Io Robot
È venuta meno la centralità della figura dell’insegnante, ridotto a un disciplinato burocrate, a cui è tolto il tempo persino di studiare e di preparare le lezioni. Mentre sino a poco tempo fa la scuola era contraddistinta da un tempo improduttivo, era un intervallo sottratto alla produzione, ora non solo il linguaggio della sua gestione è diventato quasi esclusivamente economico, ma in parte anche la pratica dell’insegnamento - Romano Luperini
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Vergogna - Redazione Roars
Che la notizia della tragica morte di un 18 enne riguardi un tirocinio o uno stage, uno studente di un tecnico, un liceo o un professionale, non cambia la sostanza delle cose. L’alternanza scuola-lavoro, oggi PCTO – Percorsi Trasversali per le Competenze Trasversali e Orientamento – deve essere abolita.
“L’alternanza Scuola Lavoro assicura ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro.”
Riforma Moratti, Decreto Legislativo n. 77/2005
“L’alternanza è utile, ma il sistema scolastico italiano preferisce troppo l’astrazione alla praticità. Molti direttori del personale si lamentano di avere a che fare con ragazzi disorientati, che non hanno idea di come si sta in un’azienda o di come ci si comporta con capi o colleghi”.
Andrea Gavosto, Fondazione Agnelli, 20/11/2013
“La cosa più urgente, non la più importante, è l’alternanza scuola-lavoro. Noi abbiamo avuto un crollo totale degli occupati con un aumento dell’occupazione giovanile impressionante…Nella Buona scuola si prevede finalmente l’alternanza scuola-lavoro per ridurre finalmente quel 44% di disoccupazione giovanile”
Matteo Renzi, 13/5/2015
“Al centro dell’alternanza c’è insomma la vita, la realtà. Si potrebbe dire che l’alternanza è il metodo formativo nel quale ci si allena, intenzionalmente, a considerare le conoscenze (sapere) e le abilità (saper fare) come mezzi per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti (fine).”
Claudio Gentili, vice direttore Area Innovazione e Education Confindustria, sulla rivista Nuova Secondaria, 10/6/2016
“I campioni dell’Alternanza” è il progetto presentato dalla ministra Giannini che coinvolge sedici imprese big, tra cui McDondald’s e Fiat, per formare i ragazzi nell’ambito dell’Alternanza Scuola-Lavoro prevista dalla L.107 o Buona Scuola”.
Stefania Giannini, 16/10/2016
“Cari studenti, invece di venire da McDonald’s a bigiare, venite da McDonald’s a fare Alternanza Scuola-Lavoro!”
Stefano Dedola, Human Resources Director di McDonald’s Italia, 18/11/2016
“L’alternanza scuola-lavoro è un modello di innovazione nella didattica […] mille tutor esterni sono in arrivo negli istituti superiori per agevolarla”
Valeria Fedeli, 13.10.2017
“Lega e Movimento 5 Stelle vogliono abolire l’alternanza scuola lavoro”
“L’alternanza scuola-lavoro diventa PCTO, “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”
Marco Bussetti, Lega, 4/9/2019
“L’alternanza scuola lavoro non deve essere obbligatoria”
On. Azzolina, non ancora ministra, membro della VII Commissione istruzione presso la Camera dei Deputati, 14.06.2018
Nonostante la pandemia “il monte ore dei PCTO non verrà ridotto. Ogni scuola troverà il modo per i recuperi e per completare il progetto previsto”
Ministra Lucia Azzolina, M5S, 26.11.20
“La triade università- scuola- azienda va potenziata […] Le imprese hanno bisogno oggi di persone, che siano specializzate ma anche molto flessibili […] Bisogna accompagnare fin dalla scuola media gli studenti nelle imprese”
Ministro Patrizio Bianchi, PD, 19.11.2021
https://www.roars.it/online/vergogna/
Era solo
questione di tempo, purtroppo - Michele Sicca (Rete degli studenti
medi)
Le forze dell’ordine che manganellano gli studenti mentre protestano per
la morte di un compagno che faceva un tirocinio in fabbrica sono le stesse che
non hanno opposto resistenza ai neofascisti che attaccavano la sede della Cgil.
È questo il senso per la democrazia del governo Draghi?
Nei giorni
scorsi in tutta Italia studentesse e studenti si sono mobilitati in presidi e
cortei per ricordare la morte di Lorenzo Parelli, un ragazzo di 18 anni, un
ragazzo come qualsiasi altro, morto ad Udine in un incidente sul lavoro mentre
svolgeva uno stage previsto dal suo percorso scolastico. La notizia, la prima
nel suo genere in Italia, ha lasciato sgomenti gli studenti dal Nord al Sud del
Paese. Morire “di scuola” è inaccettabile e accanto al dolore non si può fare a
meno di provare tanta rabbia.
Quanto
accaduto, seppur per certi versi imprevedibile, di certo, in un Paese che conta
1.404 morti sul lavoro l’anno, non era inimmaginabile. In un mondo del lavoro
precario ed insicuro, in cui vengono tolte anno dopo anno sempre più tutele,
probabilmente era solo questione di tempo prima che ci scontrassimo con la dura
realtà. Seppur Lorenzo non stesse svolgendo propriamente i Pcto (l’ex
Alternanza scuola-lavoro), bensì un percorso di formazione duale presso
un’azienda specializzata, la riflessione non può non andare alla nota Buona
scuola del 2015 che ha introdotto e disciplinato tutti i vari percorsi
lavorativi nel corso delle superiori. Ampiamente contestata già allora, rimane
una legge che ha consentito una progressiva aziendalizzazione della scuola
pubblica, in cui il percorso formativo di ciascuno studente è sempre più
finalizzato esclusivamente all’inserimento nel mondo lavorativo, permettendo di
fare esperienze di lavoro già in classe.
Dinanzi ad
un mondo del lavoro in difficoltà, in cui abbondano contratti precari, scarse
tutele, zero investimenti in sicurezza, riconoscere e legalizzare da parte
della scuola attraverso stage e Pcto questa tendenza non può non portare ad
altro se non a una normalizzazione del fenomeno. La morale che dunque si impone
nella narrazione comune e in classe è quella del lavoro ad ogni costo,
qualsivoglia siano le condizioni e la paga. E la scuola, purtroppo, continua ad
inseguire il mondo lavorativo senza riflettere realmente su quelli che
dovrebbero essere i propri obiettivi e le proprie finalità, educando alla
precarietà, facendo apparire come casuale che si possa morire a 18 anni
lavorando gratis.
