CR:
Buongiorno Vanessa,
ti volevo coinvolgere in una conversazione a due sul libro di Luca Ricolfi
e Paola Mastrocola che s’intitola Il danno scolastico. Tu sei una
storica contemporaneista, ti sei occupata e ti stai occupando della storia
della scuola democratica in Italia da diversi anni – hai scritto un libro su
Don Lorenzo Milani e Tullio De Mauro, un altro su Rodari, da poco uno per
ragazzi proprio sulla storia della scuola, ne stai preparando uno su Mario
Lodi. Ti coinvolgo perché questo testo di Ricolfi e Mastrocola, l’hai visto, è
un attacco esplicito alla scuola democratica di ieri e ancora più violento alla
scuola democratica di oggi.
Per te come per me e per molti che hanno studiato e sono stati coinvolti in
queste battaglie, è un testo che fa letteralmente specie. Ogni pagina lascia
interdetti, per la quantità di informazioni false, di argomentazioni fallaci, e
per l’ideologia reazionaria che trasuda. Dall’altra parte, proprio perché è un
libro che è uscito per una casa editrice importante e che sta avendo un buon
riscontro, penso sia giusto non liquidarlo ma prenderlo sul serio, entrando nel
merito dei vari discorsi sulla scuola che si susseguono.
Veniamo al metodo che Ricolfi e Mastrocola adottano. Entrambi scelgono di
mettere al centro la propria esperienza personale, e di valutare la storia e il
presente della scuola italiana con quel metro. Per me è abbastanza incredibile
questo modus operandi. Una delle prime cose che provo a insegnare in classe è
proprio quella di evitare le generalizzazioni, l’opinionismo. Sono un
insegnante di filosofia e storia, e credo che in definitiva il metodo storico e
quello filosofico consistano proprio in questo: saper passare dalle opinioni,
dalle impressioni alle buone argomentazioni.
Invece nel libro di Ricolfi c’è il continuo ricorso a formule del tipo
“quel che osservo è qualcosa di più, che riesco a descrivere solo in modo
soggettivo, ma sapendo che molti colleghi (di materie difficili) vedono
esattamente quel che vedo io”, “Ed ecco il mio punto di vista soggettivo, ma
non troppo”, “Ma i ricordi più vividi che ho di quegli anni non sono quelli
oggettivi, ma sono gli stati d’animo”, “Di quel periodo, ricordo soprattutto
tre cose, una oggettiva, le altre due molto soggettive e private”, “La mia
sensazione nettissima, una sorta di certezza intuitiva”… E si potrebbe
continuare facilmente.
È difficile non notare quest’impostazione, che a un certo punto è tanto
evidente che per forza di cosa diventa rivendicata, cosa che per me ovviamente
non ne mitiga i forti limiti. Per me quest’impostazione ha effetti disastrosi.
E visto che Ricolfi e Mastrocola parlano di danno, anche per me l’effetto di
questa impostazione è un danno. Se pensiamo che i saperi scolastici stiano
vivendo una crisi di autorevolezza, questo modo di discutere di scuola è
terribile. Avvalorare il qualunquismo o uno spericolato soggettivismo, in un
contesto in cui invece abbiamo bisogno di dare credito ai dati e alla loro
analisi, alle bibliografie, alle inchieste sul campo, lo trovo particolarmente
deleterio. Mi sembra ancora più incredibile che questa mancanza di metodo venga
sostenuta da uno studioso come Luca Ricolfi che è un professore di sociologia e
che a capo di una fondazione intitolata a David Hume, il filosofo che –
potremmo dire – più di molti altri ci ha insegnato a diffidare delle
impressioni soggettive. Cosa pensi di questo? Lo trovi un sintomo di altro?
VR:
Buongiorno a te Christian, che dire, la tentazione di lasciar perdere, è
sempre dietro l’angolo di fronte a libri come questo, ma poi penso a quante
delle questioni sollevate da Ricolfi e Mastrocola fanno breccia nel cuore e
nella mente degli insegnanti “democratici” che mi dico vabbè, fermati e
ragionaci. Mi dico: non puoi occuparti di storia della scuola se non capisci
questo, perché ci deve essere una storia che ha portato persone che si
percepiscono come progressiste ad abbracciare argomenti reazionari e questa
storia va ricostruita. A partire dall’uso di quell’aggettivo, democratica, che
a me pare tanto importante quando riferito alla scuola (a me per non dire a
miliardi di persone da Dewey in poi) e che loro squalificano trasformandolo in
un sinonimo di permissiva quindi scadente (e davvero mi sono immaginata gli
editori dire: beh almeno in copertina scriviamo “progressista”).
