Il
Re Ombra, tradotto da Anna Nadotti, è un libro di memoria, testimonianza, resistenza
e ci mette davanti al peccato originale della storia dell’umanità,
non la leggenda della mela di Eva e del serpente.
Il peccato originale della storia
dell’umanità è il colonialismo, che infiniti lutti addusse ai popoli dannati della
terra.
Il romanzo di Maaza
Mengiste fa vivere dei personaggi, delle persone, che non sono perfetti, certo,
ma ognuno è da una parte della Storia, chi dalla parte degli oppressori, chi
dalla parte degli oppressi, non ci sono vie di mezzo, c’è chi sta dalla parte
degli assassini seriali, e chi dalla parte di chi uccide per difendersi.
La narrazione del colonialismo diffusa dai colonizzatori è
quella di disinteressati e generosi popoli che portavano la civiltà ai selvaggi,
ma questa narrazione si è da subito rivelata insostenibile e falsa.
La grandezza del romanzo di Maaza Mengiste, oltre a quella di
raccontare una storia avvincente, dolorosa e ben scritta, sta anche nell’aver
portato alla luce il ruolo fondamentale delle donne nella Resistenza
all’invasore italiano (proprio quegli italiani brava gente).
Spesso si parla di riparazioni per i popoli colonizzati, uno dei modi può essere quello di far leggere, come si fa con I Promessi Sposi, alle studentesse e studenti delle scuole delle
nazioni dei colonizzatori (ex?), romanzi scritti dai colonizzati, o dai loro
discendenti.
In Italia Il Re Ombra, che è un gran libro, sarebbe perfetto
per le scuole (e non solo).
…Maaza Mengiste allestisce un doppio palcoscenico: sulle
alture, agli ordini del nobile Kidane, si organizzano gli irriducibili
combattenti etiopi, Aklilu, Seifu, Aster, Hirut, Fifi, la cuoca e innumerevoli
altri; mentre sul terrazzamento a strapiombo sulla valle il colonnello Fucelli
fa costruire la base italiana dove si fronteggiano opposte concezioni
dell’onore e del coraggio, e si sperimenta con inquietante coerenza come una forma
d’arte possa diventare un’arma. Nelle fotografie scattate da Ettore Navarra, il
soldato ebreo cui viene dato l’ordine sadico e pornografico di immortalare
esecuzioni e nudi femminili, leggiamo insieme talento e crudeltà, obbedienza e
indifferenza a se stesso. Incrinate, l’una e l’altra, dal coraggio intelligente
di Hirut, che si sottrae al ruolo di vittima del suo obiettivo per assumere
quello di testimone e poi custode di un archivio d’immagini che raccontano la
Storia e la rettificano. Anna Nadotti
Il re ombra di Maaza Mengiste (The Shadow King, 2019,
vincitore per la narrativa del premio The Bridge nel 2019, finalista del Booker
Prize 2020), è un romanzo storico ambientato durante gli anni dell’occupazione
italiana in Etiopia (1935-1941), con l’eccezione del Prologo e
dell’Epilogo che si svolgono nel 1974, subito prima della
destituzione dell’imperatore etiope Hailé Selassié e dell’insediamento del
governo socialista del Derg. Il re ombra è un romanzo sulla
memoria, su chi ha il diritto e il potere di ricordare e di costruire processi
di memorializzazione, ma anche su chi ha il diritto di dimenticare e di
rimuovere esperienze traumatiche collettive (come la guerra) e personali (come
la violenza sessuale, presentata nel romanzo come una pratica socialmente
accettata). Il re ombra narra della resistenza etiope all’invasione
italiana, cominciata attraverso l’uso delle parole prima ancora che delle armi, mediante l’atto deliberato di pronunciare in maniera errata
il nome del duce, mettendo in tal modo in atto un rifiuto di riconoscere la sua
autorità: “Mussoloni: quella pronuncia volutamente sbagliata si è diffusa nel
paese, dapprima quelli che non sapevano, poi quelli che invece sapevano”. Come
afferma Mengiste nella Nota dell’autrice e in alcune
interviste, la storia della resistenza etiope – che era riuscita a sconfiggere
il potente esercito fascista con poche armi obsolete grazie alla fierezza di un
popolo che aveva difeso la propria terra a rischio della vita – permea
l’immaginario collettivo etiope e costituisce una contronarrazione rispetto
alla storia coloniale ufficiale. L’operazione che compie Mengiste, però,
va un passo oltre: la scrittrice reinscrive la presenza delle donne in tale
narrazione, costantemente rimossa tanto dalla storia coloniale narrata dai
libri di storia italiana, quanto dalla controstoria anticoloniale etiope. Il processo che Mengiste intraprende implica la decostruzione
dell’opposizione binaria colonizzatore/colonizzato e mette in discussione
l’omogeneità di entrambe le categorie al proprio interno. Ciò vuol dire
contrastare la narrazione dello splendore dell’impero fascista, ma anche
dell’eroismo degli uomini etiopi che avevano sconfitto quell’impero, in quanto
la memorializzazione della loro vittoria era stata costruita sulla sistematica
cancellazione delle donne, delle loro vite, del loro coraggio, delle loro
lotte, dei loro corpi…
…L’io narrante si sposta, segue i
punti di vista. La narrazione principale è inframmezzata dal coro e dal
racconto a parole di fotografie di guerra. La fotografia riveste un ruolo
fondamentale per la propaganda fascista e per l’esibizione della forza, della
potenza.
