sabato 5 febbraio 2022

Morire di alternanza scuola-lavoro

Io Robot

 

È venuta meno la centralità della figura dell’insegnante, ridotto a un disciplinato burocrate, a cui è tolto il tempo persino di studiare e di preparare le lezioni. Mentre sino a poco tempo fa la scuola era contraddistinta da un tempo improduttivo, era un intervallo sottratto alla produzione, ora non solo il linguaggio della sua gestione è diventato quasi esclusivamente economico, ma in parte anche la pratica dell’insegnamento - Romano Luperini

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Vergogna - Redazione Roars

 

Che la notizia della tragica morte di un 18 enne riguardi un tirocinio o uno stage, uno studente di un tecnico, un liceo o un professionale, non cambia la sostanza delle cose. L’alternanza scuola-lavoro, oggi PCTO – Percorsi Trasversali per le Competenze Trasversali e Orientamento – deve essere abolita.

 

L’alternanza Scuola Lavoro assicura ai giovani, oltre alle conoscenze di base, l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro.

Riforma Moratti, Decreto Legislativo n. 77/2005

L’alternanza è utile, ma il sistema scolastico italiano preferisce troppo l’astrazione alla praticità. Molti direttori del personale si lamentano di avere a che fare con ragazzi disorientati, che non hanno idea di come si sta in un’azienda o di come ci si comporta con capi o colleghi”.

Andrea Gavosto, Fondazione Agnelli, 20/11/2013

La cosa più urgente, non la più importante, è l’alternanza scuola-lavoro. Noi abbiamo avuto un crollo totale degli occupati con un aumento dell’occupazione giovanile impressionante…Nella Buona scuola si prevede finalmente l’alternanza scuola-lavoro per ridurre finalmente quel 44% di disoccupazione giovanile

Matteo Renzi, 13/5/2015

Al centro dell’alternanza c’è insomma la vita, la realtà. Si potrebbe dire che l’alternanza è il metodo formativo nel quale ci si allena, intenzionalmente, a considerare le conoscenze (sapere) e le abilità (saper fare) come mezzi per impadronirsi di competenze nella risoluzione di problemi concreti (fine).”

Claudio Gentili, vice direttore Area Innovazione e Education Confindustria, sulla rivista  Nuova Secondaria, 10/6/2016

I campioni dell’Alternanza” è il progetto presentato dalla ministra Giannini che coinvolge sedici imprese big, tra cui McDondald’s e Fiat, per formare i ragazzi nell’ambito dell’Alternanza Scuola-Lavoro prevista dalla L.107 o Buona Scuola”.

Stefania Giannini, 16/10/2016

Cari studenti, invece di venire da McDonald’s a bigiare, venite da McDonald’s a fare Alternanza Scuola-Lavoro!

Stefano Dedola, Human Resources Director di McDonald’s Italia, 18/11/2016

L’alternanza scuola-lavoro è un modello di innovazione nella didattica […] mille tutor esterni sono in arrivo negli istituti superiori per agevolarla

Valeria Fedeli, 13.10.2017

Lega e Movimento 5 Stelle vogliono abolire l’alternanza scuola lavoro

17/5/2018

L’alternanza scuola-lavoro diventa PCTO, “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento

Marco Bussetti, Lega, 4/9/2019

L’alternanza scuola lavoro non deve essere obbligatoria

On. Azzolina, non ancora ministra, membro della VII Commissione istruzione   presso la Camera dei Deputati, 14.06.2018

Nonostante la pandemia “il monte ore dei PCTO non verrà ridotto. Ogni scuola troverà il modo per i recuperi e per completare il progetto previsto

Ministra Lucia Azzolina, M5S, 26.11.20

La triade università- scuola- azienda va potenziata […] Le imprese hanno bisogno oggi di persone, che siano specializzate ma anche molto flessibili […] Bisogna accompagnare fin dalla scuola media gli studenti nelle imprese”

Ministro Patrizio Bianchi, PD, 19.11.2021

https://www.roars.it/online/vergogna/

 

 

Era solo questione di tempo, purtroppo - Michele Sicca (Rete degli studenti medi)

 

Le forze dell’ordine che manganellano gli studenti mentre protestano per la morte di un compagno che faceva un tirocinio in fabbrica sono le stesse che non hanno opposto resistenza ai neofascisti che attaccavano la sede della Cgil. È questo il senso per la democrazia del governo Draghi?

Nei giorni scorsi in tutta Italia studentesse e studenti si sono mobilitati in presidi e cortei per ricordare la morte di Lorenzo Parelli, un ragazzo di 18 anni, un ragazzo come qualsiasi altro, morto ad Udine in un incidente sul lavoro mentre svolgeva uno stage previsto dal suo percorso scolastico. La notizia, la prima nel suo genere in Italia, ha lasciato sgomenti gli studenti dal Nord al Sud del Paese. Morire “di scuola” è inaccettabile e accanto al dolore non si può fare a meno di provare tanta rabbia.

Quanto accaduto, seppur per certi versi imprevedibile, di certo, in un Paese che conta 1.404 morti sul lavoro l’anno, non era inimmaginabile. In un mondo del lavoro precario ed insicuro, in cui vengono tolte anno dopo anno sempre più tutele, probabilmente era solo questione di tempo prima che ci scontrassimo con la dura realtà. Seppur Lorenzo non stesse svolgendo propriamente i Pcto (l’ex Alternanza scuola-lavoro), bensì un percorso di formazione duale presso un’azienda specializzata, la riflessione non può non andare alla nota Buona scuola del 2015 che ha introdotto e disciplinato tutti i vari percorsi lavorativi nel corso delle superiori. Ampiamente contestata già allora, rimane una legge che ha consentito una progressiva aziendalizzazione della scuola pubblica, in cui il percorso formativo di ciascuno studente è sempre più finalizzato esclusivamente all’inserimento nel mondo lavorativo, permettendo di fare esperienze di lavoro già in classe.

Dinanzi ad un mondo del lavoro in difficoltà, in cui abbondano contratti precari, scarse tutele, zero investimenti in sicurezza, riconoscere e legalizzare da parte della scuola attraverso stage e Pcto questa tendenza non può non portare ad altro se non a una normalizzazione del fenomeno. La morale che dunque si impone nella narrazione comune e in classe è quella del lavoro ad ogni costo, qualsivoglia siano le condizioni e la paga. E la scuola, purtroppo, continua ad inseguire il mondo lavorativo senza riflettere realmente su quelli che dovrebbero essere i propri obiettivi e le proprie finalità, educando alla precarietà, facendo apparire come casuale che si possa morire a 18 anni lavorando gratis.

