Dopo più di
venti anni, l’Italia assume, per il semestre di turno, la Presidenza del
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, l’organo che ha fra i suoi
compiti anche quello di assicurare l’esecuzione delle sentenze della Corte
Europea dei Diritti Umani. Purtroppo, non può dirsi che si presenti come Stato
modello in quel ruolo: proprio in questo volgere di anni si è, infatti,
prodotta in reiterate violazioni del diritto a non essere sottoposti a tortura
e a trattamenti inumani o degradanti, proclamato dall’art. 3 della CEDU, di cui
quella Corte è garante. Questo già dice tanto dell’autorevolezza di uno Stato che
calpesta uno dei pochi diritti garantiti dalla Convenzione in modo assoluto
(cioè anche in circostanze eccezionali come la guerra o una minaccia alla vita
della nazione) in quanto espressione del «valore di civiltà della democrazia
occidentale», secondo le parole della stessa Corte di Strasburgo. Non solo,
nonostante le sentenze di condanna subite abbiano evidenziato problemi
strutturali, inducendo la Corte a dare indicazioni precise sulle urgenti
riforme da adottare, l’Italia si è distinta per la sfacciata negligenza a
conformarsi alle prescrizioni, quello che appunto si dovrebbe discutere nel
Comitato dei Ministri.
Neppure la
celebrazione, quest’anno, del ventennale del G8 ha costituito occasione per
recuperare terreno e adempiere agli obblighi disattesi con riferimento
all’esecuzione del gruppo di condanne che prende il nome dalla sentenza
capostipite Cestaro c. Italia, del 7 aprile 2015, la prima sui fatti (di
tortura) della scuola Diaz e che comprende le successive Bartesaghi Gallo ed
altri c. Italia (22 giugno 2017), oltre quelle per i fatti ( di tortura) di
Bolzaneto, Azzolina ed altri e Blair e altri c. Italia (26 ottobre 2017), tutte
sentenze che permangono sotto stretta supervisione (enhanced supervision)
al Comitato. Il rituale anniversario ha avuto spazio anche in dichiarazioni
ufficiali di autorità istituzionali e politiche, che si sono profuse in prese
di distanza dal passato (stigmatizzato come non mai, ma ritenuto irripetibile),
oltre che in una ampia cerchia di giuristi, avvocati, magistrati, la gran parte
emersa da un limbo silenzioso ultradecennale. Ma la celebrazione retorica delle
drammatiche vicende di quei giorni non ha sollecitato alcuna risoluzione utile
a chiudere il caso dell’esecuzione delle sentenze ancora di fronte al Comitato
dei Ministri. Il punto che si vuole sollevare è cruciale e prende spunto dalla
recentissima inchiesta condotta dai giornalisti di Altreconomia che,
attivando il diritto all’accesso ai dati della pubblica amministrazione, hanno
chiesto informazioni sui procedimenti disciplinari nei confronti dei poliziotti
condannati o coinvolti nei fatti del G8 genovese (G8 di Genova: inchiesta
sulle sanzioni mancate ai poliziotti, in Altreconomia, n.
242, novembre 2021). Con tecnica elusiva, il Dipartimento di Pubblica sicurezza
ha rimbalzato alcune volte le richieste, per poi consegnare i pochi dati
ritenuti ostensibili, senza alcun riferimento nominativo o utile a portare
all’identificazione del personale coinvolto (asseritamente a tutela della privacy dei
condannati i cui nomi sono noti e circolano in rete da un decennio). I dati
così cavati a forza offrono un quadro desolante e danno conto, non solo
dell’insultante originario silenzio opposto alla Corte di Strasburgo che li
richiedeva per le sue decisioni, ma anche della immutata linea di condotta tesa
a minimizzare e a tollerare fatti pur ritenuti di eccezionale gravità in sede
penale. Si apprende infatti ufficialmente che sono state sanzionate in
tutto solo 30 unità di personale: 13 con richiamo scritto, 2 con pena pecuniaria,
5 con sospensione disciplinare, compresa tra i 20 giorni e i 6 mesi. Vi sono
poi 18 sospensioni dal servizio (quelle disposte per le pene accessorie
irrogate dalla magistratura), tutte con successivo reintegro.
I
provvedimenti sono stati adottati negli anni 2010, 2012, 2013, 2014, 2015 e
2016. L’interpretazione non è agevole, se non ci si limita a registrare la
pochezza del dato tenendo conto che dietro ci sono anche i coinvolti nei due
grandi processi per la scuola Diaz e Bolzaneto. A fronte del puro riferimento
quantitativo ai casi di sanzione pecuniaria, si può riconoscere l’ammenda di 49
euro irrogata all’agente asseritamente attinto da coltellate (uno dei
grotteschi falsi per arrestare i 93 occupanti della scuola Diaz a copertura
delle violenze, che è valso allo stesso agente la condanna a 3 anni e 8 mesi di
reclusione). Egualmente difficile è immaginare il metro di giudizio per la mite
sanzione irrogata al funzionario condannato in sede penale, la cui condotta la
Cassazione (Sez. I, n. 6138/2014) stigmatizza come «comportamento illegale di
copertura poliziesca proprio dei peggiori regimi antidemocratici, in violazione
di diritti fondamentali di libertà, di tutela giudiziaria, della libertà della
persona riconosciuti in tutte le democrazie occidentali, nella nostra carta
costituzionale e nella stessa Cedu». Gli organi disciplinari hanno in
ogni caso rifiutato di applicare sanzioni severe, adeguate alla gravità delle
condotte e al danno arrecato all’immagine dell’intero Corpo di Polizia (cioè
al «discredito nel mondo intero», per usare ancora le parole della Cassazione:
Sez. V, n. 38085/2012). Il tutto in mancanza di ogni trasparenza, così
consegnando un quadro persistente di chiusura al controllo della pubblica
opinione.