Fu un’insegnante di un liceo classico di Roma a mettermi di fronte a questa
triste verità, che molte insegnanti che leggevano Repubblica e votavano a
sinistra non necessariamente credevano davvero nel fatto che la scuola dovesse
partecipare alle trasformazioni del mondo di cui, evidentemente, loro stesse
avevano beneficiato. Potevano, insomma, serenamente, fare bei discorsi sui
migranti, e sui salari, e sul femminismo, ma poi in classe comportarsi
esattamente come avevano visto fare dalle loro insegnanti nella scuola del
tempo che fu, con una linearità, una congruenza impressionante, quasi
filologica. Cito Gianni Rodari, tanto disprezzato da Paola Mastrocola, che pare
aver scritto questo pezzo pensando a lei: «si può essere, mettiamo,
“progressivi” in politica e “reazionari”, se si è insegnanti, a scuola. Si può
credere nella necessità che le classi lavoratrici si elevino fino alla
direzione dello Stato, nella necessità di educare in un certo modo il
sottoproletariato; e poi, trovandosi di fronte i figli dei lavoratori e i figli
dei sottoproletari, trattarli con gli schemi tradizionali della disciplina, del
dogmatismo, eccetera. Trasformare il proprio lavoro per riuscire a svolgerlo in
modo coerente con i propri princìpi richiede sforzi». Ecco, questo è
esattamente quello che fanno Ricolfi e Mastrocola nel loro libro: predicano la
necessità di educare il “figlio dell’idraulico” (non mi soffermo su quanto sia
una definizione ridicola in termini analitici) e rimpiangono gli schemi
tradizionali della disciplina e del dogmatismo.
Questo è quello che ho visto “con i miei occhi”, che però non basta a
impostare un discorso che esca dal salotto di casa mia. Studiando, invece, ho
scoperto che questo è uno dei temi di fondo della storia culturale della
scuola, fin dai tempi dell’unità d’Italia: da un lato ci sono gli insegnanti
che malgrado i tempi passino replicano il modello che hanno conosciuto da
allievi pensando che sia il migliore, forse semplicemente per il fatto che
erano giovani, come scriveva Giacomo Leopardi del padre. Dall’altro insegnanti
(e pedagogisti, filosofi, scrittori) che fanno loro notare che forse al cuore
della perenne crisi della scuola c’è proprio questa incapacità di elaborare
criticamente il tempo che passa. Questo vale da sempre soprattutto per gli
insegnanti della secondaria, di primo e secondo grado, perché educati a pensare
che per insegnare bene una materia basta conoscerla per cui replicano la prima bella
lezione a cui hanno assistito nella loro vita di studenti. Mi viene in mente
quanto scriveva Giuseppe Tamagnini, che in quel momento insegnava all’Istituto
magistrale, nel 1952: “potremmo paragonare l’insegnamento a un lungo corridoio
silenzioso freddo, separato dal mondo esterno da spesse mura sorde ad ogni
voce, in fondo al quale, i fortunati che vi arrivano, trovano una robusta sedia
in cui sedere, forse un po’ trafelati ma con la seria convinzione di essere
arrivati, e con la serena coscienza di aver appreso tutto quanto era possibile
e necessario apprendere. E così, compresi del dovere della loro nobile missione
che si esplica col rimanere seduti, immobili per non turbare la celeste quiete
regnante in quel beato mondo, iniziano la loro carriera. E meticolosamente
immobili, la portano avanti: essere senza vita in un mondo morto; il mondo dei
vivi e sorpassati da un pezzo ma essi non se ne sono accorti”. Ecco.
Torno quindi alla tua domanda: i due demoliscono, a loro dire, la
cosiddetta scuola democratica, come? Sostenendo una tesi che potremmo definire
la scoperta dell’acqua calda: la scuola di scarsa qualità danneggia le persone
più fragili. C’è un’espressione romana che non posso scrivere ma che sarebbe
perfetta per rispondere. Poi, per dimostrarlo, si lanciano in uno uso
spericolato di esempi storici tipo: “i nostri insegnanti svolgevano programmi
giganteschi. Forse è per questo che tutti noi siamo usciti con quella che oggi
chiameremmo una buona “preparazione di base”, nonché con numerose “competenze”,
tipo articolare un discorso orale, fare i temi, tradurre… Siccome non eravamo
una generazione di persone geniali o in vario modo straordinarie, bisognerebbe
capire perché uscivamo così ben preparati, dalla scuola media”. Quali dati ha
per dire che le persone uscissero “così preparate”? Nessuno. Uscivano semmai, e
poi arrivavano a ricoprire posti importanti, alcuni, ovviamente, magari tutti
gli amici loro, ma possibile che una persona che usa così con nonchalance la
categoria di generazione allora non faccia alcun riferimento alla spinta del
boom, alle condizioni materiali che hanno fatto sì che questa generazione non
geniale stia ancora qui a spiegarci che loro sono stati più bravi di noi e se
non ce l’abbiamo fatta è perché la nostra scuola è stata più facile. Chiudo
ricordando un testo a cui partecipa anche il giovane Ricolfi, un’inchiesta IARD
sui giovani che veniva replicata ogni dieci anni a partire dagli anni Ottanta.
