Ondate
migratorie, campi profughi che diventano ingestibili, burocrazia lenta e
pregiudizi razziali. Tutto quello che sta avvenendo oggi ai confini con
l’Europa ha grandi similitudini con quanto è già avvenuto ai tempi dei Romani,
quando le grandi migrazioni dei popoli barbari arrivarono ai confini
dell’Impero e Roma si mostrò cieca e inefficiente nel gestirle, dando il via ad
una inutile spirale di violenza.
376 d.C. Rive del Danubio in
Tracia, presso Durostorum (Silistra, odierna Bulgaria)
Sono una
marea di gente, un’onda di piena che rivaleggia e fa scomparire quella del
Danubio. Si sono accampati alla bell’e meglio sulla sponda del grande fiume e
aspettano che si tenga fede a ciò che i romani hanno promesso loro. Sono i
Goti, un intero popolo in fuga, che chiedono asilo dentro ai confini
dell’Impero.
Alle loro spalle
si sono lasciati tutto, e ciò che li ha spinti sono il freddo e la paura. Il
freddo causato da quello che oggi chiameremmo un cambiamento climatico, che ha
reso più piovose e inospitali le vaste pianure dove per secoli hanno abitato. E
la paura di un nuovo popolo che, spinto anche lui dai cambiamenti climatici, è
piovuto loro addosso, causando stragi e devastazioni: gli Unni.
Così i Goti,
una confederazione di tribù di origine scandinava che però ha inglobato anche
genti dell’Asia centrale, e che i Romani conoscono ormai da almeno un secolo,
hanno deciso di giocarsi il tutto per tutto e chiedere ai romani di ospitarli.
Hanno da offrire molto: braccia per coltivare terre e per andare in guerra,
perché i Goti sono cavalieri spericolati e combattenti coraggiosi. I romani lo
sanno bene perché Decio, uno dei loro imperatori, contro di loro ha perso la
vita in battaglia, e con grande difficoltà Claudio il Gotico e Aureliano li
hanno sconfitti e contenuti. A Costantinopoli già sono abituati a inserire Goti
nelle truppe, ma quello che ora si offre all’imperatore Valente è una
opportunità mai accaduta prima: migliaia di uomini pronti a combattere per lui,
e di famiglie disposte a ripopolare parti ora vuote dei territori imperiali,
risolvendo nello stesso momento i problemi di diversi settori in crisi:
agricoltura, economia ed esercito.
Roma e i barbari: una occasione
da non perdere?
A Valente
sembra l’occasione della vita. Non gli pare vero di poter risolvere i suoi
problemi pratici e anche riaffermare il prestigio di Roma, che così confermerà
la sua fama di grande impero aperto e capace di accogliere e integrare da
sempre genti di ogni origine al suo interno.
Così allerta
i suoi ufficiali e funzionari perché si organizzino per trasbordare sulla riva
romana la moltitudine che si è accalcata e chiede asilo. Ma come sempre avviene
nelle grandi strutture statali di ogni tempo, in mezzo ci si mettono due
varianti umanissime: l’inefficienza della burocrazia e l’avidità umana.
Il Danubio è
assai lontano dal Palazzo di Costantinopoli dove vivono Valente e i suoi
ministri. Da lì sembra facile dare un ordine e organizzare la cosa. Sul campo
invece assai meno. I Goti, tanto per cominciare, continuano ad arrivare, a
migliaia ogni giorno: si è sparsa la voce e nessuno vuole perdere l’occasione
di potersi stabilire entro i confini dell’Impero.
L’inefficienza del sistema e la
corruzione
Le
popolazioni all’interno dei confini mugugnano, perché per i Romani i barbari
sono barbari, e nessuno li vuole vicini. I funzionari di confine sono travolti.
Barche, zattere, persino tronchi sono usati per trasportare da una riva
all’altra i richiedenti asilo, ma non sono sufficienti mai. Alcune zattere si
ribaltano perche sovraccariche o trascinate dalla corrente del fiume, altre
perché gruppi di Goti, senza aspettare il benestare delle autorità romane,
cercano di passare di nascosto, affidandosi a “scafisti” improvvisati.
Di qua dal
Danubio i funzionari onesti danno di matto: tenere il conto di quanti arrivano
è impossibile, e altrettanto impossibile è controllare tutti e organizzare
l’insediamento. Così decidono di spostare i Goti, e organizzano lunghe colonne
per mandarli in quelle che saranno, dicono, le loro sedi definitive. Sono
convogli di gente stanca, malata, che si muovono nel mezzo dell’inverno senza
ottenere nemmeno una risposta dai soldati che li accompagnano, che più che una
guida sembrano dei carcerieri. I legionari di scorta sono arrabbiati e
impauriti perché sanno che se quella massa decidesse di ribellarsi non ce la
farebbero a tenerla sotto controllo, così sono sospettosi, mal disposti, alle
volte inutilmente brutali. La paura è una pessima consigliera anche per chi,
almeno in apparenza, è in vantaggio.
I Goti
vengono concentrati in campi profughi di fortuna vicino a Marcianopoli, la
capitale della provincia, in mezzo al fango, al freddo, Le razioni di cibo non
bastano per tutti, donne e bambini sono senza latte, mancano coperte e tende.
