La
rappresentanza politica di più alto grado del Viminale non sembra essere
adeguata al proprio ruolo in questo frangente emergenziale.
Nelle ultime
settimane abbiamo assistito a una gestione dell’ordine pubblico che sarebbe
opportuno definire acefala, ossia priva di una guida. Il modo in
cui le proteste contro il green pass sono state affrontate da parte del
Ministero dell’Interno è significativo al riguardo. Le caratteristiche
della persona che, al momento, occupa il vertice del Viminale costituiscono un
elemento strategico di questo scenario caotico. Luciana Lamorgese –
classe 1953, in carica come prefetto dal 2003 a Varese – ha un profilo
chiaramente tecnico e questo, forse, è il suo tallone
d’Achille. Il suo curriculum, costruito attraverso una carriera da funzionaria
nelle dirigenze prefettizie, è senza dubbio adeguato. Nella contingenza del
momento, la sua è sembrata essere la figura più adatta al ruolo. Nel 2019,
infatti, era stata scelta quale rappresentante del Viminale nell’ambito del
governo Conte II, in sostituzione di Matteo Salvini. Il cambio di passo
auspicato era sotto gli occhi di tutti: si voleva marcare una discontinuità con
il precedente titolare del dicastero, estremamente “politico” e oggetto di
critiche. Successivamente, il governo Conte II è caduto. Ora, con Draghi come
primo ministro, Lamorgese è stata confermata al suo posto.
Una
possibile lettura della scelta del premier è legata agli equilibri di potere
tra le componenti del nuovo Governo di “unità nazionale”, così eterogenee tra
loro. Un Ministero di peso come quello degli Interni avrebbe dato molto potere
al partito che fosse riuscito a “occuparlo”. Lamorgese, tuttavia, è priva di un apparato di
partito alle spalle: è una figura tecnica e, quindi, “neutra”. Scegliere lei
dev’essere sembrata l’opzione migliore, tale da evitare disequilibri di sorta e
da garantire continuità con il Governo precedente.
Per quasi
due anni, complice la pandemia globale, le manifestazioni di ogni tipo sono
state congelate dal distanziamento fisico e dai vari lockdown,
riemergendo prepotentemente solo di recente. Le proteste contro il green pass
sono emblematiche al riguardo: facendo seguito alla decisione governativa di
rendere questo strumento obbligatorio nei posti di lavoro, hanno fatto da
catalizzatore e riacceso le piazze. Tra le varie manifestazioni che in questi
giorni sono state organizzate in tutto il Paese, quella del 9 ottobre a Roma,
caduta in un momento delicato, è diventata il fulcro del dibattito sulla
gestione dell’ordine pubblico, essendo stata caratterizzata da un evento
piuttosto rilevante: nel corso della protesta ha avuto luogo un vero e
proprio assalto alla sede nazionale del
sindacato CGIL. Non è
questa la sede adatta per compiere una disamina della simbologia dell’atto,
delle infiltrazioni neofasciste nel corteo “no green pass” e di come queste
componenti siano state in grado di prendere la testa del movimento e
direzionarlo. Preme però sottolineare la brutalità di quanto accaduto e la
possibilità stessa che un evento di tale portata accadesse. L’assalto alla CGIL
segna un turning point nella guida del Viminale e nel suo
rapporto con le forze di polizia.
In questi
giorni sono state proposte varie ricostruzioni dei fatti, sono stati avanzati
sospetti di connivenza tra la matrice neofascista di Forza Nuova e frange delle
forze di polizia ed è stato messo in luce come il Ministero dell’Interno non
sia stato in grado di imprimere un indirizzo all’azione di queste ultime. Le
motivazioni di tale mancanza sono evidentemente molteplici. Si proverà ora a
porle sotto la lente d’ingrandimento.