La scuola
dovrebbe essere la comunità dove si forma la coscienza e la personalità del
singolo, dove si forma il cittadino del domani, conscio dei propri diritti e
dei propri doveri, dove si rende lo studente in grado di scegliere da sé il
proprio futuro, non il luogo atto a produrre esclusivamente individui
atomizzati e specializzati da inserire nel mondo lavorativo. Proprio per questo
occorrerebbe, invece, introdurre percorsi obbligatori che abbiano come finalità
quella di formare gli studenti sul funzionamento del mondo del lavoro, passando
dallo Statuto dei lavoratori alle nuove norme sulla sicurezza, studiando il
funzionamento dei contratti e cosa può essere previsto al loro interno e cosa
no.
Dopo una
settimana di mobilitazioni in tutto il Paese, dopo che gli studenti e le
studentesse hanno mostrato vicinanza, sensibilità e anche paura nei confronti
della morte di Lorenzo, dal governo e dal ministero dell’Istruzione è arrivato
solo silenzio. Di contro invece a Roma, Torino, Napoli e Milano si sono
verificate cariche violente sugli studenti in seguito alle agitazioni,
l’ennesima dimostrazione della totale incapacità da parte dello Stato non solo
di ascoltare le istanze studentesche, ma anche di gestire il dissenso nei
confronti delle istituzioni e la normale democratica manifestazione delle
proprie idee. Nel silenzio di un Paese che non riesce a discutere di giovani e
di futuro, rimane indelebile la ferita lasciata dalla morte di Lorenzo, morto
“di scuola”.
Il ritorno dei manganelli – Stefano Galieni
Fanno riflettere molto le manganellate date a titolo gratuito agli studenti
che in varie città italiane hanno osato manifestare in protesta, chiedendo
giustizia per Lorenzo Parelli, studente diciottenne di Udine. Lorenzo è morto
mentre svolgeva un PCTO (Percorso per le competenze trasversali e per
l’orientamento) quella che per sintesi chiamiamo “alternanza scuola lavoro”.
Una morte orribile ed inaccettabile che ha visto montare nelle piazze rabbia e
dolore. Le ragazze e i ragazzi che si sono radunati nelle in molte città non
erano i violenti black bloc- neanche in tal caso ci sarebbero state sufficienti
giustificazioni – ma giovani che forse per la prima volta nella vita, hanno
incontrato il volto duro del potere. Solo un paio di giorni dopo al Pantheon a
Roma, si sono radunati circa 300 ragazzi e giù bastonate come se piovesse. La
scena si è ripetuta nei giorni seguenti a Torino, Milano, Napoli. La scuola è
tornata, per un istante, in prima pagina e non per parlare di Dad o di
distanziamenti o contagi ma di loro, le studentesse e gli studenti, dotati di
un sapere critico come non ce li ricordavamo. Prima a Roma, poi a Torino,
Milano, Napoli, stessa ricetta, qualche mazzata sulle ossa perché per loro la
critica al potere, al sistema scolastico, alla buona scuola che fa entrare in
classe come un morbo la normalità della morte in un cantiere, non è ammessa.
C’è stato, fra i più anziani come chi scrive, chi ci ha colto un nesso con le
prime avvisaglie di un fuoco coperto sotto la brace, come accadeva negli anni
Settanta ma non lasciamoci ingannare. La frammentazione delle vite, dei tempi e
un distanziamento sociale iniziato molto prima della pandemia, a suon di
lezioni di individualismo spicciolo, rende ardua ogni comparazione. Negli anni
Settanta (ma allora erano diversi tanto il sistema comunicativo quanto la
capacità di rendere memoria stabile la coscienza collettiva), si sarebbe
parlato per giorni di questa oscena morte. E ancor più sarebbe divenuto tema di
discussione quello dei pestaggi operati dalle sedicenti forze dell’ordine.
Anche quel luogo di rappresentanza democratica che un tempo era il parlamento,
avrebbe dovuto discuterne, non restare assente. Oggi sono pochi i parlamentari
a protestare e infinitesimo pare il ruolo degli organismi di rappresentanza.
L’ipocrisia governativa parla della necessità di un dialogo con i giovani,
balbetta frasi di circostanza ma nulla più. Ci sarebbero state, quaranta,
cinquanta anni fa, piazze piene per giorni e una morte del genere avrebbe
costretto anche la pubblica opinione ad aprire una riflessione più ampia tanto
degli omicidi sul lavoro (92 nel solo mese di gennaio quest’anno). Nessuno
avrebbe osato parlare di incidente o fatalità, nessuno squallido commentatore
su twitter avrebbe avuto la sfacciataggine di paragonare la morte di Lorenzo a
quella di un ragazzo in gita o in un campeggio. Erano gli anni in cui nei
tecnici industriali, persino nelle scuole professionali, si contestava il fatto
che la formazione impartita alludeva ai ritmi di lavoro in fabbrica e che in
quei luoghi di formazione, si andava riproducendo una catena di comando di cui
si contestava la radice. Criticavamo selezione, orari, disciplina,
autoritarismo, gli elementi strutturali per far funzionare quella che allora
era ancora una produzione solo vagamente post-fordista.
Verrebbe da dire e pensare che a quelle forme radicali di contestazione era
scontato doversi ritrovare ad affrontare un apparato repressivo statuale che si
macchiava quasi normalmente le mani di sangue. Ci eravamo abituati e si andava
in piazza sapendolo. E si era abituati all’idea che le cariche arrivavano a chi
contestava il sistema di sfruttamento fra fabbrica e scuola mentre le
squadracce fasciste potevano manifestare protette e indisturbate a rappresentare
ordine e disciplina. Quelli erano i “bravi ragazzi” da prendere ad esempio,
destinati a formare la nuova classe dirigente del Paese, tanto simile a quella
da Ventennio che l’aveva preceduta. Il paragone potrà sembrare forzato ma la
provocazione è inevitabile. Oggi, chi governa, con strumenti di controllo molto
più raffinati – altro che dittatura sanitaria – ma a colpi di leggi repressive
e securitarie che si sommano da decine di anni, a colpi di annientamento
preventivo di ogni forma di conflitto che abbia parvenza di critica sociale, a
colpi di una cultura dominante che sgretola sul nascere ogni forma di
collettivizzazione del dissenso, trova un terreno già fertile e pochi ostacoli.