La scuola dovrebbe essere la comunità dove si forma la coscienza e la personalità del singolo, dove si forma il cittadino del domani, conscio dei propri diritti e dei propri doveri, dove si rende lo studente in grado di scegliere da sé il proprio futuro, non il luogo atto a produrre esclusivamente individui atomizzati e specializzati da inserire nel mondo lavorativo. Proprio per questo occorrerebbe, invece, introdurre percorsi obbligatori che abbiano come finalità quella di formare gli studenti sul funzionamento del mondo del lavoro, passando dallo Statuto dei lavoratori alle nuove norme sulla sicurezza, studiando il funzionamento dei contratti e cosa può essere previsto al loro interno e cosa no.

Dopo una settimana di mobilitazioni in tutto il Paese, dopo che gli studenti e le studentesse hanno mostrato vicinanza, sensibilità e anche paura nei confronti della morte di Lorenzo, dal governo e dal ministero dell’Istruzione è arrivato solo silenzio. Di contro invece a Roma, Torino, Napoli e Milano si sono verificate cariche violente sugli studenti in seguito alle agitazioni, l’ennesima dimostrazione della totale incapacità da parte dello Stato non solo di ascoltare le istanze studentesche, ma anche di gestire il dissenso nei confronti delle istituzioni e la normale democratica manifestazione delle proprie idee. Nel silenzio di un Paese che non riesce a discutere di giovani e di futuro, rimane indelebile la ferita lasciata dalla morte di Lorenzo, morto “di scuola”.

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Il ritorno dei manganelli – Stefano Galieni

 

Fanno riflettere molto le manganellate date a titolo gratuito agli studenti che in varie città italiane hanno osato manifestare in protesta, chiedendo giustizia per Lorenzo Parelli, studente diciottenne di Udine. Lorenzo è morto mentre svolgeva un PCTO (Percorso per le competenze trasversali e per l’orientamento) quella che per sintesi chiamiamo “alternanza scuola lavoro”. Una morte orribile ed inaccettabile che ha visto montare nelle piazze rabbia e dolore. Le ragazze e i ragazzi che si sono radunati nelle in molte città non erano i violenti black bloc- neanche in tal caso ci sarebbero state sufficienti giustificazioni – ma giovani che forse per la prima volta nella vita, hanno incontrato il volto duro del potere. Solo un paio di giorni dopo al Pantheon a Roma, si sono radunati circa 300 ragazzi e giù bastonate come se piovesse. La scena si è ripetuta nei giorni seguenti a Torino, Milano, Napoli. La scuola è tornata, per un istante, in prima pagina e non per parlare di Dad o di distanziamenti o contagi ma di loro, le studentesse e gli studenti, dotati di un sapere critico come non ce li ricordavamo. Prima a Roma, poi a Torino, Milano, Napoli, stessa ricetta, qualche mazzata sulle ossa perché per loro la critica al potere, al sistema scolastico, alla buona scuola che fa entrare in classe come un morbo la normalità della morte in un cantiere, non è ammessa. C’è stato, fra i più anziani come chi scrive, chi ci ha colto un nesso con le prime avvisaglie di un fuoco coperto sotto la brace, come accadeva negli anni Settanta ma non lasciamoci ingannare. La frammentazione delle vite, dei tempi e un distanziamento sociale iniziato molto prima della pandemia, a suon di lezioni di individualismo spicciolo, rende ardua ogni comparazione. Negli anni Settanta (ma allora erano diversi tanto il sistema comunicativo quanto la capacità di rendere memoria stabile la coscienza collettiva), si sarebbe parlato per giorni di questa oscena morte. E ancor più sarebbe divenuto tema di discussione quello dei pestaggi operati dalle sedicenti forze dell’ordine. Anche quel luogo di rappresentanza democratica che un tempo era il parlamento, avrebbe dovuto discuterne, non restare assente. Oggi sono pochi i parlamentari a protestare e infinitesimo pare il ruolo degli organismi di rappresentanza. L’ipocrisia governativa parla della necessità di un dialogo con i giovani, balbetta frasi di circostanza ma nulla più. Ci sarebbero state, quaranta, cinquanta anni fa, piazze piene per giorni e una morte del genere avrebbe costretto anche la pubblica opinione ad aprire una riflessione più ampia tanto degli omicidi sul lavoro (92 nel solo mese di gennaio quest’anno). Nessuno avrebbe osato parlare di incidente o fatalità, nessuno squallido commentatore su twitter avrebbe avuto la sfacciataggine di paragonare la morte di Lorenzo a quella di un ragazzo in gita o in un campeggio. Erano gli anni in cui nei tecnici industriali, persino nelle scuole professionali, si contestava il fatto che la formazione impartita alludeva ai ritmi di lavoro in fabbrica e che in quei luoghi di formazione, si andava riproducendo una catena di comando di cui si contestava la radice. Criticavamo selezione, orari, disciplina, autoritarismo, gli elementi strutturali per far funzionare quella che allora era ancora una produzione solo vagamente post-fordista.

