A distanza di quasi cinquanta anni dell’introduzione dell’imposta sulle persone fisiche, l’Italia sta ancora cercando la strada per tassare i suoi cittadini con una certa equità. Memore del dettato costituzionale che impone di ispirare il sistema fiscale al principio di progressività, quando la riforma partì nel 1974 prevedeva 32 scaglioni, col primo al 10% su 13.321 euro e l’ultimo al 72% oltre 3,3 milioni di euro, precisando, ovviamente, che stiamo parlando di redditi rivalutati secondo il costo della vita di oggi.
Ma appena
dieci anni dopo gli scaglioni li troviamo ridotti a nove e rimodulati secondo
diversi livelli di reddito. La scelta, proseguita anche negli anni
successivi, fu quella di innalzare marcatamente le aliquote medie sui
redditi fino a 50mila euro, mentre si procedeva con aumenti più
leggeri fino a 500mila euro, applicando addirittura una riduzione oltre tale
soglia.
L’ultima
riforma del 2007, poi rimasta in vigore fino al 2021, aveva praticamente
raddoppiato le aliquote medie fino a 33mila euro, aveva fatto crescere di 10-12
punti quelle applicate fino a 120mila euro, di 1-10 punti quelle fino a
532mila euro, mentre aveva fatto scendere di 3 punti le aliquote sui redditi
fino a un milione di euro e addirittura di 16 punti quelle oltre 3,3
milioni di euro. Probabilmente il legislatore si era accorto che il 90% dei
contribuenti italiani si trova al di sotto di 50mila euro e per garantire allo
stato un adeguato gettito fiscale aveva deciso di inasprire la pressione
fiscale su tali fasce.
Tuttavia
le aliquote ufficiali sono solo l’aspetto più in vista del sistema fiscale, non
la vera misura di ciò che i cittadini pagano. In effetti, almeno in Italia,
esiste tutto un sistema di detrazioni e agevolazioni che di fatto riducono
anche in maniera drastica gli importi da pagare. Chi le ha censite
ne ha contate 602.
Ogni tipo di
reddito ha la propria: non solo quello da lavoro dipendente, da pensione, da
lavoro autonomo, da attività sanitaria libero professionale intramoenia, da
partecipazioni a commissioni tributarie, ma anche quello ottenuto dai
parlamentari e molte altre cariche elettive.
Niente di
male, ma il guaio delle detrazioni è che fanno perdere di
trasparenza al sistema fiscale e lo rendono altamente disuguale senza che
nessuno se ne renda veramente conto. Per di più lo espongono a forti pressioni
di tipo clientelare, nel senso che rischiano di essere favorite le categorie
con maggiore capacità di battere i pugni sul tavolo e quelle che i politici
hanno interesse ad accontentare.
Recentemente
in Italia si è riacceso il dibattito sulla riforma del sistema fiscale, anche
su pressione dell’Unione Europea che l’ha posta come condizione per il rilascio
dei finanziamenti necessari all’attuazione del PNRR.
Ma il
risultato partorito è stato una misura inserita all’ultimo momento nella legge
di bilancio approvata nel dicembre 2021, che ha più l’aria del provvedimento
tampone che della vera riforma strutturale orientata a sanare i vizi di fondo.
Le aliquote sono state portate da cinque a quattro, lasciando immutata quella
del 23% fino a 15mila euro, riducendo le due successive fino a 50mila euro e
appesantendo di 2-5 punti quella fra 50 e 75mila euro su cui si applica
l’ultima aliquota del 43% che prima scattava oltre i 75mila euro.
Contemporaneamente
sono state ritoccate anche numerose detrazioni e il risultato finale è che
tutti gli scaglioni di reddito godono di una riduzione d’imposta a volte più
marcata sui redditi bassi, a volte sui redditi medio alti a seconda del tipo di
reddito percepito. Per lo Stato, il risultato previsto è una perdita di 7
miliardi di euro che sarà coperta con nuovo debito. Il solito vecchio vizio di
fare le riforme sociali non con operazioni di livellamento tributario, ma
scaricando il peso sulle generazioni future.
Ora non
rimane che sperare che la recente modifica rappresenti solo il primo passo di
una più profonda operazione di equità fiscale che deve necessariamente basarsi
su quattro principi: no tax area, cumulo dei redditi, progressività estesa ai
redditi alti, obbligo di dichiarazione comprendente non solo i redditi
percepiti ma anche i patrimoni detenuti.
