incremento dei
profitti nelle imprese che destinano una quota rilevante degli utili
all’autofinanziamento non è apprezzabilmente diverso da quello delle imprese
che non fanno ricorso all’accantonamento di parte degli utili. Questi
risultati, diversi da quelli che si sarebbe portati ad attendere,
costituirebbero indizio di un uso inefficiente delle risorse ottenute per vie
interne dalle imprese.
(26) Op.
cit., p. 83.
(27) Cfr.
W. DAVIS, Merger Mania, Constable, London, 1970.
(28) Cfr. W. DAVIS, op. cit., p. 235. Con riferimento all’Inghilterra, il citato autore
afferma che”L’ambizione personale ha, senza alcun dubbio, avuto una parte
enorme nell’ondata di concentrazione del passato decennio: ma ciò non sempre è
andato a vantaggio degli azionisti, degli occupati e del Paese” (p. 237). La
costatazione, anche in tal caso senza alcun dubbio, può agevolmente essere
estesa anche ad altri paesi. In Inghilterra è stato sostenuto, tra l’altro, che
le concentrazioni dovrebbero essere approvate non soltanto dagli azionisti
delle società coinvolte ma anche da coloro che vi prestano lavoro di ogni tipo
e per i quali la concentrazione può costituire ragione di insicurezza o di
perdita della occupazione. Per altri punti di vista sullo stesso argomento,
cfr. B. HINDLEY: Industrial merger and public policy, IRA, London
1970 e R. A. KEMP: Understanding merger activity, Institute of
Finance, New York University, 1969.
(29) Cfr. The
Securities Markets - A Report with recommendations by W. McChesney
Martin, submitted to the Board of Governors of the New York Stock Exchange,
agosto 1971 (ciclostilato).
(30) “Per
corrispondere agli interessi del pubblico e del Paese, come pure nell’interesse
della stessa attività che opera sui titoli, deve svilupparsi un sistema
nazionale di negoziazioni per fornire un singolo mercato, di dimensioni
nazionali, per la vendita all’asta di ciascun titolo che sia qualificato per la
registrazione. Un simile sistema incorporerebbe la Borsa di New York, l’American
Stock Exchange e le borse regionali”, Rapporto citato, p. 4. Naturalmente il
concretamento di questo progetto, oltre a presupporre l’adozione dei necessari
provvedimenti legislativi, richiederebbe un impiego adeguato di calcolatori
elettronici.
(31) Non
è detto che, nelle condizioni contemporanee, questa salvaguardia si ottenga
sempre. Con riferimento alla situazione negli Stati Uniti d’America nel
1970, è stato osservato quanto segue: “Sebbene si assuma di frequente che i
prezzi delle azioni muovano con i prezzi dei beni reali, e conseguentemente
riflettano qualsiasi inflazione, non è sempre così, come gli eventi del 1970
hanno dimostrato ancora una volta. Le aspettative di profitto erano incerte e
il timore del ritorno a una politica monetaria relativamente restrittiva per
ottenere successo sul fronte dell’inflazione ha creato ulteriore incertezza
negli investitori. Questi fattori hanno concorso a produrre una ragguardevole
erosione nel valore dei titoli azionari”. Cfr. Economic Report of the
President, Washington, 1971, p. 68.
(32) Cfr. A
Government ordinary share? “The Economist”, 2 maggio 1970, p.12.
https://ilcomunista23.blogspot.com/2020/01/di-una-economia-di-mercato-compatibile.html
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