domenica 19 dicembre 2021

Migrazioni: come i Romani furono travolti perché non seppero gestirle - Galatea Vaglio


Ondate migratorie, campi profughi che diventano ingestibili, burocrazia lenta e pregiudizi razziali. Tutto quello che sta avvenendo oggi ai confini con l’Europa ha grandi similitudini con quanto è già avvenuto ai tempi dei Romani, quando le grandi migrazioni dei popoli barbari arrivarono ai confini dell’Impero e Roma si mostrò cieca e inefficiente nel gestirle, dando il via ad una inutile spirale di violenza.

 

376 d.C. Rive del Danubio in Tracia, presso Durostorum (Silistra, odierna Bulgaria)

Sono una marea di gente, un’onda di piena che rivaleggia e fa scomparire quella del Danubio. Si sono accampati alla bell’e meglio sulla sponda del grande fiume e aspettano che si tenga fede a ciò che i romani hanno promesso loro. Sono i Goti, un intero popolo in fuga, che chiedono asilo dentro ai confini dell’Impero.

Alle loro spalle si sono lasciati tutto, e ciò che li ha spinti sono il freddo e la paura. Il freddo causato da quello che oggi chiameremmo un cambiamento climatico, che ha reso più piovose e inospitali le vaste pianure dove per secoli hanno abitato. E la paura di un nuovo popolo che, spinto anche lui dai cambiamenti climatici, è piovuto loro addosso, causando stragi e devastazioni: gli Unni.

Così i Goti, una confederazione di tribù di origine scandinava che però ha inglobato anche genti dell’Asia centrale, e che i Romani conoscono ormai da almeno un secolo, hanno deciso di giocarsi il tutto per tutto e chiedere ai romani di ospitarli. Hanno da offrire molto: braccia per coltivare terre e per andare in guerra, perché i Goti sono cavalieri spericolati e combattenti coraggiosi. I romani lo sanno bene perché Decio, uno dei loro imperatori, contro di loro ha perso la vita in battaglia, e con grande difficoltà Claudio il Gotico e Aureliano li hanno sconfitti e contenuti. A Costantinopoli già sono abituati a inserire Goti nelle truppe, ma quello che ora si offre all’imperatore Valente è una opportunità mai accaduta prima: migliaia di uomini pronti a combattere per lui, e di famiglie disposte a ripopolare parti ora vuote dei territori imperiali, risolvendo nello stesso momento i problemi di diversi settori in crisi: agricoltura, economia ed esercito.

 

Roma e i barbari: una occasione da non perdere?

A Valente sembra l’occasione della vita. Non gli pare vero di poter risolvere i suoi problemi pratici e anche riaffermare il prestigio di Roma, che così confermerà la sua fama di grande impero aperto e capace di accogliere e integrare da sempre genti di ogni origine al suo interno.

Così allerta i suoi ufficiali e funzionari perché si organizzino per trasbordare sulla riva romana la moltitudine che si è accalcata e chiede asilo. Ma come sempre avviene nelle grandi strutture statali di ogni tempo, in mezzo ci si mettono due varianti umanissime: l’inefficienza della burocrazia e l’avidità umana.

Il Danubio è assai lontano dal Palazzo di Costantinopoli dove vivono Valente e i suoi ministri. Da lì sembra facile dare un ordine e organizzare la cosa. Sul campo invece assai meno. I Goti, tanto per cominciare, continuano ad arrivare, a migliaia ogni giorno: si è sparsa la voce e nessuno vuole perdere l’occasione di potersi stabilire entro i confini dell’Impero.

 

L’inefficienza del sistema e la corruzione

Le popolazioni all’interno dei confini mugugnano, perché per i Romani i barbari sono barbari, e nessuno li vuole vicini. I funzionari di confine sono travolti. Barche, zattere, persino tronchi sono usati per trasportare da una riva all’altra i richiedenti asilo, ma non sono sufficienti mai. Alcune zattere si ribaltano perche sovraccariche o trascinate dalla corrente del fiume, altre perché gruppi di Goti, senza aspettare il benestare delle autorità romane, cercano di passare di nascosto, affidandosi a “scafisti” improvvisati.

Di qua dal Danubio i funzionari onesti danno di matto: tenere il conto di quanti arrivano è impossibile, e altrettanto impossibile è controllare tutti e organizzare l’insediamento. Così decidono di spostare i Goti, e organizzano lunghe colonne per mandarli in quelle che saranno, dicono, le loro sedi definitive. Sono convogli di gente stanca, malata, che si muovono nel mezzo dell’inverno senza ottenere nemmeno una risposta dai soldati che li accompagnano, che più che una guida sembrano dei carcerieri. I legionari di scorta sono arrabbiati e impauriti perché sanno che se quella massa decidesse di ribellarsi non ce la farebbero a tenerla sotto controllo, così sono sospettosi, mal disposti, alle volte inutilmente brutali. La paura è una pessima consigliera anche per chi, almeno in apparenza, è in vantaggio.

I Goti vengono concentrati in campi profughi di fortuna vicino a Marcianopoli, la capitale della provincia, in mezzo al fango, al freddo, Le razioni di cibo non bastano per tutti, donne e bambini sono senza latte, mancano coperte e tende.

