Il pericolo della
“privatizzazione”, mediante “concessione” dei servizi pubblici essenziali.
Di recente, hanno destato una forte preoccupazione le vicende riguardanti:
a) “iI servizio taxi”, per Il quale disegno di legge “concorrenza”, approvato
dal Consiglio dei Ministri il 4 novembre 2021, ha previsto la emanazione di un
“decreto legislativo”, che riordini la disciplina della materia, tenendo
presente l’obiettivo della “promozione della concorrenza”; b) “il servizio
balneare”, le cui “concessioni” rientrano nella previsione, da parte del
predetto “disegno di legge”, di una “mappatura” delle concessioni di qualsiasi
tipo e con qualsiasi oggetto, e per le quali l’Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, con sentenza n. 17-18, del 9 novembre 2021, ha ritenuto “illegittima”
“la proroga”, “automatica e generalizzata”, fino al 31 dicembre 2033, prevista
dall’art. 1, commi 682 e 683, della legge di bilancio n. 145 del 2018, fissando
la scadenza di dette concessioni al 31 dicembre 2023; c) il “servizio dei
venditori ambulanti”, che sono stati esclusi da un immediato bando di gara dal
comma 686, dell’art. 1, della citata legge di bilancio n. 145, del 2018, e che,
quindi, almeno per il momento, possono non essere oggetto della nostra
attenzione; d) nonché, in genere, le vicende riguardanti il decreto legislativo
n. 59 del 2010 di “Attuazione della Direttiva 2006/123/CE, la nota Direttiva
Bolkestein, relativa ai servizi del mercato interno europeo.
Detti eventi, forieri di gravissimi danni economici per il nostro Paese,
impongono una immediata e attenta riflessione sul triste fenomeno delle
“concessioni”dei “servizi pubblici essenziali”, che poi sono soltanto un
aspetto delle micidiali “privatizzazioni”, che hanno pesantemente impoverito il
nostro Paese, ad opera dei nostri governanti, e sotto lo sguardo indifferente
di molti concittadini. Si tratta di un fenomeno che si inserisce nel più grande
evento della “trasformazione”, attraverso centinaia di leggi incostituzionali,
dell’antico “sistema economico di stampo keynesiano”, che assicurava ricchezza
e benessere per tutti, nell ‘attuale “sistema economico predatorio, cinico e
immorale, del neoliberismo”, il cui fine è quello di trasferire la ricchezza,
facendo ricorso allo strumento ingannevole della ”concorrenza”, dai più poveri
ai più ricchi. Ed è, purtroppo, da rilevare che questa triste situazione è stata
favorita anche dal fatto che la maggioranza dei “giuristi” non hanno
assolutamente voluto tener conto dell’ “evoluzione ordinamentale” imposta dalla
Costituzione e hanno continuato a ragionare come se fossimo ancora sottoposti,
specie per quanto riguarda gli “assetti proprietari”, ai principi e alle norme
dello Statuto albertino. Ciò è evidente peraltro anche nel testo del citato
disegno di legge sulla concorrenza, che parla di “proprietà” (privata) delle
“Amministrazioni pubbliche”, laddove si dovrebbe parlare, secondo la
Costituzione vigente, di “proprietà pubblica demaniale” del Popolo
sovrano, “gestita” dalla Pubblica Amministrazione.
- – Impossibilità
giuridica di “privatizzare” i servi pubblici essenziali. La “proprietà
pubblica” e il concetto di “demanio costituzionale”.
Entrando nel vivo del discorso concernente i “servizi pubblici essenziali”,
e al fine precipuo di salvaguardare gli interessi delle “Comunità” e dei
cittadini, che di questa sono “parti”, è innanzitutto da far presente che detti
servizi, in quanto determinanti per l’esistenza stessa dello “Stato comunità”,
certamente non possono essere “privatizzati” o messi a “gara pubblica”, e
devono essere tenuti “fuori commercio” e “fuori mercato”, come impone la loro
“natura” e la loro “funzione”. Il problema, come è evidente, è allora quello
“di attribuire” ai “servizi” in parola, che non sono annoverati nella
classificazione tassativa dell’attuale codice civile, il carattere della
“demanialità”, attraverso la ricognizione di un più largo concetto di
“demanio”, che, ragionando a fil di logica, certamente non dovrebbe mancare
nell’attuale ordinamento costituzionale. Si deve peraltro tener presente che è
proprio l’esser parte del demanio che assicura a detti servizi pubblici di
essere inattaccabile dagli assalti del “mercato generale”, e quindi degli
speculatori internazionali.