E come accadeva 50 anni fa – evidentemente i manuali delle questure non sono
stati aggiornati – esistono pseudo opposizioni comode, come l’arcipelago No vax
a cui tutto è permesso, anche entrare nelle sedi sindacali, non rispettare le
norme anti assembramento, girare senza mascherina, occupare piazze, senza che
se ne paghi le conseguenze. Si un gruppuscolo di leader neofascisti sono oggi
in carcere ma era il “minimo sindacale”, in fondo si tratta di pochi arnesi già
sputtanati per cui entrare e uscire di galera è solo una formalità. Intanto
hanno potuto traversare indisturbati le piazze centrali della capitale in
centinaia, ricordando le immagini statunitensi di Capitol Hill. Un’opposizione
di facciata che fa comodo, su cui tenere accesi i riflettori, che anzi rafforza
il governo e la sua immagine rassicurante da buon padrone. Un buon padrone che
intanto, elimina il blocco dei licenziamenti, dà il via libera agli sfratti per
morosità incolpevole. I pochi e le poche che riescono a difendersi da simili
violenze costituiscono una eccezione a volte tollerata più spesso presa di mira
in nome della ripresa che, annunciano le sirene dell’informazione da regime,
porterà prosperità per tutti. E chi si oppone non lo capisce, meritando così le
cariche. I ragazzi e le ragazze delle piazze di questi giorni rappresentano una
pericolosa e suggestiva eccezione, come i lavoratori della GKN e la loro
battaglia sostenuta dall’intera comunità locale. Pericoli da scongiurare,
soprattutto se si aggregano, se si incontrano, se rompono il vero
distanziamento sociale che non è dovuto alla pandemia o alle misure per
fronteggiarla.
Quasi in contemporanea il 2022 iniziava con un pugno di ferro nei confronti
di chi crea problemi in quanto non in grado di consumare, degli “scarti” del
Paese che vivono ai margini, spesso senza fissa dimora, sopravvivendo giorno
dopo giorno unicamente grazie all’assistenza di enti caritatevoli. Uomini e
donne fastidiosi perché ritenuti d’intralcio alle attività economiche. Se
qualcuno di loro crepa in ipotermia, mancando le strutture emergenziali, poco
importa, due righe in cronaca e tutto sparisce, un po’come gli omicidi sul
lavoro. Al massimo, in assenza di materiale più notiziabile, qualche vicenda
guadagna 30 secondi in più su un tg o 30 righe su un quotidiano. Il rapporto
Oxfam, pubblicato pochi giorni fa, ci dice che, a causa della crisi sociale ed
economica connessa alla pandemia, oltre 1 milione di persone sono precipitate
in condizioni di povertà assoluta, ma questi non sono dati su cui soffermarsi,
la ripresa è vicina, come si diceva e le imprese vedranno presto i soldi del
PNRR. Già le imprese. E a coloro che sono impegnati nell’impresa di
sopravvivere al giorno dopo?
Due esempi macroscopici che fanno da contorno a tante situazioni simili
attuate in altre città italiane. Roma, Stazione Termini, da sempre rifugio di
chi non ha da vivere e luogo in cui le associazioni caritatevoli sanno di
incontrare ormai stabilmente i propri beneficiari. Su alcune testate è apparsa
la notizia che l’esercito era intervenuto per impedire che venisse erogato cibo
o generi di prima necessità a chi ne aveva bisogno. Interessante nella capitale
del cattolicesimo, quella che dovrebbe essere la città dell’accoglienza e della
solidarietà. Le notizie sono rimbalzate per un paio di giorni e confermate da
reporter che si sono sentiti dire come tali operazioni erano utili a togliere
intralci alle attività commerciali della Stazione. Ma più interessante è la
smentita diramata alcuni giorni dopo dall’Esercito con una nota: “La presenza
dei militari presso la stazione è tesa ad espletare un servizio di vigilanza
attiva a protezione del sito, in supporto e in concorso alle Forze di Polizia,
finalizzato alla prevenzione e contrasto della criminalità“. E poi: “Si ricorda
che il personale di ‘Strade Sicure’ è posto a disposizione del ministero degli
Interni attraverso i Prefetti che definiscono, per le esigenze di controllo del
territorio e per garantire la sicurezza dei cittadini, le specifiche attività
di vigilanza, sorveglianza e pattugliamento da porre in essere nelle vicinanze
dei siti considerati ‘sensibili’, tra cui le stazioni ferroviarie e della
metropolitana. In particolare – spiega l’Esercito – , il servizio svolto presso
la Stazione Termini esula da attività o contatti con i volontari impegnati
nella distribuzione di cibo ai senza fissa dimora che riparano dentro alla
stazione: è pertanto del tutto infondato sostenere che i militari abbiano mai
contrastato l’azione benefica di tali associazioni“. Falsità giornalistiche
allora? È ancora il comunicato a chiarire “Si specifica, inoltre, che le autorità
competenti in materia hanno disposto che, a causa delle restrizioni anti-Covid
per garantire la sicurezza dei viaggiatori in transito ed evitare
assembramenti, le donazioni alimentari e di beni di prima necessità a favore
dei senza tetto avvengano all’esterno della stazione, in un’area non di
competenza dei militari. Peraltro, alcune delle maggiori associazioni di
volontariato che operano a Termini hanno smentito, anche oggi, su altri organi
di stampa, eventuali ostacoli alla loro opera di sostegno quotidiano da parte
dell’Esercito”. Traduzione dell’arrampicata sugli specchi: l’esercito permette
di portare assistenza solo fuori dalla Stazione, dentro, dove magari ci si
rifugia per non crepare di freddo, no. O stai al caldo e a digiuno o mangi
qualcosa, magari rimedi una coperta ma lontano dal tepore, in realtà scarso,
offerto da una galleria. Ovviamente nessun cenno alle necessità di ampliare i
luoghi per l’emergenza freddo, nessuna programmazione per affrontare quella che
ancora si ha il coraggio di chiamare emergenza e costituisce la norma. Ah
dimenticavamo, ora Roma è governata da un illuminato sindaco di centro sinistra
che provvederà. Peccato che lo sia sentito parlare di progetti per il futuro,
di investimenti, di, immondizia, di strade e di cinghiali, ma poco di questi
inutili ultimi. L’azione dell’Esercito, resa più agevole dall’alibi del
rispetto delle misure anti covid sembra però essere solo un assaggio.
