“Benedetto sia il conflitto”. Questo dovrebbe essere il sospiro di sollievo
di ogni italiano pensante, di fronte alla decisione di CGIL e UIL di proclamare
lo Sciopero Generale. Perché questo può
essere davvero l’unico modo per disperdere i miasmi tossici che si addensano su
un Paese e su una società devastati da un malessere tanto profondo e diffuso
quanto mascherato e taciuto. Il solo antidoto potenzialmente efficace contro
quell’”onda di irrazionalità” denunciata dal Censis nel suo ultimo Rapporto, che colpisce tanto
in alto (in un ceto politico perduto nel labirinto dei propri deliri
quirinalizi) quanto in basso (in una popolazione impaurita e preda delle
peggiori superstizioni nel tentativo di decifrare “il senso occulto di una
realtà” che le si decompone intorno). Potremmo dire: tanto tra le “caste”,
quanto nella “plebe”. In questo contesto, il focus puntato sulle condizioni
materiali delle persone, in particolare dei lavoratori che costituiscono la
maggioranza della popolazione e che hanno subito per almeno tre decenni
ingiustizie e spoliazioni vergognose, rappresenta un insperato ritorno di un
barlume di razionalità e di ragionevolezza – il riaffacciarsi della vecchia
vituperata ma spesso salvifica Ragione illuministica – nella notte dei sabbah e
dei riti del potere.
Stupisce, in tale contesto – e anche questo è il sintomo della “crisi
della Ragione” in atto – lo stupore della massime autorità di governo
competenti in materia. Il “non capisco le motivazioni dello sciopero” del
Ministro del Lavoro Orlando, che pur qualcosa dovrebbe sapere delle condizioni
di vita di quelli che costituiscono nel bene o nel male l’ oggetto delle
decisioni del suo Dicastero. Soprattutto l’”incredulità di Draghi” – è un
titolo di “Repubblica” -, che le cronache descrivono come “irritato”, in
qualche reportage addirittura “irato” (L’ira di Draghi, il
“Messaggero”). E la sua sentenza: “E’ immotivato” (sic). Sarebbero
questi gli “statisti”? O anche solo gli “economisti”?
Ora, Mario Draghi, se non altro per il mestiere che ha fatto per tutta la
sua vita precedente, dovrebbe saper leggere i numeri. Ebbene, gli suggeriamo di
dare un’occhiata a qualcuno dei tanti dati che potrebbero illuminarlo: per
esempio alla serie storica elaborata dall’OCSE (non dal Centro Studi della
CGIL) sulla dinamica dei salari medi annuali nei rispettivi Paesi nell’ultimo
trentennio (1990-2020). Potrà vedere a occhio nudo che l’Italia si colloca
all’ultimo posto tra i 23 membri censiti, l’unico con un valore negativo! Sono
cresciuti tutti gli indici salariali, sia in Europa che nell’America del Nord
che in Asia: chi molto (la Korea fa segnare un +92%), chi con un valore medio
(il Regno Unito +44%, la Germania e la Francia rispettivamente +33% e +31%),
chi pochino (la Spagna col suo +6%). Ma l’Italia è andata addirittura
indietro: in trent’anni i salari dei lavoratori italiani sono diminuiti del
2,9% (!!!). Nel primo ventennio del nuovo secolo ancora di più, -3,5%: un
lavoratore italiano che nel 2000 guadagnava mediamente in un anno l’equivalente
di 39.175 dollari lordi (a prezzi costanti calcolati sul 2020) oggi ne guadagna
37.769 (1.406 in meno). Un coreano che trent’anni fa ne percepiva 29.000 oggi
ne guadagna quasi 42.000. Un britannico ha aumentato il proprio salario lordo
di circa 7.000 dollari. Un tedesco di 9.000. Persino i Greci si sono mantenuti
in pari, intorno ai 27.200 dollari (OECD.Stat).
Sarebbe stato necessario farne 20 di scioperi generali in questo ventennio,
per restare a galla. E invece una classe dirigente che dovrebbe fare il mea
culpa per ciò di cui si è resa responsabile si chiede come mai alla fine
ne arrivi uno – uno!!! -, a disturbare un manovratore che sembra aver perso la
strada, o quantomeno il senso della realtà. Quando si parla della cecità che ha
colpito chi sta in alto nei confronti delle condizioni di chi sta sotto – e
dunque dello scollamento tra Paese legale e Paese reale che sta uccidendo la
politica – si intende appunto questo. Questa miopia che il “Migliore tra i
Migliori” ci sciorina davanti.