Il problema dell’insufficienza del “demanio civilistico”(a carattere
tassativo), ai fini della attribuzione della “demanialità” a quei beni
indispensabili per l’esistenza stessa del Popolo, è stato già avvertito dalle
Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, con sentenza n. 3665 del
2011, parlando di tutela del “paesaggio”, hanno ritenuto che “l’evoluzione
costituzionale” (e precisamente, per quanto riguarda il paesaggio, gli articoli
2, 9 e 42 della Costituzione) consente oggi di attribuire il carattere della
“demanialità” ai beni che siano rilevanti per assicurare la tutela della
Comunità e il soddisfacimento dei diritti fondamentali.
Si deve, tuttavia, osservare che la strada percorsa dalle Sezioni Unite
della Corte di cassazione, non appare del tutto scevra da una certa
incongruenza. Esse, infatti, pongono a fondamento del loro ragionamento il
convincimento, invero indimostrato, secondo cui i vigenti principi e norme
costituzionali consentirebbero di abbandonare il piano “patrimonialistico”, per
risolvere i problemi sul piano “personalistico”, considerata la grande
rilevanza che la Costituzione conferisce al tema assorbente dello sviluppo
della “persona umana” e del “progresso materiale e spirituale” della società.
Infatti, è agevole rilevare che dalla “evoluzione costituzionale”, richiamata
dalla sentenza in parola, non discende affatto la possibilità di attribuire
all’ “oggetto” una “qualifica” che discende da una “esigenza” del “soggetto”
(la persona umana e la Collettività), poiché, a ben vedere, è proprio la
Costituzione che risolve espressamente il problema restando sul “piano
patrimonialistico”, come presto vedremo. Per giunta la sentenza fa riferimento
ai “beni comuni”, come individuati dalla Commissione Rodotà, dimenticando che
quest’ultima parla dei “beni comuni”, ragionando (checché dica la relativa
Relazione) in termini “patrimonialistici”, tanto è vero che lo schema di
disegno di legge delega, che la Commissione propone, parla proprio di
“proprietà privata” dei beni comuni, una proprietà privata che sarebbe
“alienabile”, qualora i titolari siano singoli soggetti privati, e
“inalienabile”, qualora siano titolari “Pubbliche Amministrazioni”.
Occorre, dunque, percorrere un’altra strada, tenendo presente che il
messaggio di detta sentenza va comunque preso in considerazione, e che è
diventato impellente la ricerca, proprio in base a detta “evoluzione
costituzionale”, di un ben diverso “concetto” di “demanio pubblico”, che nulla
abbia a che vedere con il “demanio civilistico”, e che consenta in modo certo e
inequivocabile di annoverare i “servizi pubblici essenziali” tra quei beni e
servizi che non possono essere “posti sul mercato” o “messi a gara”, meritando
essi i caratteri della inalienabilità, inusucapibilità e inespropriabilità.
In sostanza, a questo punto, il discorso necessariamente si amplia, non
potendo restare legato ogni volta alla ricerca della “demanialità” di un
singolo bene, ma dovendo stabilire, una volta per tutte, se effettivamente
esiste nel vigente ordinamento costituzionale una nozione di “demanio” più
ampia, che esca dal criterio della “enumerazione tassativa” e consenta di
comprendere tutti quei beni e servizi ai quali abbiamo appena fatto cenno.