Nonostante gli incontri delle ultime settimane cresce il timore che dopo aver
colpito chi dorme per strada il prossimo passo sia quello della ripresa degli
sgomberi delle abitazioni considerate “illegalmente occupate”. Un piano già da
tempo predisposto dal prefetto, il solerte Matteo Piantedosi che incontra il
favore dei proprietari – spesso privati che hanno abbandonato da anni e senza
curarsene i palazzi da sgomberare – e che la nuova efficienza capitolina potrà
provare a gestire. Migliaia le persone che rischiano di restare per strada in
mancanza di una soluzione abitativa – si cercherà probabilmente di provvedere
ai più vulnerabili, donne e bambini, separandoli dai padri, ma, con la
primavera si potrebbe registrare un nuovo salto di tensione. Molto dipenderà
dalla curva pandemica che tanto influisce sulle scelte politiche operate ma – e
tornano i richiami del passato – si è sgomberato un circolo “culturale” vicino
a Casa Pound, per mostrare il pugno duro anche con la destra, ma si resta
immobili rispetto alla sede nazionale dei “fascisti del terzo millennio”
costata milioni di euro alla collettività. Chiaro che si dovrebbero incontrare
meno ostacoli e minore opposizione nel cacciare i palazzi in cui convivono
autoctoni privi di reddito e rifugiati provenienti dai tre quarti del pianeta.
Realtà organizzate, anche a sinistra che hanno preferito, in campagna
elettorale, mantenere il silenzio quando non sostenere esplicitamente il centro
sinistra con la promessa di un trattamento di riguardo per le difficoltà
abitative di cui si sono fatte portatrici. C’è da sperare che abbiano ben
riposto le loro speranze. Che alle parole pronunciate dal neo sindaco negli
incontri pubblici seguano fatti concreti ma nelle occupazioni si avverte quella
tensione pesante che precede gli interventi prefettizi.
E per fare un parallelo da Roma spostiamoci a Napoli dove, due settimane
fa, è stata realizzata, anche lì su decisione di un sindaco di centro sinistra
una “operazione anti degrado” alla Galleria Umberto, sgomberando tutti i
clochard e recuperando grande quantità di rifiuti.
“L’emergenza clochard è stata finora gestita in maniera errata permettendo
che si creassero dei veri e propri accampamenti che hanno portato degrado e
condizioni di vita poco consone a delle persone”, hanno spiegato i
rappresentanti, di cenro sinistra, delle istituzioni partenopee, in primis
l’assessore alla Sicurezza, De Jesu un tempo questore della città r il
consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli. Per carità nessuna violenza,
almeno secondo quanto riportato dalle agenzie. I senza fissa dimora (evitiamo
di reiterare il romantico termine clochard che allude ad una scelta di vita),
hanno avuto l’opportunità di tenere con se coperte e cappotti, di ricevere
medicine e cibo confezionato. Sono state date loro persino buste d’acqua.
Quanta bontà. Un’operazione avvenuta in nome del decoro o piuttosto del denaro?
Numerosi i commercianti con i negozi in galleria che hanno applaudito la
stretta del nuovo sindaco Manfredi che ha trovato il tempo per dire “c’è
bisogno di assistenza ma anche di decisione”. Sono intervenuti in soccorso gli
enti caritatevoli mentre le autorità comunali, dopo lo sgombero, sono
scomparse. Col risultato che in piena emergenza freddo e a fronte di una
popolazione di senza fissa dimora stimata intorno alle 4000/5000 persone (manca
un censimento), si è trovato alloggio per meno di 400 persone. Gli altri e le
altre stanno già ricostruendosi giacigli di fortuna.
Operazioni simili sono avvenute, quasi in contemporanea – come si diceva –
in diverse città italiane tanto da far pensare ad ordini dall’alto e gli
interventi attuati non permettono di capire se il Comune che se ne è fatto
carico abbia una amministrazione di centro destra o di centro sinistra.
In conclusione, per quella che sembra essere una vera e propria nuova
ondata repressiva è utile segnalare alcuni elementi di contenuto. Il primo è
che nel paese di Draghi, ma accade già da molti anni ha diritto ad esistere
solo l’opposizione compatibile, tutto il resto è da spazzare. Al punto – e
questo segna un ritorno alle politiche securitarie che sono all’origine della
nascita del Pd – secondo cui dei “poveri” e di chi contesta non si deve
parlare. La stessa definizione “degrado” con cui si giustificano ordinanze ed
azioni repressive dovrebbe far indignare almeno chi ha gli strumenti culturali
per reagire. Può essere elemento di degrado un edificio lasciato cadere in
pezzi, un quartiere con le strade rotte e senza mezzi di trasporto, una via
senza illuminazione. Definire “elementi di degrado” le persone in difficoltà
attiene più ad una concezione fascista del mondo. E dirlo mentre il Paese, a
causa delle scelte economiche e politiche portate avanti, spinge sempre più
persone in basso, è aberrante. Ma per una cultura di destra che ormai fa parte
dell’imprinting di forze politiche che si dichiarano progressiste come dei
mezzi di informazione a cui fanno riferimento, questo è normale. La povertà,
l’assenza di reddito, di casa, di prospettive, sono colpe da pagare con
sgomberi e mazzate.
E quella che si continua a combattere è una guerra contro i poveri, contro
gli scarti dell’umanità, contro chi non consuma abbastanza, contro chi dissente
radicalmente dal ciclo produci consuma crepa. Questo con buona pace di chi
continua ancora ad accettare, anche a sinistra, una ideologia dominante per cui
resta permanente il rischio di una “guerra fra poveri”, Una chiave consolatoria
che costringe chi ci crede o a reagire in perenne difesa, come se il problema
fosse quello dell’evitare la barbarie fra ultimi e penultimi e permette a chi
vuole farne uso di distribuire ogni tanto briciole di carità atte unicamente ad
allontanare qualsiasi spettro di scontro sociale. I ragazzi e le ragazze che
hanno preso le botte ma che in piazza intendono tornarci perché il mondo che
gli stiamo lasciando fa loro schifo, hanno un terreno davanti tanto enorme
quanto irto di rischi e pericoloso. Che se li riprendano loro i luoghi della
critica e che ne realizzino di nuovi e meno stantii. Sarebbe il segnale di
uscita da una pandemia non solo nazionale, che dura da almeno quaranta anni.
Dalla parte degli studenti, dalla parte
della scuola
L’appello di un gruppo di insegnanti: “Esprimiamo piena e incondizionata
solidarietà agli studenti che manifestano e vengono manganellati. Non c’è
diritto allo studio in una scuola che trasforma gli studenti in manovalanza
aziendale gratuita”.