Le
descrizioni dei non pochi momenti violenti (stupri, esecuzioni) sono corpose,
vivide e dettagliate. Colpiscono crude chi legge.
La
sensazione è quella di far parte di un’opera lirica, come l’Aida tanto ascoltata
dall’imperatore etiope.
Come già
avevamo detto quando lo abbiamo inserito nelle novità della settimana, tra i
meriti del libro – oltre a raccontare uno spaccato importantissimo della storia
coloniale, molto spesso dimenticato – c’è la scelta di non costruire una
narrazione totalmente univoca. Come abbiamo visto i punti di vista sono
molteplici, ma allo stesso tempo i personaggi non sono mai “buoni e cattivi”.
Ettore
Navarra è, sì, un conquistatore, ma anche un uomo dilaniato da un personale
conflitto e dal terrore di non rivedere mai più la sua famiglia; gli uomini
etiopi non sono tutti degli ottimi mariti e difensori della patria. Kidane, per
quanto sia il carismatico leader della rivolta, è un uomo violento,
prevaricatore, e abusa a più riprese di Hirut, la cui rabbia dà forza
all’intera storia e la sorregge.
…Il Re Ombra è
un libro di corpi, di cicatrici, di segni: i cinque segni sulla canna del
Wujigra, a indicare gli uomini uccisi da quel fucile; la cicatrice sul petto di
Fucelli, che poi viene quasi evirato dagli abissini in una scena dal sapore
freudiano; il corpo sinuoso e sensuale di Fifi, spia etiope che carpisce i
segreti dei nemici lavorando come prostituta per gli italiani più ricchi –
Fucelli compreso; la cicatrice nell’anima di Kidane, in cui è inciso il segno
di un figlio morto precocemente; il corpo di Tariku, che pende senza vita
dall’albero a cui è stato impiccato; il reticolato che corre “come una
brutta cicatrice” intorno alla prigione degli italiani; e la cicatrice di
Hirut, che le “pende sulla spalla come una collana rotta”. Tutti portano sul
corpo dei segni – i segni delle loro storie e i segni della Storia. Hirut alla
stazione di Addis Abeba nel 1974 “non ha voglia di ricordare”; aspetta Ettore
Navarra, che vorrebbe essere perdonato anche più di quanto non desideri riavere
la sua cassetta di metallo con le lettere e le fotografie. Alla fine, Hirut
capirà che della storia non ci si disfa, e che nessuna guerra finisce mai per
davvero; Ettore Navarra capirà che “ciò che viene forgiato nella memoria
s’infila nelle ossa e nei muscoli”. Heilé Selassié, il Re Sole travestito da Re
Ombra, scappa dall’Etiopia in rivolta, ma sa che “tutto ciò che abbiamo è ciò
che ricordiamo”; che “tutto ciò che è meritevole di vita è meritevole di
ricordo”; che nessuno può dimenticare nulla; che non si può permettere che i
morti restino senza nome; che non esiste nessun passato, perché “tutto accade
insieme”; e che le donne ci sono state e ci sono ora, nella Storia e non solo
nelle storie, alla luce e non solo nell’ombra.