Verrebbe da dire e pensare che a quelle forme radicali di contestazione era scontato doversi ritrovare ad affrontare un apparato repressivo statuale che si macchiava quasi normalmente le mani di sangue. Ci eravamo abituati e si andava in piazza sapendolo. E si era abituati all’idea che le cariche arrivavano a chi contestava il sistema di sfruttamento fra fabbrica e scuola mentre le squadracce fasciste potevano manifestare protette e indisturbate a rappresentare ordine e disciplina. Quelli erano i “bravi ragazzi” da prendere ad esempio, destinati a formare la nuova classe dirigente del Paese, tanto simile a quella da Ventennio che l’aveva preceduta. Il paragone potrà sembrare forzato ma la provocazione è inevitabile. Oggi, chi governa, con strumenti di controllo molto più raffinati – altro che dittatura sanitaria – ma a colpi di leggi repressive e securitarie che si sommano da decine di anni, a colpi di annientamento preventivo di ogni forma di conflitto che abbia parvenza di critica sociale, a colpi di una cultura dominante che sgretola sul nascere ogni forma di collettivizzazione del dissenso, trova un terreno già fertile e pochi ostacoli. E come accadeva 50 anni fa – evidentemente i manuali delle questure non sono stati aggiornati – esistono pseudo opposizioni comode, come l’arcipelago No vax a cui tutto è permesso, anche entrare nelle sedi sindacali, non rispettare le norme anti assembramento, girare senza mascherina, occupare piazze, senza che se ne paghi le conseguenze. Si un gruppuscolo di leader neofascisti sono oggi in carcere ma era il “minimo sindacale”, in fondo si tratta di pochi arnesi già sputtanati per cui entrare e uscire di galera è solo una formalità. Intanto hanno potuto traversare indisturbati le piazze centrali della capitale in centinaia, ricordando le immagini statunitensi di Capitol Hill. Un’opposizione di facciata che fa comodo, su cui tenere accesi i riflettori, che anzi rafforza il governo e la sua immagine rassicurante da buon padrone. Un buon padrone che intanto, elimina il blocco dei licenziamenti, dà il via libera agli sfratti per morosità incolpevole. I pochi e le poche che riescono a difendersi da simili violenze costituiscono una eccezione a volte tollerata più spesso presa di mira in nome della ripresa che, annunciano le sirene dell’informazione da regime, porterà prosperità per tutti. E chi si oppone non lo capisce, meritando così le cariche. I ragazzi e le ragazze delle piazze di questi giorni rappresentano una pericolosa e suggestiva eccezione, come i lavoratori della GKN e la loro battaglia sostenuta dall’intera comunità locale. Pericoli da scongiurare, soprattutto se si aggregano, se si incontrano, se rompono il vero distanziamento sociale che non è dovuto alla pandemia o alle misure per fronteggiarla.

Quasi in contemporanea il 2022 iniziava con un pugno di ferro nei confronti di chi crea problemi in quanto non in grado di consumare, degli “scarti” del Paese che vivono ai margini, spesso senza fissa dimora, sopravvivendo giorno dopo giorno unicamente grazie all’assistenza di enti caritatevoli. Uomini e donne fastidiosi perché ritenuti d’intralcio alle attività economiche. Se qualcuno di loro crepa in ipotermia, mancando le strutture emergenziali, poco importa, due righe in cronaca e tutto sparisce, un po’come gli omicidi sul lavoro. Al massimo, in assenza di materiale più notiziabile, qualche vicenda guadagna 30 secondi in più su un tg o 30 righe su un quotidiano. Il rapporto Oxfam, pubblicato pochi giorni fa, ci dice che, a causa della crisi sociale ed economica connessa alla pandemia, oltre 1 milione di persone sono precipitate in condizioni di povertà assoluta, ma questi non sono dati su cui soffermarsi, la ripresa è vicina, come si diceva e le imprese vedranno presto i soldi del PNRR. Già le imprese. E a coloro che sono impegnati nell’impresa di sopravvivere al giorno dopo?

Due esempi macroscopici che fanno da contorno a tante situazioni simili attuate in altre città italiane. Roma, Stazione Termini, da sempre rifugio di chi non ha da vivere e luogo in cui le associazioni caritatevoli sanno di incontrare ormai stabilmente i propri beneficiari. Su alcune testate è apparsa la notizia che l’esercito era intervenuto per impedire che venisse erogato cibo o generi di prima necessità a chi ne aveva bisogno. Interessante nella capitale del cattolicesimo, quella che dovrebbe essere la città dell’accoglienza e della solidarietà. Le notizie sono rimbalzate per un paio di giorni e confermate da reporter che si sono sentiti dire come tali operazioni erano utili a togliere intralci alle attività commerciali della Stazione. Ma più interessante è la smentita diramata alcuni giorni dopo dall’Esercito con una nota: “La presenza dei militari presso la stazione è tesa ad espletare un servizio di vigilanza attiva a protezione del sito, in supporto e in concorso alle Forze di Polizia, finalizzato alla prevenzione e contrasto della criminalità“. E poi: “Si ricorda che il personale di ‘Strade Sicure’ è posto a disposizione del ministero degli Interni attraverso i Prefetti che definiscono, per le esigenze di controllo del territorio e per garantire la sicurezza dei cittadini, le specifiche attività di vigilanza, sorveglianza e pattugliamento da porre in essere nelle vicinanze dei siti considerati ‘sensibili’, tra cui le stazioni ferroviarie e della metropolitana. In particolare – spiega l’Esercito – , il servizio svolto presso la Stazione Termini esula da attività o contatti con i volontari impegnati nella distribuzione di cibo ai senza fissa dimora che riparano dentro alla stazione: è pertanto del tutto infondato sostenere che i militari abbiano mai contrastato l’azione benefica di tali associazioni“. Falsità giornalistiche allora? È ancora il comunicato a chiarire “Si specifica, inoltre, che le autorità competenti in materia hanno disposto che, a causa delle restrizioni anti-Covid per garantire la sicurezza dei viaggiatori in transito ed evitare assembramenti, le donazioni alimentari e di beni di prima necessità a favore dei senza tetto avvengano all’esterno della stazione, in un’area non di competenza dei militari. Peraltro, alcune delle maggiori associazioni di volontariato che operano a Termini hanno smentito, anche oggi, su altri organi di stampa, eventuali ostacoli alla loro opera di sostegno quotidiano da parte dell’Esercito”. Traduzione dell’arrampicata sugli specchi: l’esercito permette di portare assistenza solo fuori dalla Stazione, dentro, dove magari ci si rifugia per non crepare di freddo, no. O stai al caldo e a digiuno o mangi qualcosa, magari rimedi una coperta ma lontano dal tepore, in realtà scarso, offerto da una galleria. Ovviamente nessun cenno alle necessità di ampliare i luoghi per l’emergenza freddo, nessuna programmazione per affrontare quella che ancora si ha il coraggio di chiamare emergenza e costituisce la norma. Ah dimenticavamo, ora Roma è governata da un illuminato sindaco di centro sinistra che provvederà. Peccato che lo sia sentito parlare di progetti per il futuro, di investimenti, di, immondizia, di strade e di cinghiali, ma poco di questi inutili ultimi. L’azione dell’Esercito, resa più agevole dall’alibi del rispetto delle misure anti covid sembra però essere solo un assaggio. Nonostante gli incontri delle ultime settimane cresce il timore che dopo aver colpito chi dorme per strada il prossimo passo sia quello della ripresa degli sgomberi delle abitazioni considerate “illegalmente occupate”. Un piano già da tempo predisposto dal prefetto, il solerte Matteo Piantedosi che incontra il favore dei proprietari – spesso privati che hanno abbandonato da anni e senza curarsene i palazzi da sgomberare – e che la nuova efficienza capitolina potrà provare a gestire. Migliaia le persone che rischiano di restare per strada in mancanza di una soluzione abitativa – si cercherà probabilmente di provvedere ai più vulnerabili, donne e bambini, separandoli dai padri, ma, con la primavera si potrebbe registrare un nuovo salto di tensione. Molto dipenderà dalla curva pandemica che tanto influisce sulle scelte politiche operate ma – e tornano i richiami del passato – si è sgomberato un circolo “culturale” vicino a Casa Pound, per mostrare il pugno duro anche con la destra, ma si resta immobili rispetto alla sede nazionale dei “fascisti del terzo millennio” costata milioni di euro alla collettività. Chiaro che si dovrebbero incontrare meno ostacoli e minore opposizione nel cacciare i palazzi in cui convivono autoctoni privi di reddito e rifugiati provenienti dai tre quarti del pianeta. Realtà organizzate, anche a sinistra che hanno preferito, in campagna elettorale, mantenere il silenzio quando non sostenere esplicitamente il centro sinistra con la promessa di un trattamento di riguardo per le difficoltà abitative di cui si sono fatte portatrici. C’è da sperare che abbiano ben riposto le loro speranze. Che alle parole pronunciate dal neo sindaco negli incontri pubblici seguano fatti concreti ma nelle occupazioni si avverte quella tensione pesante che precede gli interventi prefettizi.