I funzionari
disonesti sono i primi a cogliere le opportunità offerte dal caos della
situazione. Vanno nei campi, approfittano della disperazione delle famiglie.
Dicono agli uomini più valenti che sono disposti a oliare gli ingranaggi purché
accettino di entrare nelle loro milizie private, vanno dalle famiglie e
propongono loro di vendere per due soldi i figli e le figlie come schiavi:
perderanno la libertà, ma almeno saranno dentro una casa e dentro l’Impero.
Sommosse e rivolte:
l’esasperazione esplode
Nei campi
però cominciano anche le prime sommosse e rivolte: manca tutto, e i capitribù
si sentono presi in giro. Lupicino, il governatore della provincia, non sapendo
come gestire la situazione tenta un colpo di mano: invita a cena per discutere
della situazione Fritigerno, che è il portavoce delle tribù e con i Romani ha
una certa esperienza, perché ha combattuto ai loro comandi. Ma il banchetto è
una trappola: mentre sono a tavola, il governatore tenta di ucciderlo a
tradimento. Fritigerno riesce a scappare, torna dai suoi e denuncia il fatto
che i Romani hanno tradito ogni patto: è guerra.
Si formano
bande e piccole armate, che si ribellano ai Romani, e si danno alla macchia.
Attaccano città e saccheggiano, tanto ormai sono già dentro all’Impero. Si
uniscono a loro anche altri disperati, magari pure di origine romana, strozzati
dalle tasse e vittime dell’impoverimento.
Adrianopoli, una battaglia da
non combattere
È una
situazione difficile da gestire, perché il nemico non è fuori, ormai è dentro.
Valente manda loro contro quelli che sembrano i suoi migliori generali, ma è
difficile combattere contro un nemico che ha poco da perdere, non ha città da
difendere e si muove in continuazione. La Tracia ormai è a ferro e fuoco, la
popolazione disperata. L’imperatore decide di intervenire personalmente, e si
schiera con il suo esercito nella piana di Adrianopoli.
È l’inizio
di agosto. I suoi generali lo invitano ad aspettare: il suo collega Graziano,
l’imperatore d’Occidente, ha promesso rinforzi, ma sono ancora per strada.
Fritigerio per altro non è nemmeno lui tanto sicuro delle sue forze: i suoi si
sono trincerati all’interno di un accampamento improvvisato, protetto da un
cerchio di carri: troppo poco per reggere l’urto di un esercito romano. Così
invia ambasciatori per intavolare trattative.
Valente però
è testardo, gli scoccia dover dividere con qualcuno la futura gloria e pensa
che i barbari siano in difficoltà, quindi la vittoria sia sicura. Schiera
l’esercito, forse più per intimorirli che altro. Ma poi si sa come vanno queste
cose: un reparto di arcieri a cavallo perde il controllo e dà il via ad una
scaramuccia. Per salvarli la cavalleria pesante dei catafratti (i soldati
coperti da armatura a scaglie) si lanciano in avanti, ma restano isolati e sono
massacrati. È l’inizio della disfatta. L’esercito romano funziona come una
macchina perfetta finché non viene ridotto a singoli gruppi. I barbari ci
riescono: li dividono, li braccano. Valente, che è sul campo, viene ferito da
una freccia, forse ripara in una fattoria, ma i Goti lo inseguono e danno fuoco
all’edificio. I suoi, a fine battaglia, non saranno nemmeno in grado di trovare
il suo cadavere.
Gestire gli immigrati: la svolta
verso l’integrazione
È un
macello, nel senso letterale del termine. Un imperatore morto, uno stato maggiore
quasi azzerato, e il prestigio dell’esercito e di Roma a pezzi. Il collega
imperatore Graziano viene informato del disastro quando si trova a trecento km
da Adrianopoli e non può fare nulla. Mette a capo delle successive operazioni
Teodosio, suo generale e futuro imperatore. Che cambia strategia: non più
scontri militari, ma patti diplomatici. I Goti vengono assorbiti nell’esercito
e nell’Impero: l’obiettivo non è più sconfiggerli, ma conviverci e
romanizzarli.
Sul lungo
periodo, in fondo, ci riescono: i Goti a Costantinopoli diventano lo zoccolo
duro dell’esercito. Imparano greco e latino, fanno carriera a corte. Un paio di
generazioni dopo Areobindo e Vitaliano per poco non diventano imperatori a
Costantinopoli, e in Italia Teodorico è legato imperiale che argina per qualche
tempo la decadenza in Occidente creando il suo regno Italo-goto.
In fondo,
come tutti gli immigrati, i Goti non volevano abbattere l’Impero, solo entrarci
dentro e difenderlo, perché sapevano bene che cosa c’era fuori e lo amavano per
questo. Crearono problemi perché la grande macchina burocratica
dell’impero si inceppò, non li accolse a dovere, li lasciò in condizioni
disperate, e mise le basi per una rivolta violenta.
Una lezione
su cui si dovrebbe meditare oggi. Soprattutto per chi deve gestire la
situazione fra Polonia e
Bielorussia.
Perché la
storia magari non si ripete e non insegna, ma qualche spunto di meditazione
dovrebbe fornirlo, ecco.
Bibliografia:
Ammiano
Marcellino, le Storie,
libri XXXII e ss
Alessandro
Barbero, 9 agosto
378, il giorno dei barbari. Laterza, 2007
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