Bene, lì possiamo leggere che a partire dagli anni 70 la fiammata sperimentale,
che coinvolge comunque pochissime realtà, finisce nella secondaria e c’è un
ritorno al rigore dentro la scuola, ritorno che viene sottolineato da molti.
Forse sarebbe il caso di rileggere questi saggi e ragionare seriamente su cosa
sia successo dopo, in classe, per capire che forse all’origine di tanti mali ci
sono le mancate riforme e non le riforme. E qui arriviamo al cuore del
problema: la totale incomprensione, per essere indulgente, perché a volte credo
sia la totale ignoranza, della storia della pedagogia e della didattica nel
corso del 900. Non si può davvero credere che se una ragazza va male a un esame
il problema vada ricercato nella scuola “inclusiva” che l’avrebbe privata, come
un gattino cieco, di costruirsi le basi cognitive. Non ci credo che si possa
scrivere una cosa così. Mi aiuti a ragionare su questa cosa?
CR:
Allora, intanto questa metafora va spiegata. Lo faccio con le parole del
libro:
“Ma ricordavo anche una seconda cosa, un passaggio nel quale raccontava la
storia dei “gattini ciechi”, una serie di esperimenti fondamentali di due altri
neuroscienziati (entrambi Nobel), Hubel e Wiesel, condotti negli anni sessanta.
Ed ecco il nucleo di quegli esperimenti. Alla nascita, al gattino viene cucita
una palpebra, bloccando così l’afflusso di informazioni dal mondo esterno in
direzione dell’occhio artificialmente chiuso. Dopo tre settimane la palpebra
viene liberata, il gattino può aprire l’occhio, ma il suo occhio non funziona.
E non inizierà a funzionare mai, perché il suo apparato visivo non ha avuto
l’opportunità di strutturarsi al momento giusto, ossia in quell’unico periodo –
le prime tre settimane di vita – in cui il sistema nervoso che presiede alla
visione è programmato per auto-strutturarsi. In breve: la vista del gattino non
ha fatto esperienza del mondo esterno nel periodo critico, ossia nell’unico
periodo in cui poteva farla con successo”.
Questa metafora viene da Ricolfi associata all’insuccesso formativo di una
sua studentessa presa a campione, che Ricolfi chiama Martina:
“Ed ecco la risposta alla nostra domanda: quel che è successo a Martina
assomiglia maledettamente a quel che è successo ai gattini di Hubel e Wiesel.
Se adesso, anche con tutta la buona volontà e l’impegno possibili, le è
estremamente difficile recuperare, è perché anche in campo cognitivo i periodi
critici esistono. Certe capacità e abitudini, dalle più semplici (tenere un
quaderno ordinato) alle più complesse (manipolare i simboli di un linguaggio
artificiale) non si possono imparare a qualsiasi età e in qualsiasi
successione”.
Questo discorso, insomma, serve a Ricolfi a sostenere la tesi che
l’inadeguata preparazione di alcuni studenti all’università o alle superiori
sia un prodotto di una mancanza incolmabile in un’età cruciale dello sviluppo.
Anche qui non si sa da dove cominciare. Primo, gli esperimenti di Hubel e
Wiesel sono appunto datati a sessant’anni fa. Le conoscenze e il dibattito
delle neuroscienze chiaramente ha accolto le loro importanti scoperte sulla
corteccia cerebrale, e ha continuato a trovare conferme e disconferme.
Secondo, la concezione che Ricolfi ha della mente davvero esprime un
pregiudizio irricevibile per chi si occupa di sviluppo cognitivo.
Ti cito un altro passaggio:
“Ed ecco il mio punto di vista soggettivo, ma non troppo. Quando, dopo
averla ascoltata (non) rispondere alle mie domande, dico a Martina di tornare
un’altra volta, e per incoraggiarla la sprono a studiare di più, a venire ai seminari,
ad approfittare delle ripetizioni gratuite che sono pronto a darle, e concludo
che se si impegna può farcela, ebbene quando faccio tutto questo, sento sì che
non posso fare nulla di diverso, ma sento anche che non penso veramente quello
che dico. La mia sensazione nettissima, una sorta di certezza intuitiva, è che
Martina non ce la farà mai. Può studiare quanto vuole, impegnarsi allo spasimo,
ma il suo software mentale ha limiti intrinseci, strutturali, probabilmente
definitivi”.
Parlare di “software mentale” è davvero una delle modalità riduttivistiche
più vili per chi oggi si occupa di neuroscienza.
