Dopo il 1968, la forza dei sindacati, le idee di rivoluzione, il Potere, quello vero, piano piano riprende il comando, dappertutto, da qualche parte con i servizi segreti (deviati?), come in Italia, o con l’avanzata di forze politiche di destra (Thatcher e Reagan, qualche anno dopo, per esempio), mentre in altri stati, a sud degli Usa, e in Africa, direttamente, a qualsiasi costo, con colpi di stato militari, sostenuti direttamente o indirettamente dagli Usa e dalle potenze ex(?) coloniali.
In quel momento storico, nell’Argentina dei Generali, il 19
aprile del 1977 si trova Marco Bechis, a vent’anni, in una Ford Falcon degli
squadroni della morte. (“Avevo vent'anni,
non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della
vita", scriveva Paul Nizan).
Marco Bechis racconta il prima e il dopo della sua permanenza
in una prigione segreta, da cui uscirà dopo un po’ di giorni per altre prigioni
“normali” e poi tornerà in Italia, grazie all’intervento di qualche potente
argentino allertato dalla famiglia di Marco.
Il suo racconto, di uno che c’è stato, in quei luoghi di
tortura e di morte, fa stare male, pensando a tutti quelli che sono stati
ammazzati per le torture o i voli della morte.
Marco Bechis non è diventato un maestro argentino per i
bambini della pampa, è diventato un regista, con l’Argentina e l’America Latina
nel cuore (Alambrado,
Garage
Olimpo, Hijos-Figli, Birdwatchers
- La terra degli uomini rossi sono alcuni dei suoi grandissimi
film).
Un libro per conoscere o per non dimenticare quello che è
stato (e che succede, e succederà, quotidianamente, in molte prigioni del
mondo).
ps: mi è tornato in mente questo libro
…Il libro di Marco
Bechis è allo stesso tempo fragile e potente perché la sua narrazione è quella
di chi cammina da equilibrista su di una corda il cui intreccio è fatto
dall’imbarazzo dello scampato alla morte per i privilegi dettati
dall’appartenenza familiare e dal coraggio dell’uomo da sempre impegnato a
testimoniare quanto accaduto a lui (vivo) e ai suoi compagni di lotta (morti),
senza scadere mai nella retorica dell’eroe e della vittima. L’eroe e
la vittima sono due posture la cui resa economica è
garantita per chi vuole cimentarsi, protagonista più o meno consapevole di
epoche “interessanti” e segnate da accadimenti storicamente rilevanti, nella
narrazione per il grande pubblico dei lettori.
Uscire da quella
retorica nella quale chiediamo riconoscimento rappresentandoci all’esterno come
vittime e/o eroi – solo per il semplice fatto di essere stati testimoni
attivi in qualche modo di fatti storicamente rilevanti – e
affrontare, narrando ad altri, la propria esperienza umana invece per quella
che è stata veramente, senza fare sconti a sé stessi è un atto sovversivo. E
molto umano. Per questo un atto, quello di Bechis, che sovverte un tempo,
quello in cui viviamo, sempre più segnato dall’indifferenza.
…Nelle pagine Bechis racconta di sé: la
morte del fratellino, il girovagare tra i due continenti, gli studi, l’impegno
politico in Argentina e in Italia, la vita che cambia le carte in tavola per
portarti altrove da dove avevi progettato di essere, lo sradicamento da una terra
che sentiva sua, l’esordio nel mondo del cinema, il documentario sulla guerra
in Bosnia, gli affetti. E infine la testimonianza nel processo del 2010 a
Buenos Aires, dove giustizia fu fatta, seppur tardivamente dopo anni di
impunità grazie alle amnistie di stato che si erano susseguite nel tempo.
Scrivere
come terapia, un modo per darsi una risposta al lacerante dilemma di tutti i
sopravvissuti di ogni epoca “perché io?”. Per chi legge è una testimonianza che
non può essere ignorata, soprattutto nel momento che stiamo vivendo.
Senza
nulla togliere alle preoccupazioni per la salute, per l’economia, per le sorti
del nostro mondo, questo tipo di lettura è necessario e dovrebbe condurre a
riflessioni profonde. Siamo in una democrazia, seppure per tanti versi imperfetta,
abbiamo la libertà, siamo padroni delle nostre vite. In altre parti del mondo
ancora oggi non è così. Il mio pensiero va a Patrick Zaki e a tanti senza nome
nelle sue condizioni, oggi.