A tal fine, è indispensabile prendere le mosse dal “passaggio” dallo “Stato
persona”, dello Statuto albertino, “soggetto singolo”, allo “Stato comunità”
della vigente Costituzione repubblicana, che è un “soggetto plurimo”,
individuabile nel “Popolo sovrano”. Se si parte da questo presupposto
“genetico”, si comprende agevolmente che, con la accennata “mutazione”
della “forma di Stato”, è cambiata anche la “natura” del “rapporto
proprietario” tra Stato e demanio. Nel primo caso, infatti, trattandosi di un
“soggetto singolo”, il tipo dell’appartenenza dell’oggetto al soggetto è quello
individualistico della “proprietà privata” (ed è per questo che i beni
appartenenti al demanio civilistico possono essere “sdemanializzati”); nel
secondo caso, trattandosi di un “soggetto plurimo”, tale appartenenza assume la
natura comunitaria della “proprietà pubblica”, come recita il primo comma,
primo alinea, dell’art. 42 Cost., secondo il quale “la proprietà è pubblica e
privata”, intendendosi per “proprietà pubblica” quel tipo di proprietà che sta
a indicare l’appartenenza di certi beni alla Comunità e ai singoli facenti
parte della Comunità, e, in altri termini, l’appartenenza del “demanio” allo
Stato comunità e ai singoli cittadini che, di detto Stato, sono “parti”. Insomma,
non possono esserci dubbi sul fatto che il citato art. 42 Cost., parlando di
“proprietà pubblica” ha inteso parlare proprio del “demanio costituzionale” in
parola, il cui fine non più quello di rafforzare la “sovranità dello Stato
persona singola, ma della “sovranità del Popolo, a esso attribuita dall’art. 1
della Costituzione. Lo capì immediatamente, nel secolo scorso, Massimo Severo
Giannini, il quale definì la “proprietà pubblica”, come “proprietà collettiva
demaniale”.
Posta, dunque, questa identificazione tra “proprietà pubblica” e “demanio
costituzionale”, il problema diventa quello di stabilire se i “servizi pubblici
essenziali” debbano rientrare nell’ambito di detto demanio. E la risposta è
immediatamente data dalla stessa Costituzione, la quale, all’art. 43, precisa
che devono essere “in mano pubblica”, o “di lavoratori o di utenti”, e cioè
devono essere considerati parti del “demanio”, proprio “i servizi pubblici
essenziali” oggetto del nostro discorso, nonché “le fonti di energia e le situazioni
di monopolio”. Si può dire anzi, che, secondo la Costituzione, è lo stesso
“demanio costituzionale” che appartiene allo Stato comunità, e in ultima
analisi al Popolo, “a titolo originario” di “proprietà pubblica”. In parole
povere, ciò che è di tutti non può essere trasferito a un singolo parte del
tutto, deve cioè essere ritenuto inalienabile, inusucapibile e inespropriabile.
Se la Cassazione avesse tenuto presente questo cambiamento imposto dalla
Costituzione, certamente non si sarebbe sentita nella necessità di ricercare il
carattere della demanialità nelle “esigenze del soggetto”, anziché nelle
“caratteristiche” dell’oggetto.
Ed è peraltro da sottolineare che è proprio il primo comma dell’art. 42
Cost., che, ad una attenta lettura del testo, chiaramente fa capire che,
nell’ordinamento costituzionale, occorre distinguere i “beni fuori commercio”,
“appartenenti al Popolo”, come “proprietà pubblica demaniale”, “a titolo di
sovranità”; e beni “in commercio” (definiti dal primo comma dell’art. 42 “beni
economici”), “appartenenti allo Stato Pubblica Amministrazione, a Enti o a
privati”.
Nel descritto quadro non si può, peraltro, fare a meno di ricordare
che i beni in “proprietà pubblica demaniale”, in quanto necessari per
l’esistenza stessa della Comunità, sono da considerare beni “costitutivi e
identificativi” dello Stato comunità, nelle sue diverse articolazioni
territoriali, e che è per tale ragione che detti beni sono istituzionalmente
affidati alla “gestione” e alla “tutela” delle Pubbliche Amministrazioni;
gestione e tutela che, in via sussidiaria, possono essere partecipate anche da
cittadini , singoli o associati, come ricorda l’ultimo comma dell’art. 118
Cost.