…Lo stile non è dei più semplici, forse
perché il romanzo è volutamente non semplice: non si tratta della storia
lineare dell’invasione dell’Etiopia e della resistenza etiope; non si tratta
solo di raccontare le nefandezze fasciste (Indro Montanelli che aveva vissuto
in prima persona quell’evento giurò e spergiurò che nessun etiope era morto per
effetto dei gas lanciati dagli italiani) o di come è fuggito il negus Hailé
Selassié. È un romanzo polifonico, che alla voce delle donne etiopi (Aster,
Hirut, la cuoca ...) e degli ‘eroi’ etiopi (Kidane su tutti), intreccia i
deliri di Carlo Fucelli, i tormenti imperiali del negus e le paure di Ettore
Navarra. È un romanzo di memoria collettiva che porta alla consapevolezza
dell’identità di una persona, prima che di un popolo: Maaza ricorda come la sua
amata nonna aveva sfidato il marito e si era appropriata del suo fucile per
combattere al fianco dei soldati etiopi, come fa Aster nella finzione. È
soprattutto un romanzo crudo, fatto di corpi, ferite, soprusi ed umiliazioni:
la scatola di latta con le foto di Navarra che rappresentano i segni tangibili
dell’invasione, la scatola della vergogna per un uomo che aveva vissuto
quell’eccidio diventandone narratore e complice, è la protagonista vera
dell’intero racconto, perché porta i segni della caduta dell’essere umano, li
registra rendendoli immemorabili. Corpi soggiogati, corpi martoriati e
fucilati, impiccati, si alternano a paesaggi e scene di normale schiavitù. Si
tratta di un romanzo dai toni epici, proprio per la sua coralità e polifonia,
nella quale il lettore si perde e a volte fatica a ritrovarsi, anche perché è
un romanzo scomodo, intriso di vendetta, dove non c’è redenzione se non nelle
azioni dei personaggi. È un romanzo che si sottrae ad ogni giudizio morale, perché
soltanto chi ha vissuto quei fatti può davvero capirli. La testimonianza,
diretta ed indiretta di Maaza Mengiste, aiuta ad avere un’idea, sfuocata, di
quanto è accaduto, per chi un giorno vorrà davvero fare i conti col suo
passato.
…Ricalcando la storie di tutte le donne in guerra nel corso della
Storia umana, Hirut diventa perciò donna e nazione contesa, campo di battaglia
sul quale «idee distorte di mascolinità furono create». Senza negare la realtà
delle dinamiche di potere esercitate sul corpo delle donne, la Mengiste
costruisce la prospettiva femminile attraverso le diverse storie dei
personaggi, la genesi della loro rabbia, la voglia di riscatto e la lealtà alla
patria, restituendo loro la voce inascoltata, silenziata più che silente, alla
memoria storica.
L’aspetto più originale di quest’opera di Maaza
Mengiste è forse quello visuale: il romanzo nasce da una fotografia di ragazza
che l’autrice ha collezionato nel tempo e attorno al quale ha iniziato a
immaginare la giovane Hirut. La fotografia diventa così strumento di
storytelling ed è qui raccontata a parole. Non si trovano infatti fotografie
nel volume, se non due all’inizio e al termine, ma capitoli interi sono essi
stessi la descrizione di fotografie scattate dal soldato-fotografo ebreo Ettore
Navarra. Contenute in una cassetta metallica, sono in mano alla Hirut del 1974
che sta per incontrare Ettore e restituirgliele. È quindi Hirut che,
prendendole in mano una ad una, riesuma ed apre i capitoli della guerra e della
resistenza…
…Parallelamente, l’autrice ha dato
vita ad un archivio fotografico online della guerra italo-etiopica del 1935-41,
il Project3541, che raccoglie fotografie provenienti per lo più
da collezioni private, inclusa la sua, e presenta quindi una “prospettiva
intima” delle conseguenze globali e personali di questa guerra. La sua
consultazione a fine lettura, la arricchisce e completa, portando avanti in un
certo senso il lavoro di Maaza Mengiste tra i meandri intimi della storia
etiopica…
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