E per fare un parallelo da Roma spostiamoci a Napoli dove, due settimane fa, è stata realizzata, anche lì su decisione di un sindaco di centro sinistra una “operazione anti degrado” alla Galleria Umberto, sgomberando tutti i clochard e recuperando grande quantità di rifiuti.

“L’emergenza clochard è stata finora gestita in maniera errata permettendo che si creassero dei veri e propri accampamenti che hanno portato degrado e condizioni di vita poco consone a delle persone”, hanno spiegato i rappresentanti, di cenro sinistra, delle istituzioni partenopee, in primis l’assessore alla Sicurezza, De Jesu un tempo questore della città r il consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli. Per carità nessuna violenza, almeno secondo quanto riportato dalle agenzie. I senza fissa dimora (evitiamo di reiterare il romantico termine clochard che allude ad una scelta di vita), hanno avuto l’opportunità di tenere con se coperte e cappotti, di ricevere medicine e cibo confezionato. Sono state date loro persino buste d’acqua. Quanta bontà. Un’operazione avvenuta in nome del decoro o piuttosto del denaro? Numerosi i commercianti con i negozi in galleria che hanno applaudito la stretta del nuovo sindaco Manfredi che ha trovato il tempo per dire “c’è bisogno di assistenza ma anche di decisione”. Sono intervenuti in soccorso gli enti caritatevoli mentre le autorità comunali, dopo lo sgombero, sono scomparse. Col risultato che in piena emergenza freddo e a fronte di una popolazione di senza fissa dimora stimata intorno alle 4000/5000 persone (manca un censimento), si è trovato alloggio per meno di 400 persone. Gli altri e le altre stanno già ricostruendosi giacigli di fortuna.

Operazioni simili sono avvenute, quasi in contemporanea – come si diceva – in diverse città italiane tanto da far pensare ad ordini dall’alto e gli interventi attuati non permettono di capire se il Comune che se ne è fatto carico abbia una amministrazione di centro destra o di centro sinistra.

In conclusione, per quella che sembra essere una vera e propria nuova ondata repressiva è utile segnalare alcuni elementi di contenuto. Il primo è che nel paese di Draghi, ma accade già da molti anni ha diritto ad esistere solo l’opposizione compatibile, tutto il resto è da spazzare. Al punto – e questo segna un ritorno alle politiche securitarie che sono all’origine della nascita del Pd – secondo cui dei “poveri” e di chi contesta non si deve parlare. La stessa definizione “degrado” con cui si giustificano ordinanze ed azioni repressive dovrebbe far indignare almeno chi ha gli strumenti culturali per reagire. Può essere elemento di degrado un edificio lasciato cadere in pezzi, un quartiere con le strade rotte e senza mezzi di trasporto, una via senza illuminazione. Definire “elementi di degrado” le persone in difficoltà attiene più ad una concezione fascista del mondo. E dirlo mentre il Paese, a causa delle scelte economiche e politiche portate avanti, spinge sempre più persone in basso, è aberrante. Ma per una cultura di destra che ormai fa parte dell’imprinting di forze politiche che si dichiarano progressiste come dei mezzi di informazione a cui fanno riferimento, questo è normale. La povertà, l’assenza di reddito, di casa, di prospettive, sono colpe da pagare con sgomberi e mazzate.

E quella che si continua a combattere è una guerra contro i poveri, contro gli scarti dell’umanità, contro chi non consuma abbastanza, contro chi dissente radicalmente dal ciclo produci consuma crepa. Questo con buona pace di chi continua ancora ad accettare, anche a sinistra, una ideologia dominante per cui resta permanente il rischio di una “guerra fra poveri”, Una chiave consolatoria che costringe chi ci crede o a reagire in perenne difesa, come se il problema fosse quello dell’evitare la barbarie fra ultimi e penultimi e permette a chi vuole farne uso di distribuire ogni tanto briciole di carità atte unicamente ad allontanare qualsiasi spettro di scontro sociale. I ragazzi e le ragazze che hanno preso le botte ma che in piazza intendono tornarci perché il mondo che gli stiamo lasciando fa loro schifo, hanno un terreno davanti tanto enorme quanto irto di rischi e pericoloso. Che se li riprendano loro i luoghi della critica e che ne realizzino di nuovi e meno stantii. Sarebbe il segnale di uscita da una pandemia non solo nazionale, che dura da almeno quaranta anni.