A questo punto si può agevolmente affermare che l’espressione “demanio
costituzionale” coincide perfettamente con il significato che la sentenza in
questione e l’immaginario collettivo attribuiscono all’espressione “beni
comuni”. E si deve tener presente che il “demanio costituzionale”, costituito
da tanti beni comuni, è una categoria aperta, nel senso che essa comprende
anche quei beni che, nell’evoluzione dei tempi, siano da ritenere beni in
“proprietà pubblica demaniale”.
Quanto al problema di essere certi che i “servizi pubblici essenziali”
rientrano nella nuova nozione di “demanio costituzionale”, è agevole rispondere
che, da anni, dottrina e giurisprudenza identificano i “servizi” nel concetto
di “beni immateriali”, sicché la parola “beni” può essere certamente usata
anche per indicare detti servizi. D’altronde, un forte aiuto ci viene dalla
stessa, citata, sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, la quale ritiene
in “proprietà pubblica demaniale” i beni di cui all’art. 9 Cost. e cioè “il
paesaggio e il patrimonio artistico e storico della Nazione” (che hanno insieme
“carattere costitutivo e identificativo” dello Stato comunità), nonché i citati
beni e servizi indicati dall’art. 43 Cost., e cioè ”i servizi pubblici
essenziali, le fonti di energia (gas, luce, acqua), le situazioni di monopolio
e le industrie strategiche”, in pratica gli “elementi costitutivi e
identificativi” dello Stato comunità.
Dunque, si può dire che un primo risultato è stato messo a segno; i
“servizi pubblici essenziali” certamente fanno parte del nuovo “demanio
costituzionale”, e come tali, sono inalienabili, inusucapibili e
inespropriabili, e non possono essere collocati sul mercato generale attraverso
una gara pubblica.
- – Definizione
giuridica dei “servizi pubblici essenziali”.
A questo punto, ci sembra necessario spendere ancora qualche parola per
precisare in cosa realmente consistono i “servizi pubblici essenziali”, di
stabilire cioè la loro natura e le loro caratteristiche.
Al riguardo occorre innanzitutto sottolineare che, nell’attuale contesto
costituzionale, il ”servizio pubblico”, (il quale consiste in una “attività di
ordine tecnico e materiale”, “che si distingue” “dalla funzione”, che è
esplicazione di potestà pubbliche, come ricordava il Sandulli nel Manuale di
diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1969, p.152), ha assunto nei
tempi attuali un “valore economico”, tanto è vero che esistono molte
multinazionali che vendono e acquistano (come si è visto per la nota vicenda
delle autostrade, gestite dalla famiglia Benetton), proprio “i servizi pubblici
essenziali” (al cui riguardo, rinvio al mio ultimo volume “La rivoluzione
costituzionale. Alla riconquista della proprietà pubblica”, Ed. Diarkos, 2021,
p. 91). E si deve ancora precisare che, nella pratica commerciale, si è
arrivati a parlare, come oggetto delle contrattazioni, della cosiddetta
“piattaforma gestionale”, consistente proprio nella “gestione” di un “servizio”
(e dei relativi “profitti”), considerando tale “piattaforma” un “bene
immateriale”. Ciò è avvenuto, ad esempio, per il porto di Trieste, la cui
“piattaforma gestionale” è stata acquistata, a prezzi stracciati, dalla città
di Amburgo, facendo sì che il porto di Trieste diventasse un porto tedesco.
Insomma, il “servizio pubblico essenziale”, è da considerare un “bene
immateriale a sé stante”, per il quale è logicamente impossibile scindere l’appartenenza
dalla gestione, ed è proprio questo tipo di bene che fa parte, come tale, della
“proprietà pubblica demaniale” del Popolo. D’altro canto è da ricordare che si
tratta di beni che, proprio per essere in proprietà pubblica del Popolo, non
possono assolutamente transitare in mano di singoli soggetti, persino
stranieri. Mentre è da tener in debito conto che i “servizi pubblici
essenziali” normalmente costituiscono una fonte di lavoro per migliaia di
cittadini, i quali, se privati della loro utilizzazione, perderebbero
l’unica fonte di guadagno per assicurare a sé e alla propria famiglia una
“esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.).