Gli studi
sulla gestione dell’ordine pubblico, condotti in Italia e non solo, hanno messo in luce come una guida
“politica” delle forze di polizia sia utile a far sì che le medesime seguano un
indirizzo nella loro azione e non si trovino ad attuare scelte operative
ondivaghe. Ciò che sta accadendo sotto il Ministero guidato da Lamorgese sembra
essere esattamente il contrario: una gestione caotica, priva di un
indirizzo preciso. Il
fatto che l’attuale ministra sia stata prefetto potrebbe sembrare un elemento
tale da renderla adeguata al ruolo. Tuttavia, la sua esperienza precedente
cozza con l’impostazione “politica” che un titolare del Viminale solitamente
imprime. Se prima, nelle vesti prefettizie, Lamorgese si limitava a tradurre in
pratica le decisioni politiche sull’ordine pubblico provenienti dal Governo
centrale, ora, come parte dell’Esecutivo, ha il compito di dare indicazioni
alle Prefetture e alle Questure.
Il problema
che si pone è allora il seguente: per chi occupa una posizione politica come
quella di ministra, un profilo da addetta ai lavori è un limite,
non un plus. In altre parole, la scelta in favore di una figura tecnica alla
guida del Viminale, se è utile a non scompaginare gli equilibri politici di una
maggioranza “Frankenstein”, si rivela un rischio nei momenti
decisivi, quando le scelte devono essere attuate attraverso una visione e un
orientamento ben definiti. Il non avere alle spalle un partito e una compagine politica in grado
di sostenerla, inoltre, lascia Lamorgese sola nelle sue
(non)decisioni, che vanno lette come il frutto di scelte operative provenienti
da settori dirigenziali delle forze di polizia, prive quindi di una visione
politica di direzione e di lungo periodo.
È necessario
allora aprire una parentesi sul rapporto tra il ministro e le polizie che
dovrebbe dirigere. Quanto accaduto a Roma lascia dei punti interrogativi su chi
davvero prenda le decisioni al Ministero. Nelle varie audizioni della ministra
in Parlamento e dalle sue parole parrebbe che i funzionari dei dispositivi
di sicurezza abbiano in più occasioni optato per valutazioni e scelte
operative autonome dalla stessa. Se i neofascisti sono riusciti a
devastare la sede della CIGL, bisogna chiedersi perché ciò sia potuto
accadere. Dal palco della manifestazione sono stati effettuati annunci in cui la volontà di assediare gli uffici del
sindacato è stata espressa in maniera chiara. Vi sono poi le dichiarazioni di
alcuni partecipanti che affermano di aver concordato con
le forze di polizia la direzione del corteo verso la sede CGIL. Pur non adombrando qui la
connivenza tra le forze di polizia e frange estreme del movimento “no green
pass”, si vuole però esplicitare quanto la protesta sia stata sottovalutata e
quanto sia stata deficitaria la gestione della piazza da parte del Ministero.
La ricerca
accademica nel campo della gestione dell’ordine pubblico pone l’accento, da
tempo, su come ogni tipo di manifestante sia percepito in modo diverso dalle
forze di polizia. Stando
a tali ricerche, più una protesta è considerata come legittima, meno gli agenti
saranno propensi a intervenire. Mentre studiosi come Fillieule sostengono
che oltre alla percezione dei manifestanti da parte di chi opera sul campo è
importante anche il repertorio d’azione che essi mobilitano, altri autori
evidenziano che la tipologia stessa del manifestante fa la differenza. Fielding, ad esempio,
propone al riguardo un paradosso piuttosto arguto: in occasione di proteste
legate alla richiesta di aumento delle strisce pedonali davanti alle scuole,
poche madri rischierebbero di essere arrestate nel difendere la sicurezza dei
propri figli, mentre altri tipi di manifestanti, considerati dalla polizia non
degni di “simpatia”, sarebbero più facilmente accusati di interruzione del traffico,
o persino di “cospirazione”. Da questa prospettiva, è sufficiente immaginare,
per un attimo, cosa sarebbe accaduto se in piazza a Roma ci fossero stati
giovani studenti, una delle categorie – come emerso anche di recente – meno rispettate nelle azioni
di mantenimento dell’ordine pubblico. In questa fase, il Ministero
dell’Interno non pare essere in grado di indirizzare in modo efficace forze di
polizia che appaiono caratterizzate da un utilizzo estensivo del
loro potere discrezionale. Inoltre, le reticenze, l’imbarazzo e
le ammissioni della Ministra pongono
Lamorgese in una posizione scomoda: più che guidare il processo, sembra esserne
in balìa.
