L’Alta Corte di Londra ha ribaltato la sentenza di primo grado, emessa lo scorso gennaio, che negava l’estradizione di Julian Assange dalla Gran Bretagna agli Stati uniti. Da questa storia vergognosa si desume che chi rivela la verità e smaschera menzogne criminali è considerato un furfante, una spia, mentre le vere spie vengono ipocritamente definite o si autodefiniscono “intelligence”.
Nel frattempo, con un cinismo a dir poco surreale, si era appena concluso a
Washinghton un summit per la democrazia intitolato “i difensori dei diritti
umani e dei media indipendenti entro e attraverso le frontiere”; ma la vicenda
di Assange contraddice platealmente i contenuti del summit presieduto dal
presidente Biden e ribalta sia la verità che i principi fondanti della
democrazia, tra i quali il sacrosanto diritto di cronaca.
Il rischio adesso è quello di aprire una strada senza ritorno, una strada che
permetterebbe agli Stati uniti e ai loro subalterni alleati di imporre
unilateralmente una strumentale idea di libertà, anche a costo della libertà
stessa. Vien quindi da chiedersi se questa storia, senza naturalmente metterla
in contrapposizione, non sia comunque parimente grave e meritevole di
attenzione e indignazione delle vicende egiziane di Regeni e Zaki, di quelle
saudite del poeta palestinese Ashraf Fayad, assieme a tutte quelle dei regimi
repressivi di mezzo mondo che violano i diritti umani. Non dovrebbe la società
civile e l’intero mondo mediatico ribellarsi a questa pericolosa deriva, che
rischierebbe di diventare una pietra tombale sul diritto alla libertà di
informazione?
Nella richiesta di estradizione di Assange, come non riconoscere gli stessi metodi arroganti e truffaldini che, a loro tempo, hanno già permesso agli Usa di sottrarre illegalmente al Canada Leonard Peltier, leader dell’American Indian Movement, per sottoporlo a un processo farsa e condannarlo ingiustamente a due ergastoli, una pena che sta scontando da ormai più di quarant’anni per volere supremo degli specialisti in spionaggio della CIA?
Assange come Peltier dunque, la storia sembra ripetersi con le stesse
dinamiche che hanno permesso ai governi degli Stati uniti di violare
sistematicamente tutte le centinaia di accordi ufficiali presi coi popoli
nativi americani; che hanno permesso di esportare la loro guerrafondaia idea di
pace a suon di missili & marines e che permettono ora di sacrificare
quest’ultima penosa vicenda sull’altare dei loro interessi e profitti. A
qualunque costo.
Se non ci saranno le dovute, necessarie proteste internazionali, sarà
inevitabile che un altro prigioniero politico andrà ad unirsi a Leonard
Peltier, a Mumia Abu Jamal e a tutti coloro che stanno marcendo nelle
affollatissime patrie galere dello Zio Sam, alla faccia dei più elementari
diritti. Alla faccia della democrazia.
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