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Dalla parte degli studenti, dalla parte della scuola

 

L’appello di un gruppo di insegnanti: “Esprimiamo piena e incondizionata solidarietà agli studenti che manifestano e vengono manganellati. Non c’è diritto allo studio in una scuola che trasforma gli studenti in manovalanza aziendale gratuita”.

Il 23 gennaio, a Roma, studenti e studentesse hanno levato la propria voce in piazza contro l’attuale assetto della scuola italiana, con particolare riferimento ai PCTO, gattopardesca mutazione dell’alternanza scuola-lavoro. L’episodio che ha motivato questa ennesima azione di protesta è la morte, proprio durante il PCTO, di Lorenzo, un ragazzo di 18 anni che frequentava un centro di formazione professionale. Tale centro aderisce al “sistema duale”, che assegna un ruolo strategico alle esperienze formative in azienda: per questo chi sa vedere solo una singola parte e non il complesso dei processi strutturali in corso si è affrettatto a fare dei distinguo rispetto ai PCTO operanti nelle scuole non direttamente professionalizzanti.

Gli studenti di Roma non sono d’accordo, e hanno deciso di scendere in piazza. Non per additare le irregolarità o le negligenze che avrebbero influito sull’incidente secondo alcune ricostruzioni, ma per ribadire la loro contrarietà all’alternanza scuola-lavoro, per qualunque studente e comunque la si voglia chiamare. Lo Stato li ha presi a manganellate.

Come lavoratori e lavoratrici della scuola, esprimiamo piena e incondizionata solidarietà agli studenti che manifestano e vengono caricati, che chiedono diritto allo studio e vengono manganellati.

La scuola italiana, in questo modo, continua a negare e calpestare nei fatti proprio quel diritto allo studio che dovrebbe essere la ragione della sua esistenza.

Non c’è diritto allo studio in una scuola che trasforma gli studenti in manovalanza aziendale gratuita e i docenti in esecutori di protocolli burocratici conformati a interessi altrettanto aziendali.

Non c’è diritto allo studio in una scuola che proclama il trionfo dell’interdisciplinarità facendo a pezzi i contenuti di ogni disciplina.

Non c’è diritto allo studio in una scuola che sbandiera l’avvento del “pensiero critico” e sostituisce le faticose conoscenze con le superficiali “competenze”: ottuso “saper fare” da analfabeti funzionali.

Non c’è diritto allo studio in una scuola che annuncia la fine del nozionismo e promuove i test a crocette.

Dopo due anni di pandemia, continuiamo a invocare invano il potenziamento e la ristrutturazione dell’edilizia scolastica, il potenziamento dei trasporti, l’istituzione di presidi sanitari nelle scuole, le assunzioni di personale docente e ATA che consentano di ridurre il numero di alunni per classe.

Tutte misure necessarie e richieste da ben prima della pandemia, ma che oggi, unite a una politica antipandemica organizzata con criterio, eviterebbero il disastro sanitario, didattico, psicologico e sociale dell’insensato apri-chiudi continuo e della catastrofica didattica a distanza.

Tutto ciò è negazione del diritto allo studio.
Per tutto ciò gli studenti scendono in piazza. Per tutto ciò ricevono le manganellate dello Stato. E la nostra solidarietà.

Per aderire: https://chng.it/HZN7jWXh

 

da qui

 

 

 

La scuola classista nelle note dei presidi – Paolo Di Paolo

 

«Tutto ciò favorisce il contesto di apprendimento». La polemica che si è scatenata nei giorni scorsi sui documenti di autovalutazione di alcune scuole superiori ha a che fare con una frase così. La scuola mette in sequenza una serie di dati oggettivi (presenza di studenti non italiani, studenti con disabilità, contesto socio-culturale prevalente), su richiesta del ministero dell’istruzione. Fin qui, niente di (troppo) discutibile. O forse sì. Ma lo è di sicuro l’accento che alcune scuole hanno messo su questo o quel dettaglio (la presenza di figli di portieri!); lo sono le osservazioni su ciò che facilita o non facilita l’apprendimento.

L’orgoglio del liceo Visconti di Roma – pieno centro storico – sugli allievi illustri e sull’omogeneità del contesto sociale è penoso. La sottolineatura del liceo Falconieri di Roma sulla «presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri» è insignificante e penosa. La considerazione del liceo D’Oria di Genova sul fatto che «poveri e disagiati costituiscono un problema didattico» è quella che rilancia gli interrogativi essenziali. Che cosa costituisce «un problema didattico»? Che cosa favorisce o sfavorisce «il contesto di apprendimento»?

Siamo nel 2018, ma sembra il 1958. Nessuno nega che nel cosiddetto contesto di apprendimento entrino in gioco infinite variabili, ma l’«estrazione medio-alto borghese» degli alunni di cosa sarebbe garanzia? Basta mettere piede (mi capita almeno una volta a settimana) in una scuola per capire, senza chiamare in causa pedagogisti o don Milani, che solo su un’idea di istruzione pubblica retriva, anacronistica, classista può basarsi una simile convinzione. Ho visto contesti di apprendimento sulla carta privilegiatissimi non produrre alcunché di significativo, in termini di passione, attenzione, risultati effettivi; ho visto contesti di apprendimento svantaggiatissimi sulla carta dare sorprese, esprimere potenzialità straordinarie. Non è retorica alla buona. È un dato di fatto. L’arroccamento difensivo che quelle schede di autovalutazione esibiscono è inaccettabile. E se si fa specchio delle “pretese” di rassicurazione dei genitori, ancora peggio.

Il quadro è triste, su un piano concreto e perfino su un piano espressivo: scambiandolo del tutto per ipocrisia, abbiamo chiuso brutalmente i conti con il “politicamente corretto”. Se un preside o chi per lui si esprime come in alcune di quelle schede, c’è qualcosa che non va. Il punto non è nascondersi dietro eufemismi o formulette opache. Il punto è che dietro quel linguaggio c’è un pensiero inquinato, che non si vergogna più di se stesso, che si è auto-sdoganato, che si auto-valuta tutto sommato ineccepibile. Che c’è di male? Molti sono saltati con stupore sulle sedie. Che c’è di male? Tutto. Il modo di esprimersi, il pensiero che gli dà sostanza, la pericolosa convinzione di appartenere – perfino tra le mura di una scuola! – a una cerchia privilegiata e monolitica, al riparo dal confronto con altro, dal contatto con gli altri, al riparo dalla realtà. E se il problema (o la colpa) è da cercare nelle domande ministeriali, cari presidi, alzate la mano e ditelo.

