venerdì 4 febbraio 2022

Il Re Ombra - Maaza Mengiste


Il Re Ombra, tradotto da Anna Nadotti, è un libro di memoria, testimonianza, resistenza e ci mette davanti al peccato originale della storia dell’umanità, non la leggenda della mela di Eva e del serpente.

Il peccato originale della storia dell’umanità è il colonialismo, che infiniti lutti addusse ai popoli dannati della terra.

Il romanzo di Maaza Mengiste fa vivere dei personaggi, delle persone, che non sono perfetti, certo, ma ognuno è da una parte della Storia, chi dalla parte degli oppressori, chi dalla parte degli oppressi, non ci sono vie di mezzo, c’è chi sta dalla parte degli assassini seriali, e chi dalla parte di chi uccide per difendersi.

La narrazione del colonialismo diffusa dai colonizzatori è quella di disinteressati e generosi popoli che portavano la civiltà ai selvaggi, ma questa narrazione si è da subito rivelata insostenibile e falsa.

La grandezza del romanzo di Maaza Mengiste, oltre a quella di raccontare una storia avvincente, dolorosa e ben scritta, sta anche nell’aver portato alla luce il ruolo fondamentale delle donne nella Resistenza all’invasore italiano (proprio quegli italiani brava gente).

Spesso si parla di riparazioni per i popoli colonizzati, uno dei modi può essere quello di far leggere, come si fa con I Promessi Sposi, alle studentesse e studenti delle scuole delle nazioni dei colonizzatori (ex?), romanzi scritti dai colonizzati, o dai loro discendenti.

In Italia Il Re Ombra, che è un gran libro, sarebbe perfetto per le scuole (e non solo).

 

 

 

 

…Maaza Mengiste allestisce un doppio palcoscenico: sulle alture, agli ordini del nobile Kidane, si organizzano gli irriducibili combattenti etiopi, Aklilu, Seifu, Aster, Hirut, Fifi, la cuoca e innumerevoli altri; mentre sul terrazzamento a strapiombo sulla valle il colonnello Fucelli fa costruire la base italiana dove si fronteggiano opposte concezioni dell’onore e del coraggio, e si sperimenta con inquietante coerenza come una forma d’arte possa diventare un’arma. Nelle fotografie scattate da Ettore Navarra, il soldato ebreo cui viene dato l’ordine sadico e pornografico di immortalare esecuzioni e nudi femminili, leggiamo insieme talento e crudeltà, obbedienza e indifferenza a se stesso. Incrinate, l’una e l’altra, dal coraggio intelligente di Hirut, che si sottrae al ruolo di vittima del suo obiettivo per assumere quello di testimone e poi custode di un archivio d’immagini che raccontano la Storia e la rettificano. Anna Nadotti

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Il re ombra di Maaza Mengiste (The Shadow King, 2019, vincitore per la narrativa del premio The Bridge nel 2019, finalista del Booker Prize 2020), è un romanzo storico ambientato durante gli anni dell’occupazione italiana in Etiopia (1935-1941), con l’eccezione del Prologo e dell’Epilogo che si svolgono nel 1974, subito prima della destituzione dell’imperatore etiope Hailé Selassié e dell’insediamento del governo socialista del Derg. Il re ombra è un romanzo sulla memoria, su chi ha il diritto e il potere di ricordare e di costruire processi di memorializzazione, ma anche su chi ha il diritto di dimenticare e di rimuovere esperienze traumatiche collettive (come la guerra) e personali (come la violenza sessuale, presentata nel romanzo come una pratica socialmente accettata).  Il re ombra narra della resistenza etiope all’invasione italiana, cominciata attraverso l’uso delle parole prima ancora che delle armi, mediante l’atto deliberato di pronunciare in maniera errata il nome del duce, mettendo in tal modo in atto un rifiuto di riconoscere la sua autorità: “Mussoloni: quella pronuncia volutamente sbagliata si è diffusa nel paese, dapprima quelli che non sapevano, poi quelli che invece sapevano”. Come afferma Mengiste nella Nota dell’autrice e in alcune interviste, la storia della resistenza etiope – che era riuscita a sconfiggere il potente esercito fascista con poche armi obsolete grazie alla fierezza di un popolo che aveva difeso la propria terra a rischio della vita – permea l’immaginario collettivo etiope e costituisce una contronarrazione rispetto alla storia coloniale ufficiale. L’operazione che compie Mengiste, però, va un passo oltre: la scrittrice reinscrive la presenza delle donne in tale narrazione, costantemente rimossa tanto dalla storia coloniale narrata dai libri di storia italiana, quanto dalla controstoria anticoloniale etiope. Il processo che Mengiste intraprende implica la decostruzione dell’opposizione binaria colonizzatore/colonizzato e mette in discussione l’omogeneità di entrambe le categorie al proprio interno. Ciò vuol dire contrastare la narrazione dello splendore dell’impero fascista, ma anche dell’eroismo degli uomini etiopi che avevano sconfitto quell’impero, in quanto la memorializzazione della loro vittoria era stata costruita sulla sistematica cancellazione delle donne, delle loro vite, del loro coraggio, delle loro lotte, dei loro corpi…