Terzo, anche nella relazione tra neuroscienze e pedagogia, le cose che dice
Ricolfi sono irricevibili. Se pensiamo soltanto a tutta la pedagogia che lavora
sull’inclusione, sulla formazione in itinere, sulla formazione degli adulti,
insomma se pensiamo alla pedagogia tutta, non possiamo provare pena per una
affermazione come “La mia sensazione nettissima, una sorta di certezza
intuitiva, è che Martina non ce la farà mai. Può studiare quanto vuole,
impegnarsi allo spasimo, ma il suo software mentale ha limiti intrinseci,
strutturali, probabilmente definitivi”.
Sono recentemente stato a un convegno di insegnanti di sostegno, che stanno
diventando una porzione sempre più consistente della classe docente. Erano loro
più allibiti e sconcertati di altri per il successo che può avere un testo
come Il danno scolastico.
Ma dopo la pena, viene la rabbia. Perché è chiaro che Ricolfi scriva quelle
cose esimendosi da un compito fondamentale come studioso e professore: quello
di aggiornarsi. La sua competenza sulla pedagogia e la didattica si limita al
sentito dire o a che cose che ha casualmente imparato nella sua esperienza di
discente o di docente. La sua storia scolastica è stata probabilmente una
storia più fortunata di quella di Martina, non per le ragioni che Ricolfi
sostiene, ma proprio per le opposte: ossia che quella scuola democratica, ossia
di qualità per tutti, oggi è invece rischia spesso di essere un privilegio per
pochi.
Ma qui andiamo troppo in là, e ti rilancio la palla, facendo una domanda
alla storica: quale storia si potrebbe contrapporre alla ricostruzione che
fanno Mastrocola e Ricolfi? Hai visto che tra le note l’unico libro che citano
è La scuola degli italiani di Scotto di Luzio, un riferimento
per tutti reazionari che si spacciano per progressisti – anche Galli Della
Loggia lo cita a piene mani nell’Aula vuota?
VR:
E meno male che almeno lo citano in nota. La bibliografia sulla storia della
scuola nell’Italia del dopoguerra è sterminata ma i due autori di questo saggio
la ignorano completamente e si appoggiano a un testo che dedica al secondo
dopoguerra pagine a dire poco sommarie. Ma il riferimento a Scotto di Luzio è
puramente formale, serve per dire: ehi, abbiamo letto una storia della scuola.
Del resto che la storia non sia una materia che ha mai interessato Paolo
Mastrocola è lei stessa a dircelo quando, con un candore encomiabile, ricorda
come all’università la liberalizzazione dei piani di studio le abbia concesso
di fare solo esami di letteratura e nemmeno uno di storia. Beh, si vede. Io per
dire che ho come lei scelto gli esami ho comunque inserito delle letterature
italiane, delle filosofie, non per insegnare ma perché mi piacevano. Però poi
dopo quando ho voluto occuparmi di letteratura, penso per dire alla biografia
di Gianni Rodari che ho scritto, ho studiato, ho chiesto aiuto, ho messo in
crisi i paradigmi stessi della mia disciplina. Cosa che a lei evidentemente non
fa perché non si è mai posta il problema di come farlo. Le cose che scrive,
ancora una volta su don Milani, sono per esempio sbagliate, sbagliato
accostarlo a Pasolini per esempio, proprio si vede che conosce don Milani solo
per sentito dire. Ma torniamo a quello che possiamo definire i fondamenti
di una disciplina come la storia: non basta la memoria personale per dire che
la scuola di ieri era meglio e quella di oggi fa schifo. Potremmo trovare
migliaia di esempi che proprio fondati sulla memoria personale ci dicono il
contrario. Invece la coppia Mastrocola Ricolfi usa la storia così, come una
serie di impressioni da non dimostrare, assolutamente autosufficienti.
L’esempio più emblematico lo traggo da Ricolfi (ma sono decine quelli che
potrei fare): a un certo punto il sociologo torinese ricorda di quando suo
fratello Marco fu tolto in tutta fretta dalle elementari. “Ma Marco, di due
anni più giovane di me, non era “avanti di un anno” dall’inizio, ossia dalla
prima elementare. Anche lui, come me, era entrato in prima elementare in modo
regolare, ossia a sei anni compiuti. Divenne “avanti di un anno”
all’improvviso, a nove anni. E la causa fu la zia Ebe. Zia di mia madre, e
austera preside di una scuola media di un comune della cintura di Torino. Era
un tempo in cui le famiglie, anche se agiate come la mia, non facevano di testa
loro, guidate solo dalle mode e convenienze del momento. Allora si dava molto
retta alle persone più autorevoli della propria cerchia. Non autorevoli in
generale, ma autorevoli in un dato campo, quello su cui occorreva prendere una
determinata decisione. La zia Ebe, in materia di scuola, era la nostra autorità
indiscussa. E la zia Ebe, allora (doveva essere il 1961), fu molto chiara:
consigliò ai miei genitori di far saltare la quinta elementare a mio fratello,
di prepararlo privatamente all’esame di ammissione alle medie (che al tempo era
un vero esame) e iscriverlo in prima media con un anno di anticipo, saltando la
quinta elementare. Così mio fratello, che era più giovane di me e decisamente più
portato agli studi, si preparò, passò l’esame di ammissione e iniziò le scuole
medie con un anno di anticipo”.