Se poi questo sguardo lungo su un intero trentennio nel corso del quale il
mondo operaio è stato umiliato e impoverito gli dovesse riuscire troppo
faticoso, potrebbe accontentarsi del breve periodo in cui lui stesso ha guidato
il Governo, i poco più di otto mesi che ci stanno immediatamente alle spalle e
in cui non ha mancato di colpire in basso, tra gli strati sociali che più
avevano dato in termini di sacrifici e sopportazione nel periodo peggiore della
pandemia e che avrebbero potuto aspettarsi un po’ più di considerazione e di
rispetto. Penso a quella controriforma delle pensioni, uscita dalle sue stanze
a Palazzo Chigi, che ha nuovamente inchiodato i lavoratori italiani a un tempo
di lavoro protratto fin oltre i limiti umanamente accettabili e a un’età
pensionabile che batte ogni record nel confronto internazionale. E’ ancora
l’OCSE a certificarlo, mostrando, grafici alla mano, come gli italiani, con la
loro età pensionabile attuale fissata a 66 anni e 7 mesi per gli uomini e a 65
anni e 7 mesi per le donne (ma proiettata prospetticamente fino a lambire
i 71 anni in ragione del previsto aumento dell’aspettativa di vita), sono
quelli che invecchiano più di ogni altro al mondo sul posto di lavoro. La media
per l’Unione europea è infatti di oltre due anni inferiore alla nostra (gli
uomini vanno in pensione mediamente a 64 anni e 4 mesi, le donne a 63 anni):
gli austriaci lo fanno a 65 anni, come i cecoslovacchi gli spagnoli i tedeschi
e gli inglesi, i francesi a 62 anni, come i norvegesi e i maltesi, gli svedesi
addirittura a 61 anni. Fuori dall’Europa americani, canadesi, australiani
giapponesi coreani (considerati normalmente degli stakanovisti) possono tutti
legittimamente riposarsi a 65 anni, mentre in Russia Cina e Sud Africa si va in
“quiescenza” a 60 anni…
O pensiamo a quella beffa che è stata la cosiddetta riforma fiscale con la
rimodulazione delle aliquote Irpef, che avrebbe dovuto ridurre il cuneo fiscale
e che l’ha fatto in minima misura ma con un criterio di proporzionalità inversa
(l’opposto della giustizia distributiva), cioè dando di meno a chi ha meno e
dando di più a chi ha di più. In altre parole non modificando di nulla i
redditi da lavoro dei più poveri, tanto poveri da essere classificati appunto
come “incapienti”, dando qualche briciola agli scaglioni di reddito più bassi
(vedi tabella) e andando a crescere a cominciare dai 35.000 euro per arrivare
al massimo oltre i 75.000 secondo la massima anti-evangelica secondo cui “chi
ha di più avrà di più”. L’iniquità di un simile dispositivo è evidente. Solo
l’italovivo Luigi Marattin ha provato a tesserne l’elogio (i 14 domande a cui,
secondo la logica di Marzullo, si dà le risposte) riesumando la logora etica
ultra-liberista a suo tempo praticata da Milton Friedman e teorizzata da Robert
Nozick secondo la quale condonare 10 dollari di tasse a un povero che ne
guadagna 20 significa fargli un regalo incomparabilmente maggiore rispetto al
condono di 100 euro a uno che ne guadagna 1000, perché nel primo caso il
vantaggio è pari al 50% del reddito mentre nel secondo solo al 10%. Elementare
Watson. Per tutti gli altri il segno “di classe” del provvedimento appare
indiscutibile, e infatti le solite voci del padrone non hanno suonato, tutto
subito, la grancassa. E d’altra parte i sindacati il 29 novembre – il giorno
della “rottura”, come titolavano tutti i giornali – l’avevano detto chiaramente
che quella progressività al contrario non era accettabile e che – parole di
Landini – era un “messaggio sbagliato da dare alle lavoratrici e ai lavoratori
e pensionati”. Avevano anche aggiunto che avrebbero valutato le iniziative di
lotta necessarie per far “cambiare idea al governo”…
E allora cos’è tutto questo irritato stupore, questo cader dal pero dei
grandi editorialisti e dei piccoli cucinatori di cronaca del nostro sistema