- – L’affidamento
a soggetti idonei dei servizi pubblici essenziali.
Ciò detto, il problema che resta ancora da risolvere è quello di stabilire
le “modalità” per assicurare lo “svolgimento” dei servizi pubblici essenziali,
affidandone l’esercizio a idonei soggetti.
Posta l’impossibilità, per i motivi suddetti, di ricorrere alle
“concessioni”, appare evidente, che, trattandosi di servizi pubblici
essenziali, in “proprietà pubblica demaniale”, la loro “gestione, tutela e
profitto” devono restare “nell’ambito interno” dello Stato comunità,
considerato nelle sue articolazioni territoriali. Pertanto, se questi servizi sono
usciti dal demanio pubblico, devono immediatamente essere riacquistati e
“nazionalizzati” e, se sono invece nella disponibilità dello Stato
comunità, la Pubblica Amministrazione è tenuta a fare in modo che il loro
esercizio non sia “privatizzato”, come avviene con lo strumento della
“concessione”, ma resti in mano ai cittadini, considerati “parti” della
Comunità, statale, Regionale o locale.
Vengono in evidenza, a questo punto, quei principi e quelle norme
costituzionali, che pongono in primo piano la legittimazione dei cittadini ad
agire nell’interesse della Comunità alla quale appartengono. Si tratta:
dell’art. 2 Cost., che considera il cittadino, non solo come “singolo”, ma
anche come ”parte” della “Comunità” ove si svolge la sua personalità; dell’art.
3 Cost., comma 2, che assicura la “l’effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”,
dell’art. 43 Cost., sancisce che “le imprese o categorie di imprese, che si
riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni
di monopolio” debbano essere in mano pubblica o di “comunità di lavoratori o di
utenti”; e, infine, dell’art. 118, comma 4, Cost., secondo il quale “cittadini
singoli o associati” possono svolgere attività di interesse generale, secondo
il principio di sussidiarietà.
In questo quadro, è evidente che sono possibili due scelte: o la Pubblica
Amministrazione assume in proprio l’esercizio del servizio, oppure tale
servizio medesimo deve essere affidato a cittadini, singoli o associati, che
aspirano a tale attività. E a tal proposito, occorre dar luogo a una efficace
“selezione”, che non può essere raggiunta se non facendo ricorso a una sorta di
“pubblico concorso”.
- – L’affidamento
del “servizio dei Taxi”.
A questo punto, ai fini di una trattazione che voglia andare alla radice
dei problemi, è utile, a nostro avviso, concentrarsi distintamente sull’esame
critico sulla disciplina legislativa concernente “l’esercizio” del servizio dei
taxi e di quello di spiaggia.
Per quanto riguarda i Taxi, è da sottolineare che l’esclusione di detto
servizio dal’applicazione della Direttiva Bolkestein, è stata posta in dubbio,
come un fulmine a ciel sereno, dal citato disegno di legge sulla “concorrenza”
approvato dal Consiglio dei Ministri il 4 novembre 2021. Tale disegno di legge,
infatti, delega il Governo ad adottare un “decreto legislativo” per “la
revisione della disciplina in materia di trasporto pubblico non di linea”,
richiamando in particolare, come si è accennato, la necessità della “promozione
della concorrenza” e precisando altresì l’obbligo di far riferimento a questa
necessità ”anche in sede di “conferimento delle licenze”, al fine di “stimolare
standard qualitativi più elevati”.