Questo passo è bellissimo: un’etnografia di rara potenza su una famiglia
benestante torinese negli anni del boom. Ora bisogna considerare che nello
stesso momento a Torino sta accadendo qualcosa di impensabile fino a pochi anni
prima: l’emigrazione, che rivoluziona il sistema scolastico fino alle sue
fondamenta. Una maestra di Torino intervistata nel 1961 da Ugo Zatterin ci
riporta perfettamente a quelle che sono le ansie dei torinesi e delle loro
famiglie di fronte a questa invasione dei meridionali che con la media
unificata finiranno fino ai 14 anni sugli stessi banchi dei figli. Ricolfi non
lo dice forse non lo ricorda, ma questo contesto fa da sfondo alle
preoccupazioni della sua zia. Se c’è un tema fondamentale da ripensare nella
storia della scuola è quanto la riforma delle scuole medie sia stata necessaria
alle aree industriali del paese per normalizzare una situazione ingestibile
cioè la mancanza di una manodopera specializzata, ma poi, per una eterogenesi
dei fini che ha a che vedere con la potenza del sistema democratico, quella
nuova generazione di figli di immigrati istruiti sono stati i primi a
ribellarsi esplicitamente a un sistema di istruzione che recava ancora in sé
malgrado le riforme l’impronta della riforma Casati (manco Gentile come ebbe a
scrivere Santoni Rugiu fin dal 1959). Quindi sì, la scuola media riformata
toglie qualcosa ai fratelli Ricolfi: la certezza di un futuro in cui ci saranno
solo loro a giocare la partita del “merito”. Ma se toglie queste certezze a
loro in compenso dà tanto a chi non ha mai avuto niente: non a caso, dopo
qualche anno, la moglie Paola, figlia di una sarta e di un emigrato abruzzese,
frequenterà felice e pienamente soddisfatta quelle medie che fanno schifo alla
zia Ebe, diventando una scrittrice e sposando il “delfino” Ricolfi. Perché la
società è cambiata e la media unificata è diventata migliore di quella che lui
ha frequentato proprio secondo i parametri che la coppia individua. Con
buona pace della zia Ebe.
CR:
La parte in cui Mastrocola racconta la sua formazione e a partire da quella
riflette sulla formazione degli insegnanti è francamente vergognosa. Cito dei
brani:
“Nessuno pensava al dopo, al lavoro che, con quegli studi, avremmo
ottenuto. Eravamo paghi di quegli studi, totalmente immersi, come se non ci
fosse un fine. Questa assenza di finalità, di concretezza, era l’aria che
respiravamo. Un tempo sospeso.
Così, studiai solo letteratura, e poco altro. Mai un esame di storia,
neanche l’ombra. Storia antica, storia medievale, storia contemporanea: nulla”.
“Ho sempre pensato che la cattedra di lettere sia una mostruosità
inconcepibile. Non si possono insegnare quattro materie così diverse e, per
molti versi, incompatibili. Chi studia letteratura non ha la testa per studiare
storia, o geografia. E viceversa. “O l’una o l’altra. Dovrebbero pensarci
seriamente, quelli del ministero. È un danno grave che si fa ai ragazzi.
Bisognerebbe che un insegnante insegnasse quel che ama, che ha studiato molto e
che, quindi, è capace di insegnare meglio. Mi sembrerebbe la prima riforma da
fare, invece di tanti corsi di formazione che insegnano a insegnare. Chi si
laurea in letteratura insegni letteratura, chi si laurea in storia insegni
storia, chi si laurea in geografia insegni geografia. È così difficile?”
“Ero fiera, però, degli studi che avevo fatto, e grata ai maestri che avevo
avuto. Non avrei mai barattato la Risset con le guerre puniche: la prima mi
aveva regalato la felicità, alle seconde potevo arrivarci comunque, studiando
la sera”.
C’è poi anche la parte sulla sua confessione della sua resistenza
all’aggiornamento professionale:
“Non so perché si arrivò a questo. Ricordo che grandi intellettuali teorizzarono
l’inconcludenza e insensatezza dei temi. Ci barcamenammo tutti, ognuno come
poté. E ci adeguammo, anche lì senza combattere. Io, nel mio piccolo, continuai
a dare temi. Senza fotocopie e con titoli di una riga, massimo due: Le mie
vacanze, La peste nei Promessi sposi, Cade la pioggia, Dialogo con mia nonna,
La libertà nell’era di internet, Dove vanno le mosche d’inverno… Fu una
ribellione silenziosa ma caparbia, la mia. Credo non se ne accorse mai
nessuno.”