Il 23 gennaio, a Roma, studenti e studentesse hanno levato la
propria voce in piazza contro l’attuale assetto della scuola italiana, con
particolare riferimento ai PCTO, gattopardesca mutazione dell’alternanza
scuola-lavoro. L’episodio che ha motivato questa ennesima azione di protesta è
la morte, proprio durante il PCTO, di Lorenzo, un ragazzo di 18 anni che
frequentava un centro di formazione professionale. Tale centro aderisce al
“sistema duale”, che assegna un ruolo strategico alle esperienze formative in
azienda: per questo chi sa vedere solo una singola parte e non il complesso dei
processi strutturali in corso si è affrettatto a fare dei distinguo rispetto ai
PCTO operanti nelle scuole non direttamente professionalizzanti.
Gli studenti di Roma non sono d’accordo, e hanno deciso
di scendere in piazza. Non per additare le irregolarità o le negligenze che
avrebbero influito sull’incidente secondo alcune ricostruzioni, ma per ribadire
la loro contrarietà all’alternanza scuola-lavoro, per qualunque studente e
comunque la si voglia chiamare. Lo Stato li ha presi a manganellate.
Come lavoratori e lavoratrici della scuola, esprimiamo
piena e incondizionata solidarietà agli studenti che manifestano e vengono
caricati, che chiedono diritto allo studio e vengono manganellati.
La scuola italiana, in questo modo, continua a negare e
calpestare nei fatti proprio quel diritto allo studio che dovrebbe essere la
ragione della sua esistenza.
Non c’è diritto allo studio in una scuola che trasforma
gli studenti in manovalanza aziendale gratuita e i docenti in esecutori di
protocolli burocratici conformati a interessi altrettanto aziendali.
Non c’è diritto allo studio in una scuola che proclama il
trionfo dell’interdisciplinarità facendo a pezzi i contenuti di ogni
disciplina.
Non c’è diritto allo studio in una scuola che sbandiera
l’avvento del “pensiero critico” e sostituisce le faticose conoscenze con le
superficiali “competenze”: ottuso “saper fare” da analfabeti funzionali.
Non c’è diritto allo studio in una scuola che annuncia la
fine del nozionismo e promuove i test a crocette.
Dopo due anni di pandemia, continuiamo a invocare invano
il potenziamento e la ristrutturazione dell’edilizia scolastica, il
potenziamento dei trasporti, l’istituzione di presidi sanitari nelle scuole, le
assunzioni di personale docente e ATA che consentano di ridurre il numero di
alunni per classe.
Tutte misure necessarie e richieste da ben prima della
pandemia, ma che oggi, unite a una politica antipandemica organizzata con
criterio, eviterebbero il disastro sanitario, didattico, psicologico e sociale
dell’insensato apri-chiudi continuo e della catastrofica didattica a distanza.
Tutto ciò è negazione del diritto allo studio.
Per tutto ciò gli studenti scendono in piazza. Per tutto ciò ricevono le
manganellate dello Stato. E la nostra solidarietà.
Per aderire: https://chng.it/HZN7jWXh
La scuola classista nelle note dei presidi – Paolo Di
Paolo
«Tutto ciò favorisce il contesto di
apprendimento». La polemica che si è scatenata nei giorni scorsi sui documenti
di autovalutazione di alcune scuole superiori ha a che fare con una frase così.
La scuola mette in sequenza una serie di dati oggettivi (presenza di studenti
non italiani, studenti con disabilità, contesto socio-culturale prevalente), su
richiesta del ministero dell’istruzione. Fin qui, niente di (troppo)
discutibile. O forse sì. Ma lo è di sicuro l’accento che alcune scuole hanno
messo su questo o quel dettaglio (la presenza di figli di portieri!); lo sono
le osservazioni su ciò che facilita o non facilita l’apprendimento.
L’orgoglio del liceo Visconti di Roma –
pieno centro storico – sugli allievi illustri e sull’omogeneità del contesto
sociale è penoso. La sottolineatura del liceo Falconieri di Roma sulla
«presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri» è
insignificante e penosa. La considerazione del liceo D’Oria di Genova sul fatto
che «poveri e disagiati costituiscono un problema didattico» è quella che
rilancia gli interrogativi essenziali. Che cosa costituisce «un problema
didattico»? Che cosa favorisce o sfavorisce «il contesto di apprendimento»?
Siamo nel 2018, ma sembra il 1958.
Nessuno nega che nel cosiddetto contesto di apprendimento entrino in gioco
infinite variabili, ma l’«estrazione medio-alto borghese» degli alunni di cosa
sarebbe garanzia? Basta mettere piede (mi capita almeno una volta a settimana)
in una scuola per capire, senza chiamare in causa pedagogisti o don Milani, che
solo su un’idea di istruzione pubblica retriva, anacronistica, classista può
basarsi una simile convinzione. Ho visto contesti di apprendimento sulla carta
privilegiatissimi non produrre alcunché di significativo, in termini di
passione, attenzione, risultati effettivi; ho visto contesti di apprendimento
svantaggiatissimi sulla carta dare sorprese, esprimere potenzialità
straordinarie. Non è retorica alla buona. È un dato di fatto. L’arroccamento
difensivo che quelle schede di autovalutazione esibiscono è inaccettabile. E se
si fa specchio delle “pretese” di rassicurazione dei genitori, ancora peggio.
Il quadro è triste, su un piano
concreto e perfino su un piano espressivo: scambiandolo del tutto per
ipocrisia, abbiamo chiuso brutalmente i conti con il “politicamente corretto”.
Se un preside o chi per lui si esprime come in alcune di quelle schede, c’è
qualcosa che non va. Il punto non è nascondersi dietro eufemismi o formulette
opache. Il punto è che dietro quel linguaggio c’è un pensiero inquinato, che
non si vergogna più di se stesso, che si è auto-sdoganato, che si auto-valuta
tutto sommato ineccepibile. Che c’è di male? Molti sono saltati con stupore
sulle sedie. Che c’è di male? Tutto. Il modo di esprimersi, il pensiero che gli
dà sostanza, la pericolosa convinzione di appartenere – perfino tra le mura di
una scuola! – a una cerchia privilegiata e monolitica, al riparo dal confronto
con altro, dal contatto con gli altri, al riparo dalla realtà. E se il problema
(o la colpa) è da cercare nelle domande ministeriali, cari presidi, alzate la
mano e ditelo.
