L’Italia è punteggiata di cippi e lapidi commemorative con la stella rossa dell’Unione
Sovietica o scritte in cirillico. È questo quasi tutto quel che rimane di un
aspetto poco noto della liberazione, la fase della nostra storia senza cui
l’Italia repubblicana che oggi diamo per scontata non esisterebbe. Vista l’ambiguità con cui da qualche anno si parla di liberazione e Resistenza, non
stupisce che la conoscenza diffusa su questi temi escluda diversi aspetti ed
episodi densi di significato, come la partecipazione di partigiani di
nazionalità non italiana alla guerra di liberazione dal nazifascismo. Tra
questi, i circa 5000 soldati sovietici che combatterono al fianco dei
partigiani, ma che dal dopoguerra furono relegati nell’oblio quasi totale.
Eppure quelle vicende storiche testimoniano una solidarietà che travalica i
confini nazionali, in nome dello stesso fine della liberazione dal
nazifascismo, che ancora oggi merita di essere celebrata.
Per capire come i sovietici arrivarono in Italia
bisogna risalire all’Operazione Edelweiss, il piano con cui Hitler pianificò la
conquista di tutta l’area del Caucaso per impossessarsi dei pozzi di petrolio
di cui l’Azerbaijan era ricco. Si trattava di un obiettivo strategico anche
perché, dopo l’occupazione tedesca dei territori dell’attuale Ucraina, la
Repubblica Socialista Sovietica Azera era rimasto l’unico fornitore di petrolio dello schieramento alleato e la sua capitale,
Baku, era un importante centro di manifattura di 130 tipi diversi di armi, tra
cui i leggendari razzi Katjusha – così chiamati dalla celebre canzone popolare russa che
dopo la guerra assunse un forte significato patriottico, e la sua melodia,
portata in Italia dai reduci di ritorno dalla Russia, diventerà la base per “Fischia il vento”. Oltre alle motivazioni strategiche però ci sono
quelle “esoteriche”: Hitler infatti vuole il Caucaso anche per prendere il monte Elbrus, ritenuto la sede mitica del Valhalla, dimora
degli eroi della mitologia germanica. Così, violando il patto Molotov-Von Ribbentrop, nel giugno 1941 invade l’Unione Sovietica,
puntando verso il Caucaso. Alla notizia, tra i volontari che si arruolano
nell’Armata Rossa per fermarlo ci sono anche 40mila azerbaijani, che si costituiscono in diverse divisioni su base
nazionale, i cui posti di comando, però, spettano a ufficiali russi, cosa che
comporta qualche difficoltà a livello di gestione e coordinamento per la
distanza culturale e linguistica tra i soldati e i gradi superiori.
Nell’autunno 1942 è ormai chiaro il fallimento del
progetto nazista, nel quale sono coinvolti anche gli italiani dell’ARMIR (Armata
Italiana in Russia). Dopo aver sconfitto i tedeschi a Stalingrado, nel gennaio
1943 l’Armata Rossa organizza una controffensiva: nonostante alla fine
prevalgano i sovietici, durante gli scontri molti di questi sono costretti ad
arrendersi; tra i prigionieri dei nazisti – in totale tra i 3 e i 4 milioni di persone – diversi azerbaijani sono
probabilmente uccisi subito perché, essendo musulmani, sono circoncisi e
quindi scambiati per ebrei. Dopo una prima fase di sterminio, però, il regime
nazista decide di cambiare strategia, puntando sul collaborazionismo – tanto
che, alla fine del 1942, nasce a Berlino l’anticomunista Comitato per la liberazione dei popoli della Russia – e sull’impiego dei prigionieri nei campi di
lavoro. Vengono anche creati dei reparti militari cosacchi, posti sotto il
comando dall’atamano – cioè il comandante cosacco – Pëtr
Krasnov e vengono dotati di una certa libertà d’azione perché,
diversamente dalle etnie slave, sono ritenuti di origine ariana. L’idea è
impiegare i caucasici contro l’Armata Rossa, ma cercando di mettere per
sicurezza i diversi sovietici l’uno contro l’altro.
Da queste legioni sono molti a disertare e unirsi di nuovo all’Armata Rossa o a entrare in clandestinità, atteggiamento che fa ancor più perdere la fiducia dei tedeschi nei confronti dei sovietici, che vengono quindi ritirati dal fronte orientale e dirottati su quello occidentale, allontanandoli dalla madrepatria. Anche così, però, gli antifascisti non rinunciano ai loro propositi di fuga e, giunti con le legioni naziste in Francia e in Italia, nell’estate del 1943, fuggono mettendosi in contatto con le formazioni partigiane locali. Corpi di partigiani azeri e georgiani legati alla Brigata Garibaldi sono attivi in Emilia, nelle zone di Parma e Piacenza e nel bolognese, fino a tutto l’Appennino tosco-emiliano; altri sulle montagne nella zona di Bergamo e di Brescia, dove è attestata la presenza di disertori russi, cecoslovacchi, polacchi e altri non meglio identificati “slavi” di cui i testimoni ricordano le prove di coraggio. Come quella del georgiano Pore Mosulishvili – attivo nell’area del Lago Maggiore assieme ad altri caucasici – che, accerchiato dai tedeschi, si suicida a inizio dicembre 1944. Qualche tempo prima, il 24 ottobre, tra i trucidati nelle stragi compiute dalla polizia fascista nei dintorni di Novara – un’azione di vendetta nei confronti delle operazioni partigiane della zona – c’è anche il georgiano Sikor Tateladze, che viene impiccato assieme ai compagni italiani.
