Accade alle volte che, parlando con amici, taluni si rammarichino del tempo e delle energie che vengono consumate nel seguire l’attuale vicenda gravitante intorno alla certificazione verde. A loro avviso chi se ne occupa starebbe cadendo in un’operazione di distrazione di massa, mentre il governo metterebbe mano alle questioni che contano.
Ora, questa tesi ha dei meriti. In particolare ricorda che il nucleo degli
interessi delle élite economiche, che ci guidano per interposto governo, non
sta né nella questione sanitaria, né nell’implementazione della certificazione
in questione. Questi sono mezzi, non fini.
Tuttavia credo anche che questa tesi sia in ultima istanza profondamente
erronea.
Queste obiezioni ripercorrono reiterate discussioni avute negli anni, nei
lustri, scorsi, in cui simile rammarico andava invece ad altre questioni, che
parimenti incontravano il loro sostanziale disinteresse: le questioni relative
al cosiddetto “politicamente corretto”.
Anche lì l’idea era che prendere quei temi troppo sul serio fosse una
perdita di tempo, una distrazione, una caduta nel sovrastrutturale, laddove la
sostanza dell’analisi economica andava perduta di vista.
Ciò che – certamente per limiti personali – non riuscivo a far intendere
allora è che il cuore problematico nell’espansione di quell’orientamento
culturale (il “politically correct” con i suoi addentellati) doveva essere
inteso come una questione di metodo, a prescindere dalle specifiche
questioni in oggetto, dalle specifiche richieste, dagli specifici divieti.
Il problema non stava tanto, per dire, nel fatto di dover o meno abolire la
parola “razza” in quanto evocativa di momenti oscuri, ma nella forma di
quella operazione. Che essa si applicasse a questioni ‘sensibili’ come i temi
del sessismo, del razzismo o di una qualche x-fobia non era cruciale – anche se
rivelatore di alcune tendenze storiche. Il punto essenziale era l’idea che per
evitare un abuso (ad es. il razzismo) si dovesse operare cancellando a
monte la possibilità stessa di venire a conoscenza di una certa
categoria (“razza”).
I loro avversari, hanno sovente deriso la tendenza dei movimenti
politicamente corretti come movimenti culturali superficiali, dediti a una
dimensione esteriore, espressiva, formale. Questa valutazione poteva essere
corretta finché ci si concentrava sull’intento dichiarato (evitare il razzismo
vietando la parola “razza” o evitare il sessismo vietando certi usi
linguistici, come il maschile plurale in accezione neutra). Se l’intento era di
correggere i mali del mondo ritoccando le parole, lì l’irrisione poteva avere
buon gioco: un tale intento soffriva di un “idealismo iperbolico”, destituito
di fondamento: se non si modificano le pratiche sociali, i rapporti di forza,
ecc., le limature linguistiche sono sterili esercizi di stile, e in tal caso
effettivamente una vera “distrazione di massa”.
E tuttavia guardando solo quell’aspetto si stava perdendo un secondo
aspetto, assai più radicale. Ciò che stava prendendo rapidamente piede era un
processo a due strati. In prima battuta veniva creato un terreno di consenso
intorno ad alcuni “mali”, esposti come particolarmente rilevanti e urgenti da
specifiche campagne mediatiche. In seconda battuta, andava imponendosi, come forma
socialmente accettata di correttivo a questi mali, una nuova pratica
sociale che legittimava una limitazione a monte della libertà
d’espressione. Secondo questo canone una certa Autorità Morale, se
riconosciuta come tale, aveva il diritto-dovere: 1)di esporre e
denunciare l’urgenza di un male da estirpare e 2) con l’apparente
intento di estirpare questo male, di modellare a monte il dicibile, o
di obliterare l’indicibile.
Quest’operazione è straordinariamente radicale e completamente
verticistica. Alcuni ristretti gruppi culturalmente influenti, e prossimi alle
leve del potere mediatico, hanno potuto prima redigere unilateralmente l’agenda
dei mali sociali urgenti, e poi chiamare sé stessi alla necessità impellente di
intervenire, in forma di blocco preventivo sulla loro espressione.