Diviene necessario a questo punto esaminare con attenzione la
disciplina del “servizio taxi”, unitamente a quello di “noleggio con
conducente”. Tale disciplina è contenuta nella Legge quadro, per il trasporto
delle persone mediante autoservizi pubblici non di linea, del 15 gennaio 1992,
n.21. Tale legge prevede: che le Regioni stabiliscano “i criteri cui devono
attenersi i Comuni nel redigere i regolamenti sull’esercizio dei servizi
pubblici non di linea, delegando agli enti locali l’esercizio delle funzioni
amministrative” (art. 4); che i Comuni, nel redigere detti regolamenti,
stabiliscano: il numero e il tipo dei veicoli e dei natanti da adibire al
servizio, le modalità del suo svolgimento, i criteri per la determinazione
delle tariffe, i requisiti e le condizioni per il rilascio della “licenza”
per l’esercizio del servizio taxi e della “autorizzazione” per l’esercizio del
servizio di noleggio (art. 5); che presso le Camere di commercio, industria e
artigianato sia istituito il ruolo dei conducenti di veicoli o natanti adibiti
ad autoservizi pubblici non di linea, precisando che tale iscrizione avviene
“previo esame” da parte di apposita Commissione regionale che accerti i
requisiti di idoneità all’esercizio del servizio con particolare riferimento
alla conoscenza geografica e toponomastica (art. 6); che la “licenza” per il
servizio del servizio di taxi e “l’autorizzazione” per l’esercizio del servizio
di noleggio con conducente siano rilasciate dalle amministrazioni
comunali attraverso “bando di pubblico concorso”, ai singoli che abbiano
la proprietà o la disponibilità in leasing del veicolo o natante (art. 8); che
la licenza per l’esercizio del servizio di taxi e l’autorizzazione per
l’esercizio del servizio di noleggio con conducente possono essere trasferite,
su richiesta del titolare, a persona dallo stesso designata, purché iscritta al
ruolo di cui all’art. 6 e in possesso dei requisiti prescritti (art. 9).
Come agevolmente si nota, la descritta disciplina, giustamente, fa
riferimento a “cittadini, singoli o associati”, e non a “imprenditori” che
diventino proprietari privati del servizio, qualora lo stesso sia messo a bando
di gara, garantendo in tal modo che la ricchezza prodotta resti nell’ambito
della Comunità locale e non cada nelle mani di speculatori. L’unica correzione
da apportare a tale disciplina è, secondo noi, sempre la stessa: gli
”autoservizi pubblici non di linea”, in base alla Costituzione vigente, devono
essere considerati in “proprietà pubblica” demaniale, non dell’Ente Comune, ma
di tutti i cittadini, che, nel loro insieme, costituiscono la “Comunità
locale”. Ed è da notare, in particolare, che si tratta di una “ricchezza”, che
non può essere messa a gara con il pretesto di una maggiore “concorrenza”. La
concorrenza deve avere dei limiti e questi limiti consistono nella “riserva”
alla Comunità di certi beni o servizi necessari per “l’esistenza” della
Comunità stessa. Si potrà pensare, come si è sopra accennato, a una maggiore
“selezione” mediante “concorso pubblico” dei cittadini che vogliono diventare
esercenti di questo autoservizio pubblico, ma deve ritenersi illecito e
incostituzionale ricorrere a una sua messa a gara sul mercato generale.
Dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che, qualora il legislatore
delegato non tenesse in debito conto le considerazioni sopra esposte, o
addirittura arrivasse alla illecita conclusione di porre a gara sul mercato
generale il servizio dei Taxi, i tassisti, insieme con altri cittadini, singoli
o associati, allorché sia pubblicato il bando di gara, dovrebbero impugnarlo,
chiedendo al giudice adito la sospensione di esso e la rimessione degli atti
alla Corte costituzionale per l’annullamento del decreto legislativo in
questione.
- - L’affidamento
del servizio di spiaggia.