C’è in queste parole, rivendicata, una tenacia nel non mettersi in
discussione mai. A me sembra davvero incredibile, che una professoressa che si
professa un’intellettuale possa immaginare che il suo metodo di lavoro possa
restare inalterato mentre il mondo intorno cambia. Certo, la questione non è
Mastrocola, ma il consenso che queste tesi trovano. Perché accade? Per semplice
pigrizia della classe docente? Perché le riforme che Mastrocola avversa, quella
Berlinguer in particolare, non hanno avuto gli esiti che immaginavano?
VR:
In questo senso abbraccio pienamente quanto ha scritto Roberto Maragliano:
questo libro dà voce alla parte più oscura dell’inconscio scolastico, alla
frustrazione senza ragionamento che colpisce chi, da sempre, si sente
svalutato, messo in discussione socialmente, bistrattato e come lo fa?
prendendola con le riforme, attribuendo a un elemento esterno le ragioni del
proprio fallimento didattico. Ma allo stesso tempo è anche “la morte
dell’umanesimo. Si nasconde sotto calcoli e statistiche, tende a semplificare
anziché sondare la complessità”, una riflessione di Stefano Modeo, che ci
obbliga a ragionare sul ruolo degli intellettuali oggi.
Per quanto riguarda il primo punto quello che ho capito è che a partire
dagli anni Novanta il termine riforma, un po’ come il termine democratico, non
gode di buona stampa. Persino Claudio Giunta ha scritto il suo ultimo libro per
attaccare un provvedimento legislativo che riporta l’educazione civica al
centro di tutte le materie, anch’egli ribaltando i termini del problema: gli
insegnanti non possono insegnare bene per colpa di una legge. Niente di strano,
le riforme possono essere anche terribili e il riformismo di per sé non
significa niente. Le riforme che hanno investito la scuola sono state numerose,
contraddittorie, segnate dal cambio dei governi in modo drammatico, per cui
quello che era stato progettato dalla riforma Berlinguer è stato svuotato dalla
Gelmini, trasformando alcuni provvedimenti in gusci vuoti. Non parliamo della
buona scuola che ha catalizzato per un sacco di tempo l’attenzione di tutti, un
disastro da tutti i punti di vista. Non abbiamo modo di entrare nel merito qui
anche se sarebbe opportuno farlo. limitiamoci a ragionare su quello che scrive
Paola Mastrocola al riguardo: “Il discrimine è l’anno 2000. Dal 1985 al 1999,
avevo visto un liceo che non era poi così dissimile da quello che avevo fatto
io, forse più morbido, sempre più liquido, anzi, liquefatto, ma sostanzialmente
quello. Arriva il 2000 e di colpo la scuola cambia, non sarà mai più quella di prima.
Io osservo la mutazione, per quindici anni, fino al 2015. Osservo preoccupata,
disperata, incredula. Denuncio la situazione, con saggi, romanzi, articoli.
Inascoltata, ignorata e, più spesso, accusata di conservatorismo ed elitarismo,
additata come retrograda e reazionaria. Nel 2015 scelgo di lasciare la scuola.
Quindi non ho “visto” più nulla con i miei occhi, e nulla posso raccontare da
allora in poi di autobiografico. Cos’è successo nel 2000? Semplice: la riforma
Luigi Berlinguer. Per non farla tanto lunga, direi che entrarono allora tre
ingredienti decisivi: i progetti extracurricolari, la valutazione oggettiva (i
test), e il diritto al successo formativo. Cambiava la sostanza: la scuola
diventava un’impresa, si agganciava al mondo del lavoro, o meglio, tentava
goffamente di assumere i valori e i criteri della produzione e del mercato”.