Nelle
parole di Marco Bechis ci sono tutte le storie di quei 30 mila desaparecidos,
mai più tornati, sepolti in fondo al mare o in una fossa comune, senza nemmeno
una tomba su cui piangerli. Tra loro tante giovani donne costrette a partorire
in condizioni disumane (e solo una donna può capire cosa devono avere provato)
per poi vedersi sottrarre i bambini, affidati a famiglie di militari. Tanti
vivono ancora inconsapevoli al lato dei carnefici dei veri genitori, nonostante
le battaglie delle abuelas (le nonne di Plaza de Mayo) per rivendicare il loro
diritto a ricongiungersi con i nipoti nati in cattività e rubati alla nascita.
Un
libro che conserverò tra quelli che mi hanno più segnato in tema di diritti
umani: “La noche de los lapices”, “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, “Il racconto di
Peuw bambina cambogiana“, “Arcipelago Gulag” di Aleksandr Solženicyn e
naturalmente Primo Levi.
Per non
dimenticare, mai.
Buenos Aires, 19 aprile 1977. All'uscita della scuola dove
studia, Marco Bechis viene sequestrato da un gruppo di militari in borghese. Ha
vent'anni. Il racconto della sua tragica avventura esistenziale inizia qui, ma
ha radici lontane. Con scrittura veloce e inesorabile, Bechis ci trascina nei
giorni e nelle notti della sua infanzia e della sua adolescenza vissute tra
l'Italia e l'Argentina della dittatura militare, fin quando lui, ragazzo di
buona famiglia cosmopolita, si avvicina al movimento di opposizione dei
Montoneros e finisce in un carcere clandestino. I genitori, dopo vari tentativi
disperati, ottengono la sua scarcerazione e così ritorna in Italia da uomo
libero. Ma per molti altri compagni la sorte non è la stessa. Durante tutta la
sua vita da sopravvissuto, Bechis si sente un usurpatore, un traditore. Finché,
scrivendo questo libro, capisce di essere una vittima. Diventato regista, aveva
provato a chiuderei conti in un film come "Garage Olimpo". Ma solo
qui, in queste pagine, la sua storia si è compiuta, con questo racconto
personale che è insieme una voce unica, quella di un paese e di un'intera
generazione. Cineasta visionario, Bechis si fa osservatore e testimone, e alla
fine ci porta dentro l'aula del tribunale di Buenos Aires dove ha affrontato i
suoi carcerieri alla sbarra. Vivere, testimoniare con l'arte, testimoniare di
fronte alla giustizia o scomparire nell'ombra?
…Per dire quanto il trauma strutturi intorno a sé
un’intera esistenza, Bechis lavora innanzitutto sul
montaggio, scartando la linearità cronologica per articolare la sua storia
intorno alle due date chiave che ne costituiscono gli estremi piscologici e
che danno il titolo alle due parti maggiori del libro (la terza, Trent’anni dopo, è una coda della seconda). Il
sequestro e la testimonianza sono i due punti zero a partire dai quali, con una
lunga serie di flashback alternati a bruschi ritorni al momento presente,
quello che viene prima è ripercorso, riorganizzato, riletto e trova il proprio
posto in una trama di rimandi e talvolta di premonizioni.
Nella prima parte, che si configura come un romanzo di
formazione individuale e generazionale insieme, affiorano la morte del fratello
minore, il “desaparecido” di una storia familiare destinata a esserne
irrimediabilmente squilibrata; gli ideali rivoluzionari della giovinezza
naufragati, su entrambe le sponde dell’oceano, nella vocazione al suicidio dei
gruppi guerriglieri (in Italia anche nell’eroina); la scelta dell’insegnamento
elementare nelle regioni povere del nord dell’Argentina come strumento di
autentica trasformazione sociale. Nella seconda parte, che dall’incontro con
Enrique Ahriman, all’inizio degli anni ottanta, si trasforma in un romanzo
d’artista, si susseguono la scoperta dell’espressione creativa come chiave per
“entrare e uscire dalla gabbia” dell’impotenza e del senso di colpa; le
riflessioni sul cinema come dispositivo emotivo e strumento politico tanto più
efficace quanto meno spettacolare; i ritorni nel cimitero a cielo aperto di
Buenos Aires, dove archeologi e antropologi forensi scavano e analizzano i
resti di un passato che non passa e a cui il silenzio dei carnefici impedisce
di rimarginarsi.