Per quanto riguarda il servizio di spiaggia, è da tener presente che lo
stesso legislatore si è reso conto della inadeguatezza del concetto di “demanio
civilistico” sancito sotto la vigenza dello Statuto albertino, e ha introdotto
alcune norme di legge dirette a escludere che “le concessioni balneari”
comprendano anche il “bagnasciuga”. Sancendo così che esse devono riferirsi
soltanto al “pezzo di spiaggia” non bagnato dall’acqua del mare (Decreto legge
n. 400 del 5 ottobre 1993, convertito nella legge 4 dicembre 1993, n. 494,
modificato dall’art. 1, comma 251, della legge 27 dicembre 2006, n.296,
finanziaria 2007). Ed è da sottolineare che il Legislatore non si è fermato
qui, ma ha previsto anche la costituzione di “spiagge libere”, delle quali si
occupa il successivo comma 254 delle citata legge finanziaria, stabilendo che
siano le Regioni a dover “individuare un corretto equilibrio tra le aree
concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili”, nonché a
“individuare le modalità e la collocazione dei varchi necessari per consentire
il libero e gratuito accesso alla battigia antistante l’area ricompresa nella
concessione, anche al fine di balneazione”. Si è trattato, nel primo caso della
pratica introduzione nel demanio previsto dal codice civile di un altro bene,
la “battigia” (che invero rientrerebbe logicamente nel concetto di “spiaggia”)
e, nel secondo caso di un opportuno intervento per evitare che le concessioni
balneari siano date tutte in concessione.
Per quanto riguarda “l’esercizio” del servizio in parola, la soluzione più
ortodossa, da adottare alla scadenza delle attuali concessioni, dovrebbe essere
quella dell’assunzione diretta del servizio in parola da parte della Pubblica
Amministrazione. Tuttavia, a nostro sommesso avviso, si potrebbe
utilizzare lo stesso sistema previsto per il servizio dei taxi, e cioè un
“concorso pubblico” tra i cittadini che facciano “parte” della Comunità
statale. Anche qui si deve affermare con forza che la “concorrenza” non può
essere senza limiti e il limite, in questo caso, è quello dalla “demanialità”
del servizio di cui si tratta.
Non è chi non veda che, in tal modo, risulterebbero tutelati il “principio
dell’eguaglianza economica” tra i cittadini italiani, di cui al citato art. 3
Cost., assicurando altresì la permanenza della proprietà pubblica demaniale di
detti beni e servizi nelle mani del Popolo. Esattamente come prescrive la
nostra Costituzione repubblicana e democratica.
Sennonché tristi presagi potrebbero trarsi dal fatto che il citato disegno
di legge parla di una “mappatura” di tutte le concessioni, ponendo peraltro in
evidenza la presunta necessità di “promuovere la concorrenza”. Come detto per i
Taxi, anche in questo caso, se il legislatore delegato dovesse statuire di
mettere al bando di gara le attuali “concessioni balneari”, non ci sarebbe
altra via che quella di impugnare detto bando, chiedendo al giudice adito la
sospensione della sua efficacia e la rimessione degli atti alla Corte
costituzionale, per l’annullamento del decreto legislativo che abbia imposto la
necessità della gara medesima.
- – Le
norme e i principi costituzionali che sarebbero violati con la
“privatizzazione”, mediante “concessioni”, dei servizi pubblici
essenziali.
Di seguito enumero le più eclatanti violazioni di principi e norme
costituzionali prodotte dall’eventuale messa al bando di gare del servizio di
taxi o di spiaggia, da citare negli eventuali ricorsi ai quali si è fatto
cenno.
Art. 1, che sancisce che “L’Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro”. Dal che chiaramente si deduce che è assolutamente
impossibile impoverire le fonti di produzione di ricchezza nazionale, poiché,
così facendo, si eliminano posti di lavoro, come purtroppo da tempo sta
avvenendo a causa del sistema economico predatorio, immorale, incivile e
soprattutto incostituzionale del neoliberismo.
Art. 2 Cost. , secondo il quale ”La Repubblica riconosce e garantisce i
diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Con la messa a gara
dei servizi pubblici sopra indicati si lederebbero diritti inviolabili
dell’uomo, poiché svendendo parte delle fonti di ricchezza nazionale si
precluderebbe la via al soddisfacimento di tutti i “diritti sociali”, che presuppongono
una spesa da parte dell’Amministrazione.
Art. 3 Cost., comma 2, secondo il quale “E’ compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto
la libertà e l’eguaglianza tra i cittadini, impediscono il pieno svolgimento
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. La svendita dei
predetti servizi pubblici, che sono produttivi di profitto per la Comunità e di
sostentamento delle famiglie, dà un colpo mortale alla stessa esistenza dello
Stato comunità.