Ora, se uno arrivasse da un altro paese potrebbe davvero pensare che la
situazione è questa. Che le nostre scuole (dalle elementari alle superiori)
siano il regno delle competenze, dei banchi messi a cerchio, della flipped
classroom, di tutte quelle diavolerie che altri definiscono la fuffa
pedagogica. Beh non è vero. Come scrive un insegnante e dirigente scolastico in
un bel post su FB: “Voi dite che la vostra scuola oggi è morta. Ha ceduto il
passo a progressisti, alla scuola azienda, dove le competenze si riducono solo
a saper fare, avvitare etc. Ma ne siete certi? No perché io fino al 2019 ho
insegnato matematica e fisica nei licei, e ho visto proprio la vostra scuola,
quella di 60 anni fa. Ho visto banchi in posizioni frontali. Ho visto la
cattedra. Ho visto pagine e pagine di appunti di carta La Scuola delle
competenze? Tranquilli, oggi pochissimi lavorano per competenze, perché forse è
difficile o perché nessuno glielo ha mai insegnato. O forse perché è difficile
lavorare per competenze. Insomma, tranquilli, la scuola di oggi non è cambiata
poi così tanto rispetto alla scuola di 50 anni fa. E se un docente, se lei,
vuole fare lezione frontale tutti i giorni o zitti e buoni a fare parafrasi,
potete farlo! Nessuno vi impone nulla”. Punto. Ed è sempre stato così. Sempre,
fin dai tempi della tanto vituperata riforma delle medie, ma pure prima quando
furono approvati i programmi Ermini, chi voleva ha continuato a fare scuola
come nel ventennio fin quando non è morto. Nel bel libro di Dei e
Barbagli Le vestali della classe media di cui sicuramente
Ricolfi avrà sentito parlare ci sono le interviste alle insegnanti che mettono
in luce quanto la resistenza dentro l’aula sia un fattore determinante nella
riuscita di una riforma, in quel caso di quelle delle medie. E se la scuola
resiste, e per scuola in questo caso intendo gli insegnanti, c’è poco da fare.
Al limite diminuirà il numero dei bocciati, ma poi in classe la didattica, sarà
esattamente immobile, specchio di quel corridoio freddo di cui parlava
Tamagnini per cui sì la qualità scolastica sarà davvero peggiorata e il danno
scolastico sarà stato fatto.
Chiuderei sulla questione dei numeri però: perché ovviamente è troppo facile
dire che un libro che riporta solo impressioni personali è un libro inutile.
Giustamente gli autori alla fine riportano i numeri! Buffo no? Tanto l’elogio
della funzione potremmo diresalvifica della parafrasi è più forte tanto si deve
ricorrere ai numeri per dimostrare una tesi, segno che la capacità argomentiva
vacilla, come giustamente mi fa notareStefano Modeo, insegnante anche lui,
parlando di fine dell’umanesimo. Su questo chiederei un parere a chi fa questo
di mestiere, cioè lavora sulla dispersione scolastica in termini qualitativi e
quantitativi.
CR:
Sulla dispersione scolastica non c’è una riflessione adeguata nel discorso
pubblico. Anche per questo un libro come Il danno scolastico trova
un suo pubblico. Perché dà una risposta semplice e sbagliata a un problema
invece serio e complesso. In Italia la dispersione scolastica è al 13,1 per
cento secondo l’ultimo rilevamento del 2020. Vuol dire che un ragazzo su sette
non finisce le scuole superiori. Per me è il problema più grave che esista in Italia,
che è ancora agli ultimi posti in Europa ovviamente in questa classifica.
Quali sono le ragioni della dispersione scolastica. Gli studi che noi
abbiamo ci dicono che ovviamente questo dato riflette una crisi sociale che si
è aggravata dal 2008, un definanziamento della scuola, e un radicarsi delle
disuguaglianze. Quello sui finanziamenti alla scuola sembra una questione che
per Ricolfi e Mastrocola è problema marginale. Nel 1971 quasi un quinto del Pil
era investito in istruzione, scuola, cultura e ricerca: chiaramente occorre
considerare che la percentuale di bambini e ragazzi figli del boom era molto
alta, e che oggi l’Italia è un paese invecchiato. Ma nonostante l’Italia sia
comunque un paese più ricco e più alfabetizzato, quella percentuale è drasticamente
calata, vicino al 6 o 7 per cento. C’è stato un crollo verticale dagli anni di
Berlusconi in poi. Come è possibile che questi numeri non interessino affatto
alla coppia? Quando Mastrocola scrive che con la riforma Berlinguer ha visto un
abbassamento del livello medio della scuola italiana, tace del fatto che il
danno principale è stato compiuto da chi ha distrutto quella scuola democratica
e di qualità di cui lei potuto fruire da studentessa e da professoressa.
Ma c’è una premessa fallace in più che Ricolfi e Mastrocola evocano. L’idea
che oggi ci siano troppe persone che si sono diplomate e laureate facilmente.
Questo è un refrain dell’intera storia della nostra scuola: da fine ‘800 agli
anni settanta del secolo scorso si è parlato, con toni ovviamente classisti, di
questa massa di neocolti che aggrediscono le élite. Leggiamo l’introduzione di
Marcello Dei a questo testo fantastico che è L’immobilità sociale.
Stratificazione sociale e sistemi scolastici.