Il punto naturalmente non era e non è mai stato quello di vietare offese o
ingiurie, già protette dalla legislazione ordinaria. Il punto consiste nel
blocco della possibilità stessa di intrattenere, esprimere, dibattere certe classi
di pensieri.
Il meccanismo era – ed è – altamente caratteristico. Riporto a questo
proposito un’esperienza autobiografica recente. Avevo chiesto ad un madrelingua
inglese di rivedere un testo destinato alla pubblicazione all’estero. Tra i
pochi interventi fatti c’era il suggerimento di non usare il termine
“autistic”, che occorreva in una frase di senso metaforico (“un atteggiamento
quasi ‘autistico’”). L’uso della parola (peraltro tra virgolette) avrebbe
potuto infatti suscitare una reazione di suscettibilità e offesa. Il termine,
che ha un utilizzo corrente nella letteratura scientifica, nel mondo di lingua
inglese risulta apparentemente caduto nel novero delle parole che andrebbero
omesse in quanto implicitamente stigmatizzanti, a prescindere dall’uso che se
ne voglia fare.
Incidentalmente, di fronte a questa osservazione la mente è corsa a studi
passati sull’autismo (quello clinico, non metaforico) e non ho potuto fare a
meno di rammentare come le diagnosi di autismo siano esplose in maniera
sconcertante negli ultimi decenni, aumentando di due ordini di grandezza. Ma
apparentemente nella nostra società niente di ciò ha suscitato particolare
allarme sociale o medico, producendo invece come soluzione preferita quella di
cancellarne la problematicità a monte, facendola scomparire con una metamorfosi
dell’uso linguistico.
Aneddoti biografici a parte, è poi interessante osservare come la
tabuizzazione dell’uso verbale può funzionare in due sensi.
Da un lato esso può funzionare come divieto e blocco del diritto
all’espressione altrui. Ma dall’altro può funzionare come ghettizzazione,
sempre da parte dell’Autorità Morale, attraverso un sistema di equivalenze
semantiche agganciate ad un tabù. Ad esempio negli ultimi anni le richieste di
sovranità nazionale in chiave euroscettica emerse dopo la crisi subprime sono
state derubricate dall’apparato mediatico a “sovranismo”, il “sovranismo” è
stato posto in equivalenza con il “nazionalismo”, e il nazionalismo col
“fascismo”. Una volta prodotta questa riduzione concettuale ogni margine di
discussione è stato annullato, perché “fascismo” è una di quelle unità verbali
tabù dove le ragioni devono spegnersi perché la condanna è, per così dire,
passata in giudicato.
Ciò che accomuna in profondità queste operazioni è la soppressione di ogni
ragionamento, di ogni eventuale discussione pubblica con un tabù che esige solo
di annuire, di assentire ad una condanna, posta come al di là del discutibile.
Sulle ragioni storiche di questo processo mi sono soffermato altrove e non
ne parlerò qui. Questo processo non è affatto meramente nazionale, ma
accompagna un processo di assottigliamento delle pratiche democratiche in corso
da tempo. Esso appare in forma magnificata nelle iniziative che cercano di
cancellare fisicamente segni del passato, lapidi, statue, percepiti come
offensivi per la sensibilità corrente di alcuni. Anche qui, l’essenziale
è la forma dell’atto: non si tratta di contestare questa o quella
figura storica, spiegando le ragioni di un’errata glorificazione (procedura di
approfondimento sempre salutare).
No, il modulo adottato assume in partenza l’impossibilità della
comunicazione, l’eradicazione della dialettica: si tratta puramente
e semplicemente di “cancellare uno sconcio”, qualcosa che non può e non deve
essere discusso, perché già discuterne sarebbe una concessione, sarebbe
contaminante. Gli agenti di questi atti non sono però diretta emanazione delle
élite, ma sono frange sfuggite, neofiti convertiti alla religione della censura
e della cancellazione, spesso giovani allevati nella più totale mancanza di
consapevolezza storica, che fanno da cassa di risonanza al messaggio trasmesso
dall’alto; essi però non sono davvero i protagonisti di questo processo
storico, ma solo la sua manifestazione più goffa.