Art. 4 Cost., secondo il quale”La Repubblica riconosce a tutti i cittadini
il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo
diritto”. E’ fin troppo chiaro che la messa a gara dei servizi in questione,
anziché promuovere, distrugge le condizioni che rendono effettivo il diritto al
lavoro.
Art. 29 Cost., secondo il quale “La Repubblica riconosce i diritti della
famiglia”. E’ fin troppo evidente che, se si toglie a un padre di famiglia il
lavoro di esercente il servizio di spiaggia o di taxi, si finisce per
distruggere anche i diritti della sua famiglia, che viene gettata sul lastrico,
secondo i voleri di chi vince la gara.
Art. 32 Cost., secondo il quale “La Repubblica tutela la salute come
diritto fondamentale dell’individuo e interesse della Collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti”. E’ chiaro che se si svendono le fonti
di produzione di ricchezza, come i menzionati servizi, si diminuiscono le
entrate dello Stato e diventa sempre più problematico assicurare a tutti
l’assistenza della sanità pubblica.
Art. 34 Cost., secondo il quale “La scuola è aperta a tutti … la Repubblica
rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e
altre provvidenze”. E’ evidente che anche in questo caso valgono le
considerazioni appena espresse.
Art. 38 Cost., secondo il quale “Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza
sociale”. Anche qui valgono le considerazioni sopra espresse.
Art. 41 Cost., secondo il quale “L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Questa previsione
costituzionale, che esprime un “principio imperativo” inviolabile, è calpestata
in pieno dalla messa a gara di detti servizi pubblici, poiché essa appare
chiaramente in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la
dignità umana. Pertanto è agevole dedurre che i danneggiati, e cioè gli
esercenti detti servizi e i cittadini , singoli o associati, possono ricorrere
al giudice per far dichiarare la nullità del bando di gara, ai sensi dell’art.
1418 del codice civile.
Art. 42 Cost., secondo il quale “La proprietà è pubblica e privata … la
proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge allo scopo di
assicurare la funzione sociale”. E’ infatti evidente che la messa a gara dei
servizi pubblici cancella la “funzione sociale” del servizio stesso, facendolo
diventare preda della speculazione economica e finanziaria.
Art. 43., secondo il quale “A fini di utilità generale la legge può
riservare originariamente .. allo Stato, a Enti pubblici o a Comunità di
lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si
riferiscano a servizi pubblici essenziali …”. Si tratta della norma che è
violata in modo eclatante dalla messa in gara dei servizi pubblici in
questione, servizi che, secondo la chiara disposizione in parola, devono essere
in mano pubblica o di Comunità di lavoratori o di utenti. Una norma più diretta
e precisa di questa non poteva esserci.
Come si nota, la messa a gara dei servizi pubblici essenziali viola in
pratica quasi tutta la Costituzione.
Terminiamo qui la nostra elencazione, la quale, lo si creda, potrebbe
continuare a lungo. Si pensi all’obbligo di chi è investito da pubbliche
funzioni di agire con discipline e onore nell’interesse pubblico, al giuramento
dei pubblici dipendenti e così via
dicendo.
- – Le
disposizioni della Direttiva Bolkestein non prevalgono sui principi
fondamentali e sui diritti fondamentali sanciti in Costituzione.
Ed è da rilevare, infine, che nessun argomento può trarsi dal fatto che il
“diritto derivato europeo”, e cioè la “Direttiva Bolkestein”, prevede la messa
in gara di tale servizio, poiché il “diritto europeo”, secondo la consolidata
giurisprudenza costituzionale, detta dei “contro limiti”,non può prevalere sui
principi e sui diritti fondamentali sanciti in Costituzione. Se così non fosse,
dovremmo ritenere che, firmando i Trattati europei, l’Italia ha assentito anche
alla svendita delle sue fonti di produzione di ricchezza, e quindi alla sua
auto distruzione. Il che è anche logicamente inammissibile.
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