Il più noto, però, è il partigiano Mikhailo, nome
di battaglia con cui passa alla storia Mehdi
Huseynzade, un giovane artista poliglotta, destinato a morire a 25 anni e a
essere ricordato come eroe. Tenente dell’Armata Rossa ferito gravemente e fatto
prigioniero in battaglia nel 1942 nei pressi di Stalingrado, Huseynzade, di
fronte all’opzione di andare in campo di concentramento, preferisce entrare
nella Legione nazionale azerbaigiana, con l’idea di fuggirvi il prima
possibile. Qui, grazie al suo talento per le lingue, diventa interprete e viene
affidato alla 152esima divisione turkestana di fanteria, nel reparto di
propaganda e controspionaggio. Questa, dopo l’8 settembre del 1943, viene
inviata nella zona di operazioni Litorale Adriatico, la nuova provincia del
Reich tedesco che comprende Trieste e la Venezia Giulia; qui Huseynzade
progetta la fuga insieme ai suoi compagni Javad
Hakimli e Asad Gurbanov.
I tre riescono a mettersi in contatto con dei
partigiani comunisti e a entrare nel IX Korpus del Fronte di liberazione
sloveno, composto di sloveni e italiani legati alla Brigata Garibaldi. È da
loro che Huseynzade viene ribattezzato Mikhailo ed è con loro che progetta
diversi attentati contro le postazioni tedesche nella zona, tra cui l’esplosione di una bomba in un cinema pieno di soldati tedeschi a
Villa Opicina il 2 aprile 1944, che provocò 80 morti e 110 feriti; 20 giorni
più tardi salterà poi in aria il circolo militare Deutsches Soldatenheim in
via Ghega a Trieste durante uno spettacolo, facendo 450 tra morti e feriti. Il
mese dopo esploderà il casinò militare di via del Fortino, sempre a Trieste, e verrà
innescato un ordigno in una caserma.
A settembre dello stesso anno, Mikhailo, travestito
da ufficiale nazista, fa saltare due aerei e 25 automezzi in un autodromo tedesco e il mese dopo, con i
suoi uomini, fa un’incursione in carcere liberando 700 prigionieri di guerra.
La taglia che pende sulla sua testa non gli impedisce di portare a termine un
ultimo attentato in un cinema militare di Sezana; ma quando, a novembre, cerca
di introdursi nei magazzini di uniformi tedesche a Gorizia, i tedeschi lo
fermano. Secondo il dossier ufficiale – in cui probabilmente la realtà sfuma nel
mito – gli inseguitori individuano la località in cui Mikhailo alloggia, e lui,
accerchiato, uccide 25 soldati tedeschi,
prima di suicidarsi con l’ultimo proiettile rimasto. Esiste un’altra
versione secondo cui i nazisti trovarono per caso Mikhailo a pranzo in una
trattoria nel villaggio di Vitovlje, in Slovenia, e lo trucidarono. Un suo
compagno, il georgiano David Tatuashvili, gli costruì una tomba in una località
che oggi si trova in Slovenia, su cui Javad Hakimli – che ne parlerà nel 1963
nel suo libro di memorie Intigam (“La vendetta”) –
incide la stella rossa dell’Urss.
In Azerbaijan, oggi, Mikhailo è
celebrato come
personificazione dell’impegno nazionale nella guerra di liberazione europea.
Gli sono stati dedicati film e
nel 1973 un monumento nel centro di Baku. Ciò è stato possibile solo dopo la
morte di Stalin, che aveva addirittura emanato un ordine per punire chiunque avesse fatto parte delle divisioni tedesche,
anche se arruolato a forza e disertore di provato antinazismo. L’eroe dei tre
mondi – Urss, Italia e Slovenia – non è però altrettanto riconosciuto
all’estero. Non solo in Urss – dove le peculiarità locali delle nazionalità non
russe sono state a lungo percepite come un pericolo per l’unità dello Stato –
ma anche in Jugoslavia, in rotta con Stalin dal 1948. In Italia i partigiani sovietici per anni non hanno ricevuto onori. Da
noi, infatti, vicende come quella di azerbaigiani e georgiani non sembrano
essere in linea con la narrazione dominante del dopoguerra, di esaltazione
degli alleati americani, per cui l’apporto comunista alla liberazione è un
ricordo scomodo.
Eppure questo è uno degli episodi che mostrano la trasversalità della Resistenza, la cui solidarietà merita di essere ricordata. Sono ancora troppe poche e isolate le iniziative di commemorazione, come quelle programmate per fine ottobre a Gallarate e Verbania, o come l’inaugurazione, nel 2017, di un piccolo museo dedicato a Mikhailo in Slovenia; mentre pioneristico è stato il riconoscimento da parte della Regione Toscana già negli anni Settanta verso i reduci venuti da lontano. Nella memoria collettiva non sembra esserci uno spazio per questo solidale antifascismo che travalica confini nazionali e ostacoli linguistici e che si realizza anche nella partecipazione dei partigiani italiani alle operazioni di Resistenza all’estero. Questi episodi sono stati praticamente cancellati, a eccezione di qualche lapide nei boschi o negli angoli dei nostri cimiteri, e invece dovrebbero essere fatti conoscere, come testimonianze della solidarietà sovranazionale, preziose tanto più oggi per contrastare la voglia di costruire muri, risvegliando quella di abbatterli.
Nessun commento:
Posta un commento