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Scuola, non mercato - Teachers For Future Italia

 

Nel luglio 2015 il varo della riforma della scuola, fortemente voluta da Renzi, fu salutato dalla stampa confindustriale come un salutare salto verso la modernizzazione della scuola italiana. L’alternanza scuola-lavoro in particolare fu spinta dall’idea di risolvere la questione della disoccupazione ma, dopo sette anni, saremmo curiosi di conoscere i dati relativi a quanti nuovi occupati siano veramente da ricondurre alle attività di “alternanza” svolti dalle scuole. Di certo ci sono l’imponente numero di ore sottratte alla formazione scolastica, alla lettura di libri, alla visione di film, a visite nei musei, ecc. e l’altrettanto importante ammontare di euro stanziati a favore di enti, fondazioni, associazioni ecc.

Per chi come noi crede nella necessità primaria di rendere la scuola pubblica sana, efficiente, democratica e capace di formare i cittadini che ci tireranno fuori dalla catastrofe liberista va detto che l’alternanza è il B52 della scuola democratica e del futuro dei ragazzi. Peraltro, parlando di alternanza è, con dolore necessario ricordare che proprio il giovane studente Lorenzo Parelli è stato la cavia mortale della catena dello sfruttamento nelle scuole.

Ma le riforme continuano, anche se servirebbe la sospensione di ogni “sperimentazione” e di ogni intervento legislativo sull’istruzione fino a fine emergenza, perché il mondo della scuola in questo momento avrebbe bisogno di tempo per riflettere e ritrovarsi, di individuare con calma, attraverso un ampio dibattito democratico, le proprie autentiche priorità, non di improvvisate “riforme” che aggiungono confusione a confusione, proseguono sulla linea dei disastri degli ultimi venticinque anni e vengono imposte frettolosamente da pochissimi (con la scusa di un Pnrr che dovrebbe essere di tutti) a un sistema già duramente provato, senza nessuna chiarezza su motivazioni, finalità e interessi che portano avanti e sulle conseguenze che potrebbero avere.

Il Liceo quadriennale, ultima novità in ordine di arrivo, sponsorizzata con enfasi dal ministro Patrizio Bianchi ne è proprio l’esempio plastico. Ennesimo taglio drastico all’istruzione pubblica, fatto passare per innovazione, nonostante il Consiglio di Stato abbia sonoramente bocciato questa sperimentazione. Nell’ambito di questo grave rilancio della scuola superiore quadriennale appare meritevole di denuncia anche la comparsa dei cosiddetti “TED”, Licei della Transizione Ecologica Digitale, incentrati su materie STEM, promossi da tanti soggetti appartenenti al mondo delle imprese. Si andrà a scuola di transizione ecologica e digitale insomma ma per i giovani della generazione di Greta Thunberg non è tanto un sogno quanto un incubo.

Nel nostro primo Manifesto, chiedevamo al MIUR “l’aggiornamento delle linee guida per la gestione dell’emergenza climatica in modo tale da concedere spazio all’attuale emergenza ambientale ed ecologica”, parlavamo di “cambiare la scuola per cambiare il sistema”. Assistiamo invece all’entrata a gamba, non tesa ma tesissima, delle multinazionali nel sistema formativo italiano. Assistiamo al tentativo, assolutamente esplicito di trasformare le scuole italiane in fondazioni private, all’istruzione pubblica targata con i marchi di grandi aziende, all’idea nefasta di scuola completamente subordinata alle esigenze di impresa. La cosa raccapricciante è che tutte queste aziende, presentandosi come leader di sostenibilità, avranno la possibilità di intervenire direttamente nella didattica, riscrivendo i curricola scolastici, e al contempo di gestire anche i PCTO. Studenti come polli da allevamento del Capitale insomma.

A questo si aggiunga che è assurdo trasmettere nella didattica l’idea che affrontare la crisi climatica resti esclusiva delle materie scientifiche, quando dovrebbe essere piuttosto un approccio trasversale a tutte le materie di studio. Di transizione lor signori vedono con chiarezza una cosa: quella dei soldi che dalle casse dello Stato transitano verso nuove istituzioni, fondazioni, enti privati dove esercitare strategicamente un’educazione rigidamente aziendalista e liberista, dove agli alunni venga anzitutto insegnato a “credere, obbedire e combattere” per i profitti delle aziende. Il resto.. è noia mortifera e pubblicità. In definitiva, se il ministero della pubblica istruzione capisse che l’educazione è importante per far fronte alla crisi climatica, si prenderebbe in carico il progetto e lo affiderebbe a Ong e Associazioni Ambientaliste ma evidentemente sta facendo l’ennesimo favore a Confindustria.

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Chi c’è dietro i licei Ted

 

Pochi giorni fa sono stati inaugurati i nuovi licei TED: il Liceo per la Transizione Ecologica e Digitale. Obiettivi di questo nuovo corso di studi, per ora avviato in forma sperimentale da 28 istituti, ma che punta come sostiene lo stesso ministro Bianchi a 1000 istituti dall’anno prossimo, sarebbero quelli di “preparare gli studenti a un nuovo futuro sostenibile e digitale” in collaborazione, manco a dirlo con le imprese.

Queste, come abbiamo scoperto, sono rappresentate da Elis, consorzio che vanta la partecipazione di 100 imprese, per una capitalizzazione di circa 2000 miliardi. La lista di queste? Troviamo nomi quali Leonardo (armamenti), ManPower (schiavismo legalizzato), Eni (…), Snam (Gasdotti, fra l’altro promotore del progetto!!!), Toyota, DHL, Autogrill, Anas e tante altre.

Tutti nomi estremamente legati alla transizione ecologica… in negativo!

Questi personaggi si impegneranno “alla realizzazione dei programmi didattici, aiutando a individuare le competenze richieste dal futuro mercato del lavoro”.

In pratica, come al solito, ci si nasconde dietro la “transizione ecologica” per portare avanti i propri interessi economici, smarcandosi dalle proprie responsabilità ambientali e promulgando una dottrina inquietante: l’approccio tecnico è l’unica soluzione al problema climatico.