Scuola,
non mercato - Teachers For Future
Italia
Nel luglio 2015 il varo
della riforma della scuola, fortemente voluta da Renzi, fu salutato dalla
stampa confindustriale come un salutare salto verso la modernizzazione della
scuola italiana. L’alternanza
scuola-lavoro in particolare fu spinta dall’idea di risolvere la questione
della disoccupazione ma, dopo sette anni, saremmo curiosi
di conoscere i dati relativi a quanti nuovi occupati siano veramente da
ricondurre alle attività di “alternanza” svolti dalle scuole. Di certo ci sono
l’imponente numero di ore sottratte alla formazione scolastica, alla lettura di
libri, alla visione di film, a visite nei musei, ecc. e l’altrettanto
importante ammontare di euro stanziati a favore di enti, fondazioni,
associazioni ecc.
Per chi
come noi crede nella necessità primaria di rendere la scuola pubblica sana,
efficiente, democratica e capace di formare i cittadini che ci tireranno fuori
dalla catastrofe liberista va detto che l’alternanza è il B52 della scuola
democratica e del futuro dei ragazzi. Peraltro, parlando di alternanza è, con
dolore necessario ricordare che proprio il giovane studente Lorenzo
Parelli è stato la cavia mortale della catena dello sfruttamento
nelle scuole.
Ma le
riforme continuano, anche se servirebbe la sospensione di ogni
“sperimentazione” e di ogni intervento legislativo sull’istruzione fino a fine
emergenza, perché il mondo della scuola in questo momento avrebbe
bisogno di tempo per riflettere e ritrovarsi, di individuare con
calma, attraverso un ampio dibattito democratico, le proprie autentiche
priorità, non di improvvisate “riforme” che aggiungono confusione a confusione,
proseguono sulla linea dei disastri degli ultimi venticinque anni e vengono
imposte frettolosamente da pochissimi (con la scusa di un Pnrr che dovrebbe
essere di tutti) a un sistema già duramente provato, senza nessuna chiarezza su
motivazioni, finalità e interessi che portano avanti e sulle conseguenze che
potrebbero avere.
Il Liceo
quadriennale, ultima novità in ordine di arrivo, sponsorizzata con
enfasi dal ministro Patrizio Bianchi ne è proprio l’esempio plastico. Ennesimo
taglio drastico all’istruzione pubblica, fatto passare per innovazione,
nonostante il Consiglio di Stato abbia sonoramente bocciato questa
sperimentazione. Nell’ambito di questo grave rilancio della scuola
superiore quadriennale appare meritevole di denuncia anche la comparsa dei
cosiddetti “TED”, Licei della Transizione Ecologica Digitale, incentrati su
materie STEM, promossi da tanti soggetti appartenenti al mondo delle imprese.
Si andrà a scuola di transizione ecologica e digitale insomma ma per i giovani
della generazione di Greta Thunberg non è tanto un sogno quanto un incubo.
Nel
nostro primo Manifesto, chiedevamo al MIUR “l’aggiornamento delle linee guida
per la gestione dell’emergenza climatica in modo tale da concedere spazio
all’attuale emergenza ambientale ed ecologica”, parlavamo di “cambiare la
scuola per cambiare il sistema”. Assistiamo invece all’entrata a
gamba, non tesa ma tesissima, delle multinazionali nel sistema formativo
italiano. Assistiamo al tentativo, assolutamente esplicito di trasformare le
scuole italiane in fondazioni private, all’istruzione pubblica targata con i
marchi di grandi aziende, all’idea nefasta di scuola completamente subordinata
alle esigenze di impresa. La cosa raccapricciante è che tutte queste
aziende, presentandosi come leader di sostenibilità, avranno la possibilità di
intervenire direttamente nella didattica, riscrivendo i curricola scolastici, e
al contempo di gestire anche i PCTO. Studenti come polli da allevamento del
Capitale insomma.
A
questo si aggiunga che è assurdo trasmettere nella didattica
l’idea che affrontare la crisi climatica resti esclusiva delle materie
scientifiche, quando dovrebbe essere piuttosto un approccio trasversale a tutte
le materie di studio. Di transizione lor signori vedono con chiarezza
una cosa: quella dei soldi che dalle casse dello Stato transitano verso nuove
istituzioni, fondazioni, enti privati dove esercitare strategicamente
un’educazione rigidamente aziendalista e liberista, dove agli alunni venga
anzitutto insegnato a “credere, obbedire e combattere” per i profitti delle
aziende. Il resto.. è noia mortifera e pubblicità. In definitiva,
se il ministero della pubblica istruzione capisse che l’educazione è importante
per far fronte alla crisi climatica, si prenderebbe in carico il progetto e lo
affiderebbe a Ong e Associazioni Ambientaliste ma evidentemente sta facendo l’ennesimo
favore a Confindustria.
Chi
c’è dietro i licei Ted
Pochi giorni fa sono stati inaugurati i nuovi licei TED:
il Liceo per la Transizione Ecologica e Digitale. Obiettivi di questo nuovo
corso di studi, per ora avviato in forma sperimentale da 28 istituti, ma che
punta come sostiene lo stesso ministro Bianchi a 1000 istituti dall’anno
prossimo, sarebbero quelli di “preparare gli studenti a un nuovo futuro
sostenibile e digitale” in collaborazione, manco a dirlo con le imprese.
Queste,
come abbiamo scoperto, sono rappresentate da Elis, consorzio che vanta la
partecipazione di 100 imprese, per una capitalizzazione di circa 2000 miliardi.
La lista di queste? Troviamo nomi quali Leonardo (armamenti), ManPower
(schiavismo legalizzato), Eni (…), Snam (Gasdotti, fra l’altro promotore del
progetto!!!), Toyota, DHL, Autogrill, Anas e tante altre.
Tutti
nomi estremamente legati alla transizione ecologica… in negativo!
Questi
personaggi si impegneranno “alla realizzazione dei programmi didattici,
aiutando a individuare le competenze richieste dal futuro mercato del lavoro”.
In
pratica, come al solito, ci si nasconde dietro la “transizione ecologica” per
portare avanti i propri interessi economici, smarcandosi dalle proprie
responsabilità ambientali e promulgando una dottrina inquietante: l’approccio
tecnico è l’unica soluzione al problema climatico.
Non
stupisce, infatti, che “le basi del percorso quadriennale saranno le discipline
STEM [Science Tecnology Enginering Mathematics]” e tanti saluti ad un approccio
politico e sociale al problema.
