Negli Usa una proposta di legge della deputata musulmana Ilhan Omar rischia di limitare la possibilità di criticare le pratiche discriminatorie dell’islam. L’allarme della giornalista iraniana promotrice di diverse campagne in favore dei diritti delle donne musulmane.
(testo originale apparso sul Washington Post)
Cinque anni fa, il giorno dopo l’insediamento di Donald Trump alla
presidenza, partecipai alla più grande manifestazione della storia degli Stati
Uniti: la Women’s March del 2017. Fu la mia prima manifestazione nel mio nuovo
Paese. Quello che più mi colpì fu quello che non accadde:
nessuno ci picchiò, nessuno ci arrestò, nessuno ci sparò.
Da persona che più volte era stata presa di mira dal regime autoritario del
proprio Paese d’origine, l’Iran, trovai quell’esperienza sorprendente.
È per questo che mi preoccupano alcune iniziative che rappresentano precedenti
che potrebbero minare la nostra libertà di espressione. A dicembre, con 219
voti a favore e 212 contrari la Camera ha approvato il Combating International
Islamophobia Act. Il disegno di legge, proposto dalla deputata Ilhan Omar,
prevede la creazione di un ufficio per combattere l’islamofobia nel mondo
all’interno del Dipartimento di Stato e incarica quest’ultimo di includere i
dati sui casi di islamofobia nei report sui diritti umani.
Non c’è dubbio che il governo degli Stati Uniti debba agire per difendere i
musulmani all’estero, ovunque vengano commessi crimini contro di loro, come nei
casi degli uiguri in Cina o dei rohingya in Myanmar. Ma il governo degli Stati
Uniti lo sta già facendo, senza bisogno di istituire un nuovo ufficio del tipo
richiesto da Omar, che invece comporta seri rischi. Il disegno di legge,
infatti, non fornisce una definizione chiara di islamofobia, né prende una
netta posizione contro i crimini che gli Stati islamici perpetrano contro i
loro stessi popoli. È legittimo dunque chiedersi: la critica ai talebani sarà
considerata una forma di islamofobia? E la critica alla Repubblica islamica
dell’Iran? Si potrà criticare Hamas o Hezbollah come organizzazioni
terroristiche?
Contattato per un commento, l’ufficio di Omar ha risposto accusandomi di
«ripetere (…) argomenti dei repubblicani bigotti»: «È un segno di malafede
supporre che un inviato del Dipartimento di Stato incaricato di monitorare e
combattere gli atti di islamofobia ufficiale, che in alcuni casi hanno
raggiunto il livello del genocidio, condannerebbe anche i Paesi che muovono
critiche ai regimi oppressivi o ai terroristi».
Devo chiarire: non ho nulla contro Omar. Come lei, ho molti parenti
musulmani devoti che amo e rispetto. Come lei, mi identifico come femminista.
E, contrariamente a coloro che hanno cercato di dipingermi come di parte, sono
molto lontana dall’essere un’attivista repubblicana: i diritti umani sono per
me una questione bipartisan.
I regimi che promuovono ideologie islamiste, come quelli iraniano, turco o
saudita, hanno eserciti di consulenti e lobbisti ben pagati che possono usare i
diritti e le libertà che questo Paese offre per minare i princìpi che
sostengono quelle libertà. Temo che la legislazione proposta da Omar farà il
gioco di coloro che vogliono limitare il libero dibattito e la critica.
Il dizionario Merriam-Webster definisce “fobia” una “paura esagerata” o
“un’intolleranza o avversione”. Ma molte donne che vivono in Paesi come l’Iran,
l’Afghanistan controllato dai talebani o l’Arabia Saudita hanno una paura del
tutto razionale delle leggi della sharia. Denunciare le leggi che trattano le
donne come cittadine di seconda classe non è islamofobia.
Ho raccontato molte volte le mie lotte personali
contro le leggi della sharia, compresi i conflitti che ho avuto, e ancora ho,
con la mia famiglia. Mia madre è una musulmana devota che indossa sempre
l’hijab. Io invece ho sfidato il dominio clericale con la mia attività
giornalistica fino a quando sono stata cacciata dall’Iran. Ho lanciato una campagna contro l’obbligo dell’hijab, chiedendo che alle
donne iraniane fosse data la libertà di scegliere il proprio destino.
Una tale critica all’obbligo dell’hijab sarà etichettata come islamofobia?
Anche prima di questo disegno di legge, molti dissidenti iraniani subivano
la pressione dei social media statunitensi affinché attenuassero le loro
critiche all’Iran e ai talebani. Alcuni dei loro post sono stati rimossi,
alcuni account sospesi. Criticare le peggiori pratiche degli islamisti molto
spesso procura discredito. Chi critica qualche aspetto dell’islam, è oggetto di minacce di morte da parte dei
fanatici e di censura da parte dei liberali ben intenzionati che non vogliono
offendere nessuno.
Qualche settimana dopo la Women’s March contattai alcune delle
organizzatrici per chiedere loro sostegno alla mia campagna contro l’hijab
obbligatorio. Quasi nessuna fu disposta a farlo per paura di essere accusata di
promuovere l’islamofobia.
Ma le donne del Medio Oriente stanno prendendo la parola da sole.
Recentemente, ho lanciato una nuova
campagna sui social media usando l’hashtag #LetUsTalk. Ho semplicemente postato
due fotografie: una mi mostrava da bambina con l’hijab, l’altra come sono oggi,
un’adulta libera di scegliere come vuole vivere. Ho esortato le donne del Medio
Oriente e dell’Afghanistan a raccontare le loro storie su come le leggi della
sharia limitano e danneggiano le donne e le ragazze. Centinaia hanno già
condiviso le loro storie. Non imponiamo ulteriori fardelli che potrebbero
limitare la loro possibilità di farlo.
(traduzione dall’inglese di Cinzia Sciuto)
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