Lo spessore e il fascino di questa autobiografia di un
sovversivo che non ha mai smesso di essere tale non risiedono però soltanto
nell’unicità della vicenda che racconta, ma anche, e forse soprattutto, nella
sua tensione a collocarsi nel clima della generazione che l’ha espressa, nei
contesti storico-politici in cui si è svolta e nelle relazioni che l’hanno
attraversata o sfiorata. Se è, come di fatto è, una storia di sopravvivenza,
quindi una storia eccezionale, ricorda a chiunque quanto sia difficile, e
quanto necessario, “costruirsi una vita in mezzo agli altri”.
…L’esperienza del tuo
sequestro da parte dei militari argentini era al centro di «Garage Olimpo»
(1999), la dittatura di Videla, i suoi crimini, la violenza, i desaparecidos
tornano in «Figli/Hijos» (2002). «La solitudine del sovversivo» riprende queste
questioni e al tempo stesso illumina le scelte del tuo cinema – capiamo la
Patagonia di «Alambrado» (1991) o «La terra degli uomini rossi» (2008) – nella
scelta di mettere in campo la tua vita intera, i tuoi ricordi di bambino, di
adolescente, la tua irrequietezza. E questo passando dalla terza persona dello
schermo alla prima. A quali domande hai cercato in questa nuova forma una
risposta?
Mi sono chiesto spesso perché ho voluto scrivere un libro, e mi ripeto che è
per dire cose che non sono riuscito a mostrare nei miei film, anche se questo
non significa che cambierò mezzo espressivo, il romanzo è per me un passaggio.
Quando ho iniziato a lavorare a La solitudine del sovversivo non essendo uno
scrittore mi sono detto che dovevo pormi dei limiti, ho deciso che sarebbero
stati nella scelta di una totale soggetività. In qualche modo è come se dessi
voce al resto della storia, non vedo nel libro un completamento dei miei film,
penso piuttosto che li attraversa rispondendo a un’esigenza di testimonianza
con cui sopravvivere alla gabbia. Che forse è persino una dimensione da cui non
voglio uscire – il film che sto scrivendo tratterà una vicenda simile – ma
l’uso della prima persona e del presente mi hanno permesso di scrivere ciò che
ricordavo e di muovermi in quella non-verità che è parte dell’interpretazione
soggettiva di una narrazione. All’inizio ho tentato la terza persona ma l’ho
scartata subito, produceva una distanza che non funzionava. Il mio riferimento
è stato il memoir in presa diretta, il cinema mi ha aiutato con la pratica del
montaggio: tutto il racconto è molto montato ma con una libertà che le immagini
non permettono. In un film quando si uniscono due scene diverse si deve fare
attenzione ai vestiti degli attori, al luogo, alla luce, non si possono muovere
le sequenze qua e là a meno di non rigirarle. Scrivendo invece ho spostato
molti blocchi secondo le mie esigenze narrative…
…Alternando tempi e ritmi, quelli del sequestro e
il contrappunto delle vicende famigliari, la tensione inevitabile della
famiglia con la decisione del padre di tornare in Italia e il conflitto che
presto s’indurisce perché Marco è in Argentina che vorrebbe partecipare alla
vita adulta, il libro si apre un movimento spazio-temporale continuo. Bechis
dapprima prova – inutilmente – a ripercorrere i passi del padre iscrivendosi
alla facoltà di Ingegneria di Milano, ma presto la pressione, il bisogno di
conoscere “le vene aperte dell’America Latina” (cfr. Eduardo
Galeano), lo spinge a farvi ritorno, a compiere un viaggio “sulle orme
del Che”.
L’urgenza storica del momento è forte, ma Bechis è
assai perplesso sull’opzione della lotta armata; così il suo modo di
partecipare al desiderio del cambiamento, del bisogno di giustizia, trova sfogo
nella decisione di fare il maestro elementare in Sud America. Erano quegli anni
lì, in cui chi non partecipava poteva sentirsi in colpa – e il senso di colpa
aleggia anche qui.
Anche qui emerge la sindrome del
sopravvissuto (e l’immedicabile solitudine che ne deriva), perché
Bechis si salva, ovviamente, grazie alle conoscenze di un padre importante che
potrà farlo uscire dal sotterraneo in cui è rinchiuso. In questo movimento fra
le ragioni private e la dimensione pubblica della Storia, difficile da
risolvere, sembra agire la biografia di Bechis…
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