Che altro?
La vulgata vuole che le condanne della Corte di Strasburgo per i fatti del G8
siano basate sulla mancanza nel nostro sistema, all’epoca, del reato di
tortura. Nel Comitato dei Ministri si è così presentata l’approvazione della
legge n. 110/2017 sul reato di tortura come segno della raggiunta conformità
alla Convenzione e dell’adempimento alle sentenze di condanna. Non è così e non
solo per le falle di quella legge. La Corte fornisce «chiare indicazioni» (così
si esprimeva il Comitato dei Ministri) per l’adeguamento del sistema italiano
all’obiettivo di prevenire le violazioni convenzionali, ottenibile soltanto con
un impegno ad accertarle e a sanzionarle duramente sotto il profilo penale
(niente prescrizione, indulto, sospensioni di pena) e anche sotto quello
disciplinare e civile. Il rafforzamento dell’apparato repressivo disciplinare,
in particolare, ha un ruolo determinate. Per questo nella
giurisprudenza della Corte europea la destituzione degli agenti responsabili di
torture o comportamenti analoghi non è alternativa alla sospensione degli
stessi durante il giudizio (sent. Cestaro § 210; sent. Azzolina §
163-64). Ebbene, l’esito dei procedimenti disciplinari riportato sulle
pagine di Altreconomia, agli antipodi degli obblighi
convenzionali, certifica la copertura politica della devianza delle
forze dell’ordine pur accertata nella sua gravità, costanza e diffusione.
In sequenza, infatti, il Governo di turno ha omesso di comunicare alla Corte
l’esito dei procedimenti disciplinari e la progressione in carriera dei
condannati, costringendola a «prendere atto del silenzio» al riguardo (Cestaro
§ 227, 228; analogamente due anni dopo: Azzolina § 163, 164).
Successivamente,
in sede di esecuzione sotto il controllo del Comitato, la richiesta di
informazioni ha preso una duplice direzione, dovendo l’Italia indicare sia le
azioni intraprese nei casi concreti, sia i rimedi adottati per evitare il
futuro ripetersi di una reazione inefficace sul piano disciplinare. Ma, dalla
prima riunione del Comitato nel marzo 2017 fino a oggi, le risposte del nostro
Paese sono state evasive. I Governi si sono, infatti, limitati a descrivere
l’assetto normativo generale e a evidenziare statistiche onnicomprensive. Il
Comitato non si è fatto prendere in giro dalla affermazione che la
normativa lascia le sanzioni alla discrezionalità degli organi disciplinari e
ha rilanciato: «È importante sapere in che modo le autorità hanno assicurato o
assicureranno che tale discrezionalità sia esercitata in modo compatibile con i
requisiti della Convenzione» e ha concluso, senza mezzi termini, con
l’invito alle autorità italiane a indicare «come hanno assicurato, o intendono
assicurare, che gli agenti delle forze dell’ordine accusati di reati di
maltrattamento [siano] sospesi dall’incarico durante l’indagine o il processo e
destituiti se condannati, in conformità con la giurisprudenza consolidata della
Corte» (Comitato viceministri 3-5 dicembre 2019: https://search.coe.int/cm/pages/result_details.aspx?objectid=090000168098d01d). La risposta del Governo,
sollecitata entro il 30 giugno 2020, non è intervenuta e il termine è
inutilmente decorso.
È così
caduta nel vuoto l’esortazione ad adottare un atteggiamento di tolleranza zero
per gli abusi e si è consolidato un cortocircuito esiziale per l’avvio di una
riforma coerente con le esigenze di rinnovamento delle forze di polizia che si
generi al loro interno con l’isolamento dei devianti (che non sfuggono alla
punizione).
Il descritto
colpo di spugna sul piano disciplinare viene a saldarsi con l’omertà che ha
consentito ai numerosi torturatori di farla franca. Ricordiamo che la
Corte europea ha impietosamente stigmatizzato «l’impunito rifiuto della
Polizia» a collaborare con la magistratura per l’identificazione dei
responsabili degli atti di violenza, denunciando inerzia repressiva anche di
fronte a questo ammutinamento. Nessun vertice è mai stato chiamato a renderne
conto. Allo stesso modo, più nel profondo, le regole dell’omertà proteggono
il deviante, perché in un mondo separato e capovolto, il Corpo rifiuta l’infame che
denuncia e non il contrario. Le istituzioni e la politica non hanno avuto la
forza di compiere scelte, ma hanno assecondato la richiesta di connivenza che
assicura fedeltà servile.
Rischiare
che i poliziotti voltino le spalle in segno di protesta come è accaduto al
sindaco di New York De Blasio qualche anno fa o rischiare di voltare le spalle
alle leggi e alla Costituzione? La reazione dei Governi all’abisso affiorato al
G8 genovese è più incline alla seconda soluzione. Allo stato possiamo
amaramente concludere che la Presidenza italiana del Comitato dei Ministri non
appare una guida sicura.
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