Nelle tensioni tra Est e Ovest i cinesi sanno muoversi con accortezza. E possono indicare anche soluzioni. Nella transizione orientale l'Europa si disunisce e perde centralità
Le cronache di Le Monde ci dicono che Kiev non è una
città in stato di assedio: scaffali dei negozi ben forniti, caffè aperti,
benzinai con carburante e misure di sicurezza invisibili. Lontano dal fronte si
combatte soprattutto una guerra dei nervi e strategica, in cui gli ucraini sono
più pedine che protagonisti
Invitato a partecipare come speaker al Forum sulla
Russia del Centro studi americani di Roma e dell’Aspen, mi è parso di cogliere
negli interventi, sia degli occidentali che dei russi, un messaggio più o meno
esplicito: «Non regaliamo la Russia alla Cina». In questa crisi i cinesi hanno
mostrato un aplomb straordinario: che non significa distacco da quanto avviene
ai confini dell’Ucraina ma consapevolezza che nelle tensioni tra Est e Ovest
sanno muoversi con accortezza. E possono indicare anche soluzioni.
Prima ancora del colloquio tra Macron e Putin per
tornare al formato Normandia sull’Ucraina, la conferma è venuta dal colloquio
telefonico tra il ministro cinese degli esteri Wang Yi con il segretario di
Stato Usa Antony Blinken. La Cina, ha affermato il capo della diplomazia di
Pechino, ritiene che «per risolvere» la crisi Ucraina sia necessario «tornare
ancora al punto originale del Nuovo accordo di Minsk», mentre «tutte le parti
dovrebbero abbandonare completamente la mentalità della Guerra Fredda e formare
un meccanismo di sicurezza europeo equilibrato, efficace e sostenibile
attraverso negoziati». Pur sottolineando i rischi dell’allargamento della Nato
a Est: «La sicurezza – ha detto – non può essere garantita rafforzando o
espandendo i blocchi militari».
Una posizione volta al dialogo, non troppo distante,
anzi assai vicina, a quella sostenuta da tempo dalla Germania di Angela Merkel
dove ora è alla guida il cancelliere Scholtz, che da poco insediato deve
affrontare forse l’incubo maggiore di Berlino: i venti di guerra con quella
Russia che è il maggiore partner tedesco per le forniture di gas e molto altro
ancora.
È da sottolineare che la Germania è anche il più
importante partner commerciale della Cina con circa 200 miliardi di euro
all’anno di interscambio, lo stesso livello che Mosca vuole raggiungere entro
tre anni con Pechino. Sono cifre e interessi da tenere a mente quando si pensa
alla tensione Est-Ovest: è evidente che qui le guardiamo con occhio diverso
rispetto agli Stati Uniti. Soprattutto i tedeschi che hanno appena completato
il gasdotto Nord Stream con la Russia e hanno una gran parte dei loro scambi
commerciali con la Cina attraverso il territorio ex sovietico: anzi, il 90%
degli scambi cinesi con l’Europa passa dalla Russia e dall’Asia centrale. Si
capisce bene di che stiamo parlando: di export, di import, di materie prime,
semilavorati: il sangue che fa scorrere le nostre economie. Gli Stati Uniti lo
sanno benissimo, come sanno perfettamente che avere incoraggiato in questi anni
l’Ucraina a entrare nella Nato è stato un errore che oggi si ripercuote sui
rapporti con Mosca e l’Europa. Nel 2014 perfino Henry Kissinger aveva sostenuto
che l’Ucraina doveva essere un «ponte» tra Est e Ovest, ben sapendo che una Ucraina
nella Nato avrebbe scatenato nei russi la sindrome dell’assedio. Purtroppo le
amministrazioni di Obama, Trump e Biden giudicavano e giudicano diversamente la
situazione strategica: bisogna togliere spazio alla Russia e minare la sua
sfera di influenza perché così indeboliamo anche la Cina.
In realtà corriamo il rischio opposto, quello di
«regalare» la Russia, cioè un pezzo di Europa e di Eurasia a Pechino, proprio
compattandoli. Se dovesse avvenire, sarebbe un fallimento epocale della
politica estera americana che di fallimenti ne infila uno dietro l’altro:
l’ultimo è stato l’Afghanistan, per non citare i «guai» provocati dalla guerra
in Iraq nel 2003 e dall’intervento in Libia nel 2011. Per la pandemia, per la
«crescita», per abbattere la povertà serve la stabilità, non la
destabilizzazione.
Gli europei devono svegliarsi perché, a dispetto
dell’Unione di Bruxelles, non esiste una sola Europa ma diverse Europe, come
scriveva Vittorio Strada. Forte della sua profonda conoscenza della Russia,
Strada affermava nel suo volume Europe che l’Europa è fatta di nazioni che
nascono, rinascono, si rinnovano, si fondono, si separano. L’Europa o le Europe
sono aree anche molto diverse che sembrano orientate verso un’ideale
unificazione ma non sono certamente fuse in una compatta unità. Come leggere le
storie di Polonia e Ucraina, regioni che per secoli hanno fatto parte
dell’impero russo, e ora della vita europea ma sono anche in fase di complessa
transizione? Il governo polacco sostiene per esempio che la legislazione
nazionale è superiore a quella dell’Unione europea, eppure questo Paese incassa
ogni anno miliardi di euro da Bruxelles. La storia, però, non si compra.
La verità è che gli europei «occidentali» sbagliano
nella chiave di interpretazione: nel tempo lungo il presente non è l’odierna
attualità ma l’intero secolo scorso che ha visto la graduale perdita di
centralità dell’Europa a partire dalla prima guerra mondiale, una perdita di
ruolo sfociata dopo la seconda nella fine del colonialismo e nell’insorgere della
guerra fredda. Fu così che nell’89 il crollo del Muro di Berlino venne
interpretato da alcuni sciocchi molto mediatizzati come la «fine della storia».
Una tremenda stupidaggine alimentata tra l’altro da cosiddetti «esperti»
americani: in Europa cominciava la fine della Jugoslavia e la Cina iniziava il
suo decollo come grande potenza economica e militare.
I cinesi, che oltre alla loro rivoluzione hanno alle
spalle anche un impero di migliaia di anni, non si sono scomposti. E ora
aspettano che in Ucraina americani e atlantisti affondino il piede nella palude
e ci rimangano impantanati. Poi lanceranno una fune ai russi e magari pure a
noi. Ma non sarà gratis.
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