È fin
troppo evidente come questo percorso ha il solo scopo di formare manodopera
specializzata nel digitale (la transizione ecologica è citata sempre di
facciata), settore “trainante” che, oltre ad essere causa di una frazione
considerevole delle emissioni di CO2, è complice consapevole del livello
asfissiante di controllo e repressione in ambito lavorativo e non di questi
ultimi tempi.
Il
disgusto però arriva verso la fine dell’articolo, quando si enuncia
pomposamente che questo progetto è “voluto e sostenuto dai giovani”, citando ad
esempio che “Proprio all’istituto di Brindisi […] si è trasferito P. Ruggiero,
giovanissimo attivista che sulle tematiche del surriscaldamento ha già scritto
un libro”. Della serie, se i vostri idoli ci vanno, andateci anche voi, tanto
siete giovani e non capite niente…
Dopotutto
questo atteggiamento non stupisce, visto che Elis vanta di aver ben 280 “role
model” (personaggi a cui ispirarsi) che utilizzerà durante le attività
didattiche: solo a noi questa sembra un’attività invasiva e feroce delle
pubblic relation aziendali nell’istituzione pubblica?
Solo
a noi sembra surreale che queste società da 2000 miliardi vengano a formare
insegnanti e studentesse su “come salvare il pianeta lavorando da noi”?
Solo a
noi sembra una violenza inaudita incarcerare i giovani nel mondo del lavoro,
costringendoli ad impieghi inquinanti o mal pagati, ricattandoli con il fatto
che questo è “un mondo dove si stima che l’80% dei lavori futuri richiederà
competenze Stem”?
Ci pare
invece molto chiaro come non servano né licei specializzati, né una tecnocrazia
illuminata, né percorsi PCTO “green” per dare “consapevolezza ai giovani”.
Chiunque
esca da una scuola è già fin troppo consapevole della mancanza di futuro che ha
davanti, @fridaysforfuture ce
l’ha mostrato palesemente. Quello che manca sono le possibilità di mettersi
veramente in gioco per questo mondo, evitando quell’abisso di depressione e
apatia in cui ci si getta sempre più spesso per sopravvivere alla
“consapevolezza”.
Ma, che
lo vogliano o no, queste possibilità ce le riprenderemo…
Tratto
da Ecologia Politica Milano
qui un'intervista con Federico di Ecologia Politica Milano sui licei TED
Perché gli economisti sbagliano sulla scuola - Anna Angelucci
Per gli economisti
– l’élite culturale che egemonizza il discorso sulla scuola oggi in Italia – lo
studente conta solo in relazione al profitto che sarà in grado di produrre. Una
visione asfittica dell’istruzione e dell’educazione, concepite nei soli termini
del vantaggio economico.
Il vento di primavera dà vita
a tante piante; da queste parti è passato un mercante, lui non sa cosa è
veramente prezioso, non ha trovato pietre e se n’è andato.
(Antico canto popolare cinese)
“Sono quei benedetti affari che imbrogliano gli affetti”
(A. Manzoni)
Beatus ille qui procul negotiis
(Orazio)
Due sono i riferimenti che mi paiono necessari per
tratteggiare la cornice di un ragionamento sui rapporti tra scuola, politica,
economia guardando al presente e immaginando il futuro.
Il primo rimanda a Gramsci ed è contenuto in un libro collettaneo dedicato
all’opera pedagogica di Mario Alighiero Manacorda, il quale affermava che
“nella scuola […] Gramsci individua uno degli osservatori più significativi per
un’analisi delle modalità di assimilazione delle masse a forme di sapere che
sono l’espressione dell’egemonia di un ceto ristretto di intellettuali”[1].
Il secondo risale agli anni Settanta, quando nei suoi
libri (ricordiamo Pedagogia come pratica della libertà e Pedagogia
degli oppressi) il pedagogista brasiliano Paulo Freire contrapponeva due
tipi di educazione: quella innovativa, rivoluzionaria – critica,
problematizzante, emancipante, che nasce dal dialogo educativo, da una
progressiva elaborazione formativa e rielaborazione comune del sapere – e
quella tradizionale, nozionistica, mnemonica, inutilmente ripetitiva e
sommativa, che lui definiva, con straordinaria lungimiranza, ‘depositaria, bancaria’,
perché tesa all’accumulo acritico di contenuti non rielaborati.
Mi pare dunque che il focus gramsciano sul concetto di
egemonia di una élite e sulla scuola come luogo di assimilazione delle masse a
forme di sapere che sono espressione di quell’egemonia, così come il paradigma
economicistico dell’educazione denunciato da Freire, siano i due cardini
imprescindibili di una riflessione sull’attuale condizione della scuola in
generale e su quella delle giovani generazioni in particolare.
L’élite culturale che egemonizza il discorso sulla scuola
è oggi in Italia quella degli economisti, legittimati alla gestione del sistema
d’istruzione – così come evidentemente, più in generale, alla gestione del
potere – in quanto ‘tecnici’ capaci di gestire la governance di
istituzioni fondate su paradigmi neoliberisti.
Come ha chiarito bene Emiliano Brancaccio, siamo al
cospetto dell’“imperialismo metodologico” del pensiero economico neoclassico,
il cui nucleo fondativo è il concetto di “individuo che agisce per massimizzare
un obiettivo sotto il vincolo delle risorse”[2].
Questo spiega, da un lato, lo strutturale definanziamento delle risorse
economiche per la scuola in nome del vincolo, cui resta fedele persino
l’insufficiente stanziamento per l’istruzione della Next Generation EU del
PNRR[3],
dall’altro la diffusione capillare di principi e pratiche correlati
all’individuo e alla sua performance.
Competenza, intesa come prestazione del singolo alunno
fin dalla scuola dell’infanzia; competizione e concorrenza tra studenti;
standardizzazione degli apprendimenti finalizzata alla misurazione comparativa
e competitiva dei singoli, delle classi e delle scuole; classificazione
strumentale dei risultati; incentivi all’autoimprenditorialità del bambino o
dell’adolescente in formazione – una delle competenze chiave indicate dall’Unione
europea – ormai definitivamente concepito come capitale umano:
così il premier Draghi, nel suo discorso d’insediamento al Senato, parlando
delle nuove generazioni e delle nostre responsabilità nei loro confronti; così
la stragrande maggioranza degli economisti, cui fanno eco media mainstream
autoridottisi a meri amplificatori acritici dei discorsi del potere; così parti
sempre più ampie di opinione pubblica, progressivamente indotte a concepire
istruzione e educazione – nel senso etimologico del termine –
nei soli termini del vantaggio economico.
