[Traduzione a cura di Valentina Gruarin dell’articolo originale di Katie Kuschminder pubblicato
su The
Conversation]
C’erano sette donne e tre bambini tra le 27 persone che
hanno tragicamente perso la vita nella Manica questa
settimana [l’articolo è stato pubblicato il 26 novembre, NdT].
Moltissime donne, con i loro bambini, cercano una
nuova vita in Europa: al 21 novembre di quest’anno, il 27,1% dei
migranti giunti via mare nel Mediterraneo sono donne o bambini.
Il canale della Manica rappresenta un’ultima
pericolosa traversata dopo viaggi che spesso sono lunghi, insidiosi e violenti.
La recente notizia di queste tragiche morti è arrivata
alla vigilia del 25 novembre, Giornata internazionale per
l’eliminazione della violenza contro le donne. La triste ironia è
che la violenza è una delle principali ragioni per cui le donne scelgono di
intraprendere pericolosi viaggi di migrazione, incontrando però spesso violenze anche durante il percorso e a destinazione.
In molti casi, questa violenza non viene denunciata
per paura di rappresaglie o stigma. Questo non solo impedisce loro di ricevere
il sostegno di cui hanno bisogno, ma ostacola anche la raccolta di dati
accurati a riguardo.
È il motivo per cui con altre sette esperte (nel team
è presente anche un ricercatore) del World Universities Network ci siamo riunite per
lavorare a un progetto che riguarda le donne, la migrazione e le loro
storie di resilienza; abbiamo intervistato circa 150 donne e stiamo
pubblicando i loro racconti in un progetto di storytelling
collaborativo.
Violenza a casa
Una delle mie colleghe, Marina de Regt, ha
condotto uno studio sulle giovani ragazze in Etiopia che decidono
di emigrare lontano da casa. Principalmente, queste donne si
allontanano dal Paese di origine per sfuggire alla violenza di genere per mano
dei loro patrigni, zie o zii, o per evitare i matrimoni forzati. Più del 40% delle donne etiopi sono sposate, o hanno una
relazione, prima dei 18 anni.
All’età di 13 anni, a Selam è stata data una scelta: “Lasciare la scuola, sposarsi o andare con sua zia a Khartoum“.
La giovane donna ha spiegato:
“Le ragazze che avevano 15 anni e non
erano sposate, erano considerate vecchie. Inoltre, c’erano molte ragazze che
venivano violentate a scuola e rimanevano incinte. Molto probabilmente i miei
nonni volevano proteggermi: avevano paura che rimanessi incinta e che nessuno
poi volesse sposarmi.”
Selam ha scelto di emigrare per sfuggire al matrimonio
infantile. Nonostante fosse un’eccellente studentessa, la famiglia di Selam
vedeva la scuola come un rischio per la sua castità. In Etiopia, le ragazze sono vulnerabili alla violenza sessuale
anche a scuola; se fosse stata violentata, Selam avrebbe perso ogni
prospettiva di matrimonio.
In Etiopia, i matrimoni combinati sono ancora comuni,
soprattutto nelle zone rurali dove le ragazze spesso non prendono autonomamente
la decisione di convolare a nozze e sono obbligate a sposare uomini molto più grandi.
Così lei si è trovata di fronte a ben poche opzioni:
essere una sposa bambina o correre il rischio di emigrare in Sudan.
Violenza in viaggio
La mia ricerca,
condotta con la collega Talitha Dubow, esamina i viaggi dei rifugiati che
arrivano in Europa tramite la rotta del Mediterraneo centrale, percorrendo la
Libia, o la rotta del Mediterraneo orientale, attraversando la Turchia e i
Balcani occidentali. Le donne ci hanno raccontato che, in diverse fasi del
viaggio, sono state soggette a violenti abusi da parte di guardie di frontiera,
trafficanti o rapitori, trovandosi faccia a faccia con la morte per
annegamento, subendo maltrattamenti e soffrendo la fame.
Bahar, una giovane afghana intervistata in Turchia, ha
spiegato che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i
Rifugiati (UNHCR) le aveva recentemente offerto il
reinsediamento negli Stati Uniti. Il processo avrebbe richiesto dai quattro ai
cinque anni e, in quel momento, Bahar stava ricevendo minacce dal suo ex-marito
violento che aveva già aggredito lei e la sua famiglia in Afghanistan.
Bahar stava quindi pianificando un viaggio irregolare
verso l’UE perché, anche se avrebbe preferito scegliere l’opzione statunitense,
aveva paura di quello che il suo ex-marito avrebbe fatto a lei e a suo figlio
se fossero rimasti ancora in Turchia.
Sapeva che il suo viaggio verso l’UE avrebbe potuto
essere fatale ma, ha affermato: “Devo davvero correre questo
rischio. Non ho altra scelta“.
Violenza a destinazione
Anche una volta arrivate a destinazione, le donne
migranti non sono necessariamente libere. La marriage migration –
migrazione a scopo di matrimonio – è aumentata negli ultimi anni. Questo
aumento ha avuto luogo soprattutto in Asia. Per le donne vietnamite in
condizioni di povertà, ad esempio, la migrazione per matrimonio a Taiwan rappresenta la possibilità
di una vita migliore.
La mia collega Su-Lin Yu ha
condotto un’ampia ricerca sulle
vietnamite che emigrano a Taiwan per sposare uomini taiwanesi. Dal 1997, più di
520.000 donne si sono recate a Taiwan per sposarsi, un numero significativo per
una popolazione di circa 24 milioni di persone.
Su-Lin Yu ha scoperto che le donne vietnamite sono
vulnerabili a molteplici forme di violenza, compresi gli abusi psico-fisici da
parte dei loro mariti e, in alcuni casi, anche le molestie sessuali da parte di
altri membri maschili della famiglia. Un’intervistata ha dichiarato:
“A volte tornava a casa verso le due o le
tre del mattino e litigava con me. Ha iniziato a picchiarmi verso il terzo mese
di gravidanza. Mi picchiava quando ero incinta. I miei suoceri lo sapevano, ma
non mi hanno aiutato.”
Le donne migranti dipendono dai loro mariti. Si è
scoperto che i mariti violenti trattengono i passaporti delle loro mogli
come mezzo di controllo per impedire loro di richiedere la
cittadinanza taiwanese e per trattenerle all’interno di un ciclo di abusi.
Queste donne sono spesso isolate, con pochi mezzi per cercare aiuto.
A livello globale, esse hanno molte più probabilità,
rispetto agli uomini, di essere uccise dai partner: costituiscono circa l’82% delle vittime per violenza di genere.
Porre fine alla violenza
La morte di 27 persone nella Manica, tra cui una donna
incinta e diversi bambini, è tragica. Dobbiamo riconoscere che le donne migrano ogni giorno per sfuggire alla violenza e a una
probabile morte, rischiando consapevolmente la loro vita per trovare
luoghi sicuri e la possibilità di vivere una vita libera. Troppo spesso si
tratta di sforzi vani, poiché finiscono in situazioni di ulteriore violenza o
perdono la vita nel tragitto o a destinazione.
Noi tutti possiamo aiutare sostenendo le donne
migranti. Dobbiamo creare insieme spazi sicuri per loro,
luoghi che possano fornire servizi di supporto incentrati sulla sopravvivenza e
dove si sentano protette e libere di condividere le loro storie.
Ci si augura che, condividendo alcuni dei racconti
delle donne con cui abbiamo parlato, la consapevolezza di questa crisi – e il
desiderio di fare qualcosa al riguardo – aumenti, ponendo i presupposti per
azioni concrete di prevenzione, supporto e protezione.
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