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L’io narrante si sposta, segue i punti di vista. La narrazione principale è inframmezzata dal coro e dal racconto a parole di fotografie di guerra. La fotografia riveste un ruolo fondamentale per la propaganda fascista e per l’esibizione della forza, della potenza.

Le descrizioni dei non pochi momenti violenti (stupri, esecuzioni) sono corpose, vivide e dettagliate. Colpiscono crude chi legge.

La sensazione è quella di far parte di un’opera lirica, come  l’Aida tanto ascoltata dall’imperatore etiope.

Come già avevamo detto quando lo abbiamo inserito nelle novità della settimana, tra i meriti del libro – oltre a raccontare uno spaccato importantissimo della storia coloniale, molto spesso dimenticato –  c’è la scelta di non costruire una narrazione totalmente univoca. Come abbiamo visto i punti di vista sono molteplici, ma allo stesso tempo i personaggi non sono mai “buoni e cattivi”.

Ettore Navarra è, sì, un conquistatore, ma anche un uomo dilaniato da un personale conflitto e dal terrore di non rivedere mai più la sua famiglia; gli uomini etiopi non sono tutti degli ottimi mariti e difensori della patria. Kidane, per quanto sia il carismatico leader della rivolta, è un uomo violento, prevaricatore, e abusa a più riprese di Hirut, la cui rabbia dà forza all’intera storia e la sorregge.

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Il Re Ombra è un libro di corpi, di cicatrici, di segni: i cinque segni sulla canna del Wujigra, a indicare gli uomini uccisi da quel fucile; la cicatrice sul petto di Fucelli, che poi viene quasi evirato dagli abissini in una scena dal sapore freudiano; il corpo sinuoso e sensuale di Fifi, spia etiope che carpisce i segreti dei nemici lavorando come prostituta per gli italiani più ricchi – Fucelli compreso; la cicatrice nell’anima di Kidane, in cui è inciso il segno di un figlio morto precocemente; il corpo di Tariku, che pende senza vita dall’albero a cui è stato impiccato;  il reticolato che corre “come una brutta cicatrice” intorno alla prigione degli italiani; e la cicatrice di Hirut, che le “pende sulla spalla come una collana rotta”. Tutti portano sul corpo dei segni – i segni delle loro storie e i segni della Storia. Hirut alla stazione di Addis Abeba nel 1974 “non ha voglia di ricordare”; aspetta Ettore Navarra, che vorrebbe essere perdonato anche più di quanto non desideri riavere la sua cassetta di metallo con le lettere e le fotografie. Alla fine, Hirut capirà che della storia non ci si disfa, e che nessuna guerra finisce mai per davvero; Ettore Navarra capirà che “ciò che viene forgiato nella memoria s’infila nelle ossa e nei muscoli”. Heilé Selassié, il Re Sole travestito da Re Ombra, scappa dall’Etiopia in rivolta, ma sa che “tutto ciò che abbiamo è ciò che ricordiamo”; che “tutto ciò che è meritevole di vita è meritevole di ricordo”; che nessuno può dimenticare nulla; che non si può permettere che i morti restino senza nome; che non esiste nessun passato, perché “tutto accade insieme”; e che le donne ci sono state e ci sono ora, nella Storia e non solo nelle storie, alla luce e non solo nell’ombra. 