Non stupisce, infatti, che “le basi del percorso quadriennale saranno le discipline STEM [Science Tecnology Enginering Mathematics]” e tanti saluti ad un approccio politico e sociale al problema.

È fin troppo evidente come questo percorso ha il solo scopo di formare manodopera specializzata nel digitale (la transizione ecologica è citata sempre di facciata), settore “trainante” che, oltre ad essere causa di una frazione considerevole delle emissioni di CO2, è complice consapevole del livello asfissiante di controllo e repressione in ambito lavorativo e non di questi ultimi tempi.

 

Il disgusto però arriva verso la fine dell’articolo, quando si enuncia pomposamente che questo progetto è “voluto e sostenuto dai giovani”, citando ad esempio che “Proprio all’istituto di Brindisi […] si è trasferito P. Ruggiero, giovanissimo attivista che sulle tematiche del surriscaldamento ha già scritto un libro”. Della serie, se i vostri idoli ci vanno, andateci anche voi, tanto siete giovani e non capite niente…

Dopotutto questo atteggiamento non stupisce, visto che Elis vanta di aver ben 280 “role model” (personaggi a cui ispirarsi) che utilizzerà durante le attività didattiche: solo a noi questa sembra un’attività invasiva e feroce delle pubblic relation aziendali nell’istituzione pubblica?

Solo a noi sembra surreale che queste società da 2000 miliardi vengano a formare insegnanti e studentesse su “come salvare il pianeta lavorando da noi”?

Solo a noi sembra una violenza inaudita incarcerare i giovani nel mondo del lavoro, costringendoli ad impieghi inquinanti o mal pagati, ricattandoli con il fatto che questo è “un mondo dove si stima che l’80% dei lavori futuri richiederà competenze Stem”?

Ci pare invece molto chiaro come non servano né licei specializzati, né una tecnocrazia illuminata, né percorsi PCTO “green” per dare “consapevolezza ai giovani”.

Chiunque esca da una scuola è già fin troppo consapevole della mancanza di futuro che ha davanti, @fridaysforfuture ce l’ha mostrato palesemente. Quello che manca sono le possibilità di mettersi veramente in gioco per questo mondo, evitando quell’abisso di depressione e apatia in cui ci si getta sempre più spesso per sopravvivere alla “consapevolezza”.

Ma, che lo vogliano o no, queste possibilità ce le riprenderemo…

Tratto da Ecologia Politica Milano

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qui un'intervista con Federico di Ecologia Politica Milano sui licei TED

 

 

Perché gli economisti sbagliano sulla scuola - Anna Angelucci

 

Per gli economisti – l’élite culturale che egemonizza il discorso sulla scuola oggi in Italia – lo studente conta solo in relazione al profitto che sarà in grado di produrre. Una visione asfittica dell’istruzione e dell’educazione, concepite nei soli termini del vantaggio economico.

 

 

Il vento di primavera dà vita a tante piante; da queste parti è passato un mercante, lui non sa cosa è veramente prezioso, non ha trovato pietre e se n’è andato.
(Antico canto popolare cinese)


“Sono quei benedetti affari che imbrogliano gli affetti”
(A. Manzoni)


Beatus ille qui procul negotiis
(Orazio)

Due sono i riferimenti che mi paiono necessari per tratteggiare la cornice di un ragionamento sui rapporti tra scuola, politica, economia guardando al presente e immaginando il futuro.
Il primo rimanda a Gramsci ed è contenuto in un libro collettaneo dedicato all’opera pedagogica di Mario Alighiero Manacorda, il quale affermava che “nella scuola […] Gramsci individua uno degli osservatori più significativi per un’analisi delle modalità di assimilazione delle masse a forme di sapere che sono l’espressione dell’egemonia di un ceto ristretto di intellettuali”[1].

Il secondo risale agli anni Settanta, quando nei suoi libri (ricordiamo Pedagogia come pratica della libertà e Pedagogia degli oppressi) il pedagogista brasiliano Paulo Freire contrapponeva due tipi di educazione: quella innovativa, rivoluzionaria – critica, problematizzante, emancipante, che nasce dal dialogo educativo, da una progressiva elaborazione formativa e rielaborazione comune del sapere – e quella tradizionale, nozionistica, mnemonica, inutilmente ripetitiva e sommativa, che lui definiva, con straordinaria lungimiranza, ‘depositaria, bancaria’, perché tesa all’accumulo acritico di contenuti non rielaborati.

Mi pare dunque che il focus gramsciano sul concetto di egemonia di una élite e sulla scuola come luogo di assimilazione delle masse a forme di sapere che sono espressione di quell’egemonia, così come il paradigma economicistico dell’educazione denunciato da Freire, siano i due cardini imprescindibili di una riflessione sull’attuale condizione della scuola in generale e su quella delle giovani generazioni in particolare.

L’élite culturale che egemonizza il discorso sulla scuola è oggi in Italia quella degli economisti, legittimati alla gestione del sistema d’istruzione – così come evidentemente, più in generale, alla gestione del potere – in quanto ‘tecnici’ capaci di gestire la governance di istituzioni fondate su paradigmi neoliberisti.

Come ha chiarito bene Emiliano Brancaccio, siamo al cospetto dell’“imperialismo metodologico” del pensiero economico neoclassico, il cui nucleo fondativo è il concetto di “individuo che agisce per massimizzare un obiettivo sotto il vincolo delle risorse”[2]. Questo spiega, da un lato, lo strutturale definanziamento delle risorse economiche per la scuola in nome del vincolo, cui resta fedele persino l’insufficiente stanziamento per l’istruzione della Next Generation EU del PNRR[3], dall’altro la diffusione capillare di principi e pratiche correlati all’individuo e alla sua performance.

Competenza, intesa come prestazione del singolo alunno fin dalla scuola dell’infanzia; competizione e concorrenza tra studenti; standardizzazione degli apprendimenti finalizzata alla misurazione comparativa e competitiva dei singoli, delle classi e delle scuole; classificazione strumentale dei risultati; incentivi all’autoimprenditorialità del bambino o dell’adolescente in formazione – una delle competenze chiave indicate dall’Unione europea – ormai definitivamente concepito come capitale umano: così il premier Draghi, nel suo discorso d’insediamento al Senato, parlando delle nuove generazioni e delle nostre responsabilità nei loro confronti; così la stragrande maggioranza degli economisti, cui fanno eco media mainstream autoridottisi a meri amplificatori acritici dei discorsi del potere; così parti sempre più ampie di opinione pubblica, progressivamente indotte a concepire istruzione e educazione – nel senso etimologico del termine – nei soli termini del vantaggio economico.