Quanto
accaduto pochi giorni fa nel porto di Trieste pare confermare ancora di più un
indirizzo del Ministero che si potrebbe quantomeno definire “a macchia di
leopardo”. Il 18 ottobre, infatti, è stato deciso lo sgombero forzato
e con gli idranti del sit-in dei portuali contro il green pass. Da
ricostruzioni giornalistiche sembra proprio che questa volta, a seguito delle
polemiche precedenti, sia stata la Ministra stessa a ordinare tale atto alle
forze di polizia. Si legge su Open:
“Un
retroscena di Repubblica oggi racconta che lo sgombero del porto di Trieste dai
No Green pass è stato deciso proprio a Roma. Dove poi hanno seguito dalla tv le
cariche (negate dalla questura) e l’uso degli idranti contro i manifestanti.
Così come i lacrimogeni sparati nel mucchio. La decisione arriva per le 7 di
mattina, mentre i portuali e i manifestanti arrivati da tutta Italia si stanno
radunando al varco 4. La ministra, secondo il quotidiano, decide lo sgombero in
contatto telefonico con il prefetto di Trieste Valerio Valenti. La linea della
fermezza arriva su 3.000 persone ma non tutti, all’interno del ministero,
condividono questa impostazione. Per tre motivi: perché è giorno di elezioni,
perché si tratta comunque di una manifestazione di lavoratori e perché chi è
davanti al porto non pare intenzionato a effettuare azioni di disturbo. Nei
ranghi operativi della polizia, secondo i sindacati, non si apprezza la
decisione”.
Il Viminale
ha poi smentito questa ricostruzione, chiarendo che: «Non c’è stato
alcun intervento diretto da parte della ministra durante le fasi delle
operazioni di polizia, la decisione di sgomberare il parcheggio antistante al
varco del porto è stata presa in sede di Comitato provinciale ordine e
sicurezza pubblica tenutosi a Trieste nel fine settimana, al quale ha
partecipato la ministra e di cui fanno parte il prefetto, il questore, il
procuratore capo e altre istituzioni locali». La nota stride però
con quanto il Ministero vuole affermare. I Comitati provinciali di ordine e
sicurezza pubblica, per prassi, non avvengono in presenza del ministro. Il
fatto che Lamorgese fosse lì ha un significato ben preciso: una decisione
delicata e importante doveva essere presa. È perlomeno naïf, dunque,
credere che il provvedimento sia stato preso per motivi diversi dal tentativo
di contrastare l’immagine di una gestione ormai appannata della piazza.
Per
concludere, quanto sta avvenendo alla direzione del Ministero degli Interni è
un processo di depoliticizzazione non conforme alle funzioni del dicastero. La
ministra sembra improntata alla non azione, a condurre senza una prospettiva
chiara e univoca un’istituzione strategica: amministrandola senza imprimerle
una direzione. Le responsabilità di tale andamento non sono da ricercarsi nella
persona quanto piuttosto nel Governo che l’ha riconfermata. Soprattutto alla luce del
momento che stiamo vivendo, dove quel ministero si sta rivelando chiave per la
gestione delle proteste e dove errori di questo tipo rimangono una macchia
indelebile. Lamorgese che, in evidente stato di imbarazzo, giustifica le
decisioni operative di polizia che altri hanno preso e motiva le azioni di un
agente in borghese[1] (infiltrato
della Digos che partecipa all’assalto a un blindato) affermando che questi
stava verificano “che il moto ondulatorio del blindato
non permettesse allo stesso di ribaltarsi” manifesta tutte le sue
difficoltà nella conduzione del ministero. Inoltre, il rispetto verso la sua
figura sembra venire meno non solo da parte dell’opinione pubblica ma anche
delle stesse forze di polizia, che deridono ormai apertamente il loro
dirigente in
capo, a cui dovrebbero rispondere.
Ciò che
davvero pare ondulatorio e approssimativo, dunque, è
l’indirizzo dato all’ordine pubblico: una gestione acefala.
[1] Sembra poi scandalizzarsi, la ministra, se qualcuno suppone che gli
agenti infiltrati nelle manifestazioni esistano e si precipita a dire che era
un agente in borghese che svolgeva anche pratiche di “mediazione”.
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