Mi riecheggiano nella mente le parole di Giovanni Verga,
lette in classe al mattino con generazioni di studenti, chini insieme sulle
pagine di Rosso Malpelo, in un atto – quello della lettura delle
pagine cartacee di un libro di letteratura – che sembra diventare
drammaticamente ogni giorno più desueto, nelle nostre aule invecchiate, sempre
più fredde e fatiscenti ma riempite di schermi di ultima generazione:
“Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava,
e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai
era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il
sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre
piangeva e si disperava come se il figliolo fosse di quelli che guadagnano
dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò
a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei
non guadagnava nemmeno quel che si mangiava”.
Ci diciamo, in classe, che Malpelo soffre per le
disperate condizioni di salute del suo compagno; gli regala i pantaloni di
fustagno cui tiene tanto perché erano di suo padre, gli compra con i suoi pochi
soldi una minestra calda per sostentarlo, ma tutto è vano perché il bambino sta
morendo, consumato dalla malattia, dal lavoro in miniera, dalla debolezza,
dagli stenti. Malpelo soffre ma, educato a suon di botte e di fatica, non
capisce perché la madre di Ranocchio si mostri così disperata: quanto può valere
un figlio che non guadagna niente? Commentiamo così, con gli studenti, al
mattino, a scuola, leggendo un racconto e aprendo sguardi sul mondo,
l’apparente contraddizione di Malpelo, che si preoccupa per Ranocchio ma non
comprende perché sua madre pianga per lui.
È, questa, la nozione di capitale umano,
incarnata e descritta nel personaggio letterario di un bambino-minatore più
efficacemente che in qualunque trattato degli economisti della scuola di
Chicago o dell’OCSE o di Confindustria o Fondazione Agnelli: la riduzione
dell’essere umano alla sua mera capacità produttiva, misurata solo in termini
economici e in relazione a valori di mercato cui tutto è funzionale,
istruzione, salute, benessere, affettività, vita.
La nozione di capitale umano istituisce
oggi – per gli economisti che governano direttamente e indirettamente il
sistema d’istruzione – la sola relazione possibile tra i giovani e la scuola.
“Anche il capitale umano paga un
prezzo alla pandemia”[4],
hanno dichiarato il presidente della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto e
Barbara Romano in un articolo che evidenziava, a conclusione di un drammatico
anno scolastico segnato dalla pandemia e dal lockdown, “le ripercussioni sui
futuri guadagni e le prospettive di lavoro degli studenti”. Stime che per i due
autori quantificano le perdite di apprendimento in termini economici non solo
per la riduzione dei guadagni di ogni studente nell’arco di quarant’anni della
sua futura vita lavorativa ma che, sommati, si traducono in una perdita di alte
percentuali di PIL.
E ancora, è di pochi mesi fa un articolo di Tito Boeri e
Roberto Perotti in cui si afferma che “la priorità è quindi accertare i ritardi
formativi causati dalle chiusure e individuare gli studenti più bisognosi di
aiuto. A questo scopo sarebbero necessari test standardizzati (quasi a costo
zero), che servirebbero anche per valorizzare il lavoro degli insegnanti: sono
una misura della loro importanza nell’accumulazione di capitale umano”[5].
Non è vero che i test standardizzati siano “quasi a costo
zero”, se leggiamo la recente relazione della Corte dei Conti sulla gestione
finanziaria dell’istituto Invalsi[6].
Ma soprattutto non importa che ci sia un’emergenza psichiatrica conclamata in
costante aumento da anni nella fascia 0-18 anni e che la pandemia da
coronavirus abbia fatto fare un balzo in avanti ai disturbi e al disagio tra
bambini e adolescenti “da far tremare i polsi”[7].
Le conseguenze psicologiche, metacognitive, affettive, relazionali; le
implicazioni pedagogiche e sociali del distanziamento fisico, dell’imposizione
del digitale, dell’impossibilità del contatto, della limitazione
dell’esperienza in un mondo sempre più virtuale, del cono d’ombra sul presente
e dell’ipoteca esistenziale sul futuro: sembra che tutto
questo scompaia di fronte alla perdita del potere d’acquisto, di fronte alla
formazione di un capitale umano inadeguato e carente, di
fronte alla riduzione di una produttività finalizzata esclusivamente
all’accumulazione materiale.
È in questo asfittico orizzonte economicistico che
Ranocchio, malato, non conta più nulla per il padrone, che se ne disfa come di
un oggetto ormai inutile, ed in cui anche agli occhi di Malpelo il dolore di
una madre per un figlio improduttivo appare incomprensibile e insensato, così
come allo sguardo sbagliato degli economisti lo studente
conta solo in relazione al profitto che sarà in grado di produrre. Ed è in
questo asfittico orizzonte economicistico che la scuola del terzo millennio
celebra la sua mortifera trasvalutazione: con i test standardizzati che misurano gli
apprendimenti, con i registri elettronici che dematerializzano i
rapporti scuola-famiglia, con l’imposizione coatta di strumenti digitali
che disincorporano le relazioni e l’esperienza di
conoscenza, con la progressiva burocratizzazione del lavoro del docente e la
trasformazione dello studente in utente e cliente che snaturano le
nostre ontologiche condizioni esistenziali umane e cancellano in tutti noi la
spinta essenziale del desiderio.
NOTE
[1] C. Covato, C. Meta, Mario Alighiero
Manacorda, un intellettuale militante. Fra storia, pedagogia e politica, RomaTre
Press, Roma 2020.
[2] Redazione ROARS, Le mani dell’economia
sulla Scuola, ROARS, 11 ottobre 2021
[3] G. Carosotti, R. Latempa, Privatizzazione
e frammentazione: gli obiettivi del PNRR sulla scuola, ROARS,
17 giugno 2021
[4] A. Gavosto, B. Romano, Anche il capitale
umano paga un prezzo alla pandemia, Lavoce.info, 28 luglio 2020
[5] T. Boeri, R. Perotti, Premiare il merito.
Il voto agli insegnanti non è un tabù, la Repubblica, 14 febbraio 2021
[6] Corte dei Conti, Determinazione del 15 giugno 2021
[7] B. Gobbi, Il neuropsichiatra: “Il Covid è
stato un detonatore, tra i ragazzi è boom di ricoveri”, Il Sole 24 ORE, 20
aprile 2021
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