Mi riecheggiano nella mente le parole di Giovanni Verga, lette in classe al mattino con generazioni di studenti, chini insieme sulle pagine di Rosso Malpelo, in un atto – quello della lettura delle pagine cartacee di un libro di letteratura – che sembra diventare drammaticamente ogni giorno più desueto, nelle nostre aule invecchiate, sempre più fredde e fatiscenti ma riempite di schermi di ultima generazione:

“Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava”.

Ci diciamo, in classe, che Malpelo soffre per le disperate condizioni di salute del suo compagno; gli regala i pantaloni di fustagno cui tiene tanto perché erano di suo padre, gli compra con i suoi pochi soldi una minestra calda per sostentarlo, ma tutto è vano perché il bambino sta morendo, consumato dalla malattia, dal lavoro in miniera, dalla debolezza, dagli stenti. Malpelo soffre ma, educato a suon di botte e di fatica, non capisce perché la madre di Ranocchio si mostri così disperata: quanto può valere un figlio che non guadagna niente? Commentiamo così, con gli studenti, al mattino, a scuola, leggendo un racconto e aprendo sguardi sul mondo, l’apparente contraddizione di Malpelo, che si preoccupa per Ranocchio ma non comprende perché sua madre pianga per lui.

È, questa, la nozione di capitale umano, incarnata e descritta nel personaggio letterario di un bambino-minatore più efficacemente che in qualunque trattato degli economisti della scuola di Chicago o dell’OCSE o di Confindustria o Fondazione Agnelli: la riduzione dell’essere umano alla sua mera capacità produttiva, misurata solo in termini economici e in relazione a valori di mercato cui tutto è funzionale, istruzione, salute, benessere, affettività, vita.

La nozione di capitale umano istituisce oggi – per gli economisti che governano direttamente e indirettamente il sistema d’istruzione – la sola relazione possibile tra i giovani e la scuola.

“Anche il capitale umano paga un prezzo alla pandemia”[4], hanno dichiarato il presidente della Fondazione Agnelli Andrea Gavosto e Barbara Romano in un articolo che evidenziava, a conclusione di un drammatico anno scolastico segnato dalla pandemia e dal lockdown, “le ripercussioni sui futuri guadagni e le prospettive di lavoro degli studenti”. Stime che per i due autori quantificano le perdite di apprendimento in termini economici non solo per la riduzione dei guadagni di ogni studente nell’arco di quarant’anni della sua futura vita lavorativa ma che, sommati, si traducono in una perdita di alte percentuali di PIL.

E ancora, è di pochi mesi fa un articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti in cui si afferma che “la priorità è quindi accertare i ritardi formativi causati dalle chiusure e individuare gli studenti più bisognosi di aiuto. A questo scopo sarebbero necessari test standardizzati (quasi a costo zero), che servirebbero anche per valorizzare il lavoro degli insegnanti: sono una misura della loro importanza nell’accumulazione di capitale umano[5].

Non è vero che i test standardizzati siano “quasi a costo zero”, se leggiamo la recente relazione della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria dell’istituto Invalsi[6]. Ma soprattutto non importa che ci sia un’emergenza psichiatrica conclamata in costante aumento da anni nella fascia 0-18 anni e che la pandemia da coronavirus abbia fatto fare un balzo in avanti ai disturbi e al disagio tra bambini e adolescenti “da far tremare i polsi”[7]. Le conseguenze psicologiche, metacognitive, affettive, relazionali; le implicazioni pedagogiche e sociali del distanziamento fisico, dell’imposizione del digitale, dell’impossibilità del contatto, della limitazione dell’esperienza in un mondo sempre più virtuale, del cono d’ombra sul presente e dell’ipoteca esistenziale sul futuro: sembra che tutto questo scompaia di fronte alla perdita del potere d’acquisto, di fronte alla formazione di un capitale umano inadeguato e carente, di fronte alla riduzione di una produttività finalizzata esclusivamente all’accumulazione materiale.

È in questo asfittico orizzonte economicistico che Ranocchio, malato, non conta più nulla per il padrone, che se ne disfa come di un oggetto ormai inutile, ed in cui anche agli occhi di Malpelo il dolore di una madre per un figlio improduttivo appare incomprensibile e insensato, così come allo sguardo sbagliato degli economisti lo studente conta solo in relazione al profitto che sarà in grado di produrre. Ed è in questo asfittico orizzonte economicistico che la scuola del terzo millennio celebra la sua mortifera trasvalutazione: con i test standardizzati che misurano gli apprendimenti, con i registri elettronici che dematerializzano i rapporti scuola-famiglia, con l’imposizione coatta di strumenti digitali che disincorporano le relazioni e l’esperienza di conoscenza, con la progressiva burocratizzazione del lavoro del docente e la trasformazione dello studente in utente e cliente che snaturano le nostre ontologiche condizioni esistenziali umane e cancellano in tutti noi la spinta essenziale del desiderio.


NOTE

[1] C. Covato, C. Meta, Mario Alighiero Manacorda, un intellettuale militante. Fra storia, pedagogia e politica, RomaTre Press, Roma 2020.

[2] Redazione ROARS, Le mani dell’economia sulla ScuolaROARS, 11 ottobre 2021

[3] G. Carosotti, R. Latempa, Privatizzazione e frammentazione: gli obiettivi del PNRR sulla scuolaROARS, 17 giugno 2021

[4] A. Gavosto, B. Romano, Anche il capitale umano paga un prezzo alla pandemia, Lavoce.info, 28 luglio 2020

[5] T. Boeri, R. Perotti, Premiare il merito. Il voto agli insegnanti non è un tabù, la Repubblica, 14 febbraio 2021

[6] Corte dei Conti, Determinazione del 15 giugno 2021

[7] B. Gobbi, Il neuropsichiatra: “Il Covid è stato un detonatore, tra i ragazzi è boom di ricoveri”, Il Sole 24 ORE, 20 aprile 2021

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