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Lo stile non è dei più semplici, forse perché il romanzo è volutamente non semplice: non si tratta della storia lineare dell’invasione dell’Etiopia e della resistenza etiope; non si tratta solo di raccontare le nefandezze fasciste (Indro Montanelli che aveva vissuto in prima persona quell’evento giurò e spergiurò che nessun etiope era morto per effetto dei gas lanciati dagli italiani) o di come è fuggito il negus Hailé Selassié. È un romanzo polifonico, che alla voce delle donne etiopi (Aster, Hirut, la cuoca ...) e degli ‘eroi’ etiopi (Kidane su tutti), intreccia i deliri di Carlo Fucelli, i tormenti imperiali del negus e le paure di Ettore Navarra. È un romanzo di memoria collettiva che porta alla consapevolezza dell’identità di una persona, prima che di un popolo: Maaza ricorda come la sua amata nonna aveva sfidato il marito e si era appropriata del suo fucile per combattere al fianco dei soldati etiopi, come fa Aster nella finzione. È soprattutto un romanzo crudo, fatto di corpi, ferite, soprusi ed umiliazioni: la scatola di latta con le foto di Navarra che rappresentano i segni tangibili dell’invasione, la scatola della vergogna per un uomo che aveva vissuto quell’eccidio diventandone narratore e complice, è la protagonista vera dell’intero racconto, perché porta i segni della caduta dell’essere umano, li registra rendendoli immemorabili. Corpi soggiogati, corpi martoriati e fucilati, impiccati, si alternano a paesaggi e scene di normale schiavitù. Si tratta di un romanzo dai toni epici, proprio per la sua coralità e polifonia, nella quale il lettore si perde e a volte fatica a ritrovarsi, anche perché è un romanzo scomodo, intriso di vendetta, dove non c’è redenzione se non nelle azioni dei personaggi. È un romanzo che si sottrae ad ogni giudizio morale, perché soltanto chi ha vissuto quei fatti può davvero capirli. La testimonianza, diretta ed indiretta di Maaza Mengiste, aiuta ad avere un’idea, sfuocata, di quanto è accaduto, per chi un giorno vorrà davvero fare i conti col suo passato.

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Ricalcando la storie di tutte le donne in guerra nel corso della Storia umana, Hirut diventa perciò donna e nazione contesa, campo di battaglia sul quale «idee distorte di mascolinità furono create». Senza negare la realtà delle dinamiche di potere esercitate sul corpo delle donne, la Mengiste costruisce la prospettiva femminile attraverso le diverse storie dei personaggi, la genesi della loro rabbia, la voglia di riscatto e la lealtà alla patria, restituendo loro la voce inascoltata, silenziata più che silente, alla memoria storica.

L’aspetto più originale di quest’opera di Maaza Mengiste è forse quello visuale: il romanzo nasce da una fotografia di ragazza che l’autrice ha collezionato nel tempo e attorno al quale ha iniziato a immaginare la giovane Hirut. La fotografia diventa così strumento di storytelling ed è qui raccontata a parole. Non si trovano infatti fotografie nel volume, se non due all’inizio e al termine, ma capitoli interi sono essi stessi la descrizione di fotografie scattate dal soldato-fotografo ebreo Ettore Navarra. Contenute in una cassetta metallica, sono in mano alla Hirut del 1974 che sta per incontrare Ettore e restituirgliele. È quindi Hirut che, prendendole in mano una ad una, riesuma ed apre i capitoli della guerra e della resistenza…

Parallelamente, l’autrice ha dato vita ad un archivio fotografico online della guerra italo-etiopica del 1935-41, il Project3541, che raccoglie fotografie provenienti per lo più da collezioni private, inclusa la sua, e presenta quindi una “prospettiva intima” delle conseguenze globali e personali di questa guerra. La sua consultazione a fine lettura, la arricchisce e completa, portando avanti in un certo senso il lavoro di Maaza Mengiste tra i meandri intimi della storia etiopica…

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