I funzionari disonesti sono i primi a cogliere le opportunità offerte dal caos della situazione. Vanno nei campi, approfittano della disperazione delle famiglie. Dicono agli uomini più valenti che sono disposti a oliare gli ingranaggi purché accettino di entrare nelle loro milizie private, vanno dalle famiglie e propongono loro di vendere per due soldi i figli e le figlie come schiavi: perderanno la libertà, ma almeno saranno dentro una casa e dentro l’Impero.

 

Sommosse e rivolte: l’esasperazione esplode

Nei campi però cominciano anche le prime sommosse e rivolte: manca tutto, e i capitribù si sentono presi in giro. Lupicino, il governatore della provincia, non sapendo come gestire la situazione tenta un colpo di mano: invita a cena per discutere della situazione Fritigerno, che è il portavoce delle tribù e con i Romani ha una certa esperienza, perché ha combattuto ai loro comandi. Ma il banchetto è una trappola: mentre sono a tavola, il governatore tenta di ucciderlo a tradimento. Fritigerno riesce a scappare, torna dai suoi e denuncia il fatto che i Romani hanno tradito ogni patto: è guerra.

Si formano bande e piccole armate, che si ribellano ai Romani, e si danno alla macchia. Attaccano città e saccheggiano, tanto ormai sono già dentro all’Impero. Si uniscono a loro anche altri disperati, magari pure di origine romana, strozzati dalle tasse e vittime dell’impoverimento.

 

Adrianopoli, una battaglia da non combattere

È una situazione difficile da gestire, perché il nemico non è fuori, ormai è dentro. Valente manda loro contro quelli che sembrano i suoi migliori generali, ma è difficile combattere contro un nemico che ha poco da perdere, non ha città da difendere e si muove in continuazione. La Tracia ormai è a ferro e fuoco, la popolazione disperata. L’imperatore decide di intervenire personalmente, e si schiera con il suo esercito nella piana di Adrianopoli.

È l’inizio di agosto. I suoi generali lo invitano ad aspettare: il suo collega Graziano, l’imperatore d’Occidente, ha promesso rinforzi, ma sono ancora per strada. Fritigerio per altro non è nemmeno lui tanto sicuro delle sue forze: i suoi si sono trincerati all’interno di un accampamento improvvisato, protetto da un cerchio di carri: troppo poco per reggere l’urto di un esercito romano. Così invia ambasciatori per intavolare trattative.

Valente però è testardo, gli scoccia dover dividere con qualcuno la futura gloria e pensa che i barbari siano in difficoltà, quindi la vittoria sia sicura. Schiera l’esercito, forse più per intimorirli che altro. Ma poi si sa come vanno queste cose: un reparto di arcieri a cavallo perde il controllo e dà il via ad una scaramuccia. Per salvarli la cavalleria pesante dei catafratti (i soldati coperti da armatura a scaglie) si lanciano in avanti, ma restano isolati e sono massacrati. È l’inizio della disfatta. L’esercito romano funziona come una macchina perfetta finché non viene ridotto a singoli gruppi. I barbari ci riescono: li dividono, li braccano. Valente, che è sul campo, viene ferito da una freccia, forse ripara in una fattoria, ma i Goti lo inseguono e danno fuoco all’edificio. I suoi, a fine battaglia, non saranno nemmeno in grado di trovare il suo cadavere.

 

Gestire gli immigrati: la svolta verso l’integrazione

È un macello, nel senso letterale del termine. Un imperatore morto, uno stato maggiore quasi azzerato, e il prestigio dell’esercito e di Roma a pezzi. Il collega imperatore Graziano viene informato del disastro quando si trova a trecento km da Adrianopoli e non può fare nulla. Mette a capo delle successive operazioni Teodosio, suo generale e futuro imperatore. Che cambia strategia: non più scontri militari, ma patti diplomatici. I Goti vengono assorbiti nell’esercito e nell’Impero: l’obiettivo non è più sconfiggerli, ma conviverci e romanizzarli.

Sul lungo periodo, in fondo, ci riescono: i Goti a Costantinopoli diventano lo zoccolo duro dell’esercito. Imparano greco e latino, fanno carriera a corte. Un paio di generazioni dopo Areobindo e Vitaliano per poco non diventano imperatori a Costantinopoli, e in Italia Teodorico è legato imperiale che argina per qualche tempo la decadenza in Occidente creando il suo regno Italo-goto.

In fondo, come tutti gli immigrati, i Goti non volevano abbattere l’Impero, solo entrarci dentro e difenderlo, perché sapevano bene che cosa c’era fuori e lo amavano per questo. Crearono problemi perché la grande macchina burocratica dell’impero si inceppò, non li accolse a dovere, li lasciò in condizioni disperate, e mise le basi per una rivolta violenta.

Una lezione su cui si dovrebbe meditare oggi. Soprattutto per chi deve gestire la situazione fra Polonia e Bielorussia.

Perché la storia magari non si ripete e non insegna, ma qualche spunto di meditazione dovrebbe fornirlo, ecco.

 

Bibliografia:

Ammiano Marcellino, le Storie, libri XXXII e ss

Alessandro Barbero, 9 agosto 378, il giorno dei barbari. Laterza, 2007

 

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