dell’informazione? Sulla prima di “Repubblica” del 6 dicembre, per esempio,
Lavinia Rivara lamenta che “è una ferita per tutti”, mentre a fianco
redazionalmente si dà grande spazio al comunicato di Palazzo Chigi che difende
la manovra e definisce lo sciopero “Scelta del tutto ingiustificata”,
perché “nessun esecutivo come questo ha mai fatto tanto per pensionati e
lavoratori” (sic!). Fa eco dalla prima del “Foglio” Carlo Cottarelli che, quasi
fosse appena atterrato da Marte, parla di “uno sciopero senza ragioni” e –
sacrilegio! – “contro il metodo Draghi”, per sentenziare infine che “così Cgil
e Uil rischiano di perdere credibilità”. Sul Giornale di Sallusti e
Berlusconi Fabrizio Boschi parla di “follia dei sindacati” e Carlo Lottieri
fustiga Landini e Bombardieri come “irresponsabili allo sbaraglio”. Ma la palma
del miglior rivoltatore di frittate spetta a Dario Di Vico che nel suo
editoriale sul “Corriere della sera” scrive addirittura che “toccherà ai più
sofisticati studiosi della modernità controversa tentare di classificare questo
strano sciopero ‘perché-non-c’è-abbastanza’ visto che a noi comuni mortali la
dichiarazione di Maurizio Landini e Pier Paolo Bombardieri ha lasciato di
stucco”. E aggiunge che i due dissennati “hanno accettato scientemente di
spaccare l’unità sindacale senza che fosse nato un vero casus belli”, dal
momento che “sulle pensioni è previsto un tavolo di negoziato (?), sugli
ammortizzatori sociali il governo ha messo soldi e la discussione è ancora
aperta [dopo cinque mesi dallo sblocco dei licenziamenti, nda], sulla
precarietà proprio in questi giorni si è venuto a conoscenza di una direttiva
europea sulla gig economy molto favorevole alle tesi
sindacali, e sulla riforma della tassazione il governo Draghi, dopo tanto
tempo, è intervenuto ridisegnando le aliquote”… Dove viva da “comune mortale”
questo tipo di iperuranico, da quale livello della piramide sociale guardi il
mondo, magari per stralunarsi davanti alle piazze deliranti dei no vax e
chiedersi da dove mai vangano quelle turbe di turbati e d’irriducibili al senso
delle cose, non è dato sapere.
Per noi che viviamo al livello del suolo, la notizia della riapertura del
conflitto sociale – supposto che alle parole segua il fatto, e che gli appelli
all’amor di patria da parte dei tanti che in questi anni la patria l’hanno
usata come un bancomat cadano nel vuoto – ha lo stesso sapore della speranza
che potrebbe avere quella della scoperta di un vaccino finalmente definitivo
contro ogni variante (e contro ogni contagio paranoide). Una sorta di ritorno
non dico alla salute ma a una qualche igiene mentale collettiva. Quando il
Censis – ancora loro! – nel descrivere noi, oggi, parla di “un sonno
fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco,
sciamanico”, sembra evocare altri luoghi, altri tempi della storia Europea.
Quell’Europa in cui, scriveva l’etnologo militante Ernesto De Martino, altri
mestatori andavano “sciamanizzando i popoli” (letterale). Quella Germania in
cui Ernst Bloch vedeva all’opera i fantasmi prodotti dalla morte della speranza
da parte di un proletariato orfano del proprio riscatto e per questo
abbandonato ai riti occulti e al fascino delle magie nere di una tirannide
disumana. Un’altra “crisi della Ragione” figlia a sua volta di una crisi
sociale lasciata marcire su se stessa. Forse gli autonominati “migliori”, e il
loro coro mediatico, per esorcizzare le “piazze pulite” dei sindacati
finalmente tornati in lotta, preferirebbero le “piazze sporche” degli
autolesionistici profeti di sventura, rimasti a monopolizzare il disagio dei
sacrificati da questo distorto “sviluppo”?
Per questo lo sciopero generale che ci si augura imminente non è solo una
misura di politica sociale (e di giustizia sociale). E’ una misura sanitaria.
Appunto, di igiene mentale.
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