“Per presentare i saggi di questa parte possiamo prendere spunto da alcune
riflessioni sulla situazione di crisi in cui la scuola italiana (e non solo
italiana) si dibatte ormai da diversi anni che si manifesta nelle forme di uno
smisurato sovradimensionamento della produzione di diplomi e lauree. Trascurando
eventuali sindromi schizoidi per cui la gente i genitori potrebbero desiderare
una drastica limitazione dell’istruzione, ma per i figli del vicino e non per i
propri, la richiesta di un ridimensionamento del flusso di diplomati e dei
laureati e generale e pressante. Anche nei sospiri che tante parti si tirano
l’attesa di una riforma della secondaria superiore che non arriva mai non è
difficile percepire la frustrazione di un’aspettativa, spesso inconfessata,
riposta dalla riforma che qualunque siano i suoi contenuti e suoi obiettivi,
serva in concreto a deflazionare i titoli di studio, a ridare credito alle
“credenziali educative”.”
La cosa che fa ridere insomma è che c’erano degli intellettuali, degli
studiosi, dei politici, oltre a molti genitori e adulti in generali, che al
tempo della formazione di Ricolfi e Mastrocola si lamentavano che c’erano
troppi diplomati e laureati, e che la scuola sarebbe dovuta essere più dura e
selezionare di più, magari lasciando fuori Ricolfi e Mastrocola.
I sistemi scolastici sono sempre un campo di battaglia, tra classi
privilegiate e subalterni. E oggi il libro di Ricolfi e Mastrocola sembra
proprio avere questa funzione: immaginare una scuola ancora più filtrante e
classista. Che quest’operazione sia fatta in buona fede o in cattiva fede, non
so qual è l’ipotesi peggiore. Recentemente mi segnalavi un intervento di
Federico Batini che analizzava le altre fallacie dell’argomentazione. Le sue
parole le lascerei come chiusura proprio per mostrare come esiste un dibattito
serio su questi temi, e vorremmo occuparci e studiare quello piuttosto che
essere costretti a fare le pulci a questi libri pieni di inesattezze,
mediocrità e strali reazionari.
“La scuola di oggi come la racconta il libro, semplicemente non esiste.
Esistono molte scuole, diverse tra loro, anche negli stessi territori e dentro
le scuole esistono sezioni e classi altrettanto diverse tra loro. Stabilire
come e quanto una scuola incida sul destino formativo e futuro di qualcuno è
molto difficile e richiede, quando lo si vuole fare, di usare misurazioni
plurali e approfondite, conoscere i punti di partenza e di arrivo e condividere
il significato di tutti i costrutti in gioco (cosa significa “successo”).
Tuttavia, come si vede dal consenso e dai commenti ricevuti sui social, in
gruppi con migliaia di insegnanti, se proprio dobbiamo generalizzare diremmo
che è più rappresentata ancora oggi la scuola della quale gli autori deplorano
la scomparsa, piuttosto che quella che rappresentano. Le indagini fondamentali
sulle pratiche didattiche che raccolgono il punto di vista di migliaia di
insegnanti (come l’indagine Talis), lo confermano. Il fatto che la scuola
italiana, detto in sintesi, segua ancora, specie nelle secondarie, “il
programma” (rigorosamente con articolo determinativo) e utilizzi
prevalentemente la lezione frontale e la “didattica centrata sul libro di
testo”, anche. La tesi (perché non si presenta, realmente, come ipotesi)
centrale del libro è formulata in modo furbo. Gli autori non potevano sostenere
apertamente che il modello di scuola proposto, gentiliana, orientata a formare
una classe dirigente conservatrice, necessita di una limitazione dell’accesso a
pochi. La scelta è stata quindi quella di utilizzare un argomento che
storicamente è identitario proprio per quel filone della riflessione e ricerca
pedagogica e didattica (linguistica, psicologica, sociologica…) di impostazione
democratica al quale gli autori riconoscono, assieme alle evoluzioni normative,
la responsabilità del “degrado attuale”. La scuola di oggi non consente a chi
parte da più indietro di “recuperare” lo svantaggio. Il primo errore è,
ovviamente, pensare anche solo per un attimo che quella di una volta, invece,
lo facesse. Dire che stiamo peggio di un tempo è un refrain facile e che
produce consenso, spesso è, però, falso. Indubbiamente il problema della
prevedibilità degli esiti sulla base dei punti di partenza è un problema reale.
Il problema è che questo è il grosso limite proprio di quella scuola della
quale gli autori invocano il ritorno (in realtà viva e vegeta) e non l’effetto
di una didattica oggi tutta votata a favorire il successo di tutti abbassando
le attese come gli autori sostengono. La scuola insomma, spesso, non riesce,
suo malgrado, a ridurre le differenze e, in alcuni casi (per esempio nella
scuola “selettiva” e “seria” dei “mieitempi”) finisce per amplificarle, ma non
le produce, non ne è all’origine. L’origine sta nello svantaggio determinato
dall’ingiustizia sociale. A volte succede persino di confondere cause ed
effetti”.
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