In Italia, l’attuale fase, subentrata con l’imposizione della
certificazione verde, ha prodotto una potente accelerazione di questo tipo di
processi.
Ora l’Autorità Morale legittimata a operare queste forme di cancellazione
mostra direttamente il suo volto nella forma del governo, dello stato, delle
istituzioni, che hanno perso da tempo ogni capacità di rappresentanza
democratica. Questo segnala il punto terminale del processo, con l’estinzione
del senso stesso dei processi democratici. L’Autorità Morale stabilisce a monte
quali fonti possono essere menzionate e quali no, quali frasi possono essere
dette e quali no, quali ospiti possono comparire in studio e quali no, quali
manifestazioni di protesta si possono tenere e quali no. La forma è
insindacabile e sottratta ad ogni motivazione, perché con il Male non si
discute, del Male i “buoni” sanno già sempre tutto ciò che serve, e già
discuterne significherebbe scendere a patti.
Ed è così che arriviamo all’oggi, dove abbiamo assistito ad un rapidissimo
crescendo dei processi censori. Ora, mentre scrivo queste righe so che se le
voglio destinare al social più diffusivo devo rigorosamente limitarmi ad
opinioni espresse in un certo range linguistico. Al contempo, nella corrente
battaglia informativa una parte non ha più la possibilità di portare a
conoscenza altrui alcuna documentazione. Chi ci prova viene cancellato. Oramai
documentazioni e testimonianze (spesso autorevoli, assai numerosi) circolano e
possono circolare solo se veicolate in gruppi chiusi, che per definizione non
posso ambire alla ‘viralità’. L’informazione va contenuta, come una malattia.
Non deve uscire dal lockdown della mente. (E quando, faticosamente, qualcosa
riesce ad uscire, ci troviamo un qualche scappato di casa in boxer e tastiera
ad ergersi a temibile “fact-checker” a libro paga, pronto a smantellare a
battute studi peer-reviewed o esperti internazionali. Con massima eco e
diffusione.)
L’insofferenza per la discussione, per la dialettica, per la riflessione è
insofferenza per tutto ciò che non si conforma spontaneamente all’autorità, che
oggi si presenta anzitutto come Autorità Morale. Ciò che non si conforma non
deve poter esistere, non deve avere spazio, perché il Male è visto come
un’infezione: se la fai entrare anche in minima parte potrà crescere e magari
imporsi. Dunque solo una purificazione che cancella l’alterità, il dissenso o
l’eterodossia può essere la via percorribile.
E, curiosamente, questa ambiziosa “tendenza morale” si armonizza
splendidamente con la necessità di implementare una serie di disposizioni
dall’alto, “riforme urgenti e inderogabili”, predecise al di fuori di qualunque
pubblica discussione o consapevolezza pubblica.
Ed eccoci qui, cari amici. Quando commentate ancora di questi eventi in
termini di “distrazione” e “marginalità” non posso fare a meno di chiedermi e
chiedervi:
Se riescono a silenziare o denigrare ogni informazione sgradita, se
riescono a far sparire nel nulla mesi di manifestazioni settimanali sostenute
da (almeno) un quinto della popolazione italiana, ecco, vi prego, spiegatemi,
cosa pensate succederà quando alzerete la manina per protestare che vi hanno
incenerito la pensione?
Quando vi trasformeranno sotto il culo definitivamente scuole e università
in un outsourcing di Confindustria?
Credete che allora si inteneriranno perché i vostri argomenti sì che sono
seri?
Pensate che allora sarà giunto il momento di farsi sentire?
Come?
Dove?
Da chi?
Nessun commento:
Posta un commento