La no tax
area va introdotta per garantire a tutti un minimo vitale inviolabile. Il
cumulo dei redditi va sancito per evitare lo scandalo attuale che sottopone a
progressività quasi esclusivamente i redditi da lavoro e da pensione,
mentre garantisce la flat tax ai redditi derivanti da proprietà patrimoniali.
Un doppio
regime che contribuisce a rendere i ricchi sempre più ricchi a danno
dell’erario come testimonia la recente ricerca realizzata dal Centro
Einaudi e da Intesa Sanpaolo sul risparmio e le scelte finanziarie degli
italiani nel 2021. Dall’indagine emerge che nell’ultimo anno i risparmi degli
italiani sono aumentati di 110 miliardi di euro, mentre i risparmiatori sono
diminuiti di 6,5 punti percentuale. Detto in un altro modo: sono aumentate le
disuguaglianze.
La
progressività deve essere moltiplicata sui redditi alti, quelli oltre 100mila
euro, anche se sono pochi i percettori di redditi così elevati. L’equità
redistributiva è un valore che va applicato indipendentemente dalla statistica.
Oltre a rafforzare la cultura della giustizia, alte aliquote sui super redditi
contribuiscono a riempire le casse pubbliche perché alti prelievi
su alti redditi forniscono gettiti ragguardevoli anche se il numero di
contribuenti è basso.
E per
finire, l’obbligo esteso a tutti di presentare la propria situazione
economica sia da un punto di vista reddituale che patrimoniale, avrebbe come
minimo una funzione anti frode in quanto permetterebbe di verificare la
congruità dei redditi. Se una persona dichiara 5mila euro all’anno, ma possiede
depositi bancari, titoli borsistici, auto di lusso, case, qualcosa non torna.
Sulla base
di questi principi l’associazione ARDEP propone di tornare ad un sistema molto
differenziato con l’introduzione immediata di 20 scaglioni fino al limite di
300mila euro, riservandosi di introdurne di ulteriori fino a 600mila euro o
anche oltre. Ma un altro aspetto interessante della sua proposta è
l’introduzione di una no tax area, ipotizzata a 10mila euro, che assorba la
giungla di detrazioni d’imposta oggi esistenti. In altre parole fino a 10mila
euro nessuno dovrebbe pagare niente perché, come affermò l’On. Scoca in sede di
Assemblea Costituente, “il cittadino prima di essere chiamato a corrispondere
una quota parte della sua ricchezza allo Stato, deve poter soddisfare i bisogni
elementari di vita suoi propri e della propria famiglia”.
Ed è proprio
in virtù di questo riconoscimento che Ardep non si limita a proporre l’esonero
contributivo fino a 10mila euro, ma propone che chi percepisce
redditi inferiori, riceva un’integrazione da parte dello stato fino al
raggiungimento del limite esente. In termini tecnici questo meccanismo si
definisce “imposta negativa sul reddito”, ma più popolarmente potrebbe essere
chiamato “reddito di cittadinanza di tipo compensativo”.
L’imposta negativa
sul reddito può funzionare solo se tutti hanno l’obbligo di dichiarare i propri
redditi anche se fossero pari a zero. In questo modo si contribuirebbe a
risolvere anche un’altra grave piaga che è quella dell’evasione fiscale. Per
ammissione generale il primo passo verso la legalità è l’emersione dalla
clandestinità, ricordandoci che al momento risultano oltre 5 milioni di
cittadini che non presentano dichiarazioni al fisco.
E a
conclusione della propria proposta, Ardep dimostra che il suo impianto oltre a
garantire un reddito di almeno 10mila euro a tutti i contribuenti, non
ridurrebbe di un centesimo l’attuale gettito IRPEF. Anzi lo innalzerebbe di 24
milioni di euro attestandolo su 165 miliardi e 140 milioni di euro.
Ma con una
diversa partecipazione contributiva da parte dei diversi scaglioni di reddito.
Fondamentalmente calerebbero le aliquote medie di chi percepisce redditi fino a
50mila euro, mentre salirebbero quelle di chi ha redditi oltre tale
soglia. Un sano riequilibrio contributivo che converrebbe non solo
all’equità, ma anche alla dignità e alla convivenza sociale.
Articolo
pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire
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