lunedì 7 febbraio 2022

L’Ucraina, gli Stati Uniti e l’industria bellica - Elisabetta Grande

  

Recentemente Tucker Carlson, popolarissimo conduttore del canale di destra Fox News e fiero sostenitore di Trump, nel dialogare con Mike Turner – il più importante repubblicano all’interno dello House Intelligence Committee, nonché uno dei 15 firmatari della lettera indirizzata a Joe Biden con cui si richiede un’immediata azione a sostegno dell’Ucraina contro la Russia – ha preso una netta posizione contro lo sbandierato necessario intervento militare degli Stati Uniti in Ucraina (https://www.mediaite.com/tv/tucker-carlson-mike-turner-argue-over-ukraine/). Perché mai dovremmo impegnare i nostri ragazzi in un’operazione di difesa di un territorio che la stragrande maggioranza degli americani neppure sa identificare su Google maps? Non ci è bastata la recente vergognosa ritirata dall’Afghanistan? Per quale ragione dovremmo stare dalla parte dell’Ucraina e non della Russia, giacché avere dalla propria parte la Russia significa avere un possibile alleato contro la vera minaccia per gli Stati Uniti, rappresentata dalla Cina?

Si tratta di domande di buon senso, che riflettono una visione della geopolitica appartenente all’“uomo di strada”, lontana da quelle convenienze che muovono una guerra che nulla hanno a che vedere con gli interessi dei popoli. «L’Ucraina è una democrazia. La Russia, invece, è un regime autoritario che sta cercando di imporre il suo volere su una democrazia validamente eletta in Ucraina e noi siamo dalla parte della democrazia», risponde Turner, riesumando la solita vecchia retorica degli Stati Uniti investiti del compito di tutori dell’ordine democratico mondiale, che dall’Afghanistan, alla Libia e all’Iraq ha giustificato le ultime guerre statunitensi rivelatesi palesemente insulse. Carlson lo incalza: «Quindi la lezione impartita dai 20 anni in Afghanistan e dalla tragica, vigliacca e controproducente ritirata da lì è che abbiamo bisogno di più truppe in Ucraina?». Successivamente intervistato circa la ragione per la quale secondo lui i falchi del GOP in Parlamento vogliono la guerra, sosterrà: «Io non credo che siano tutti a libro paga di Raytheon, sono solo in pilota automatico. Sono vittime di idee zombie che non hanno mai saputo rivedere» (https://www.nytimes.com/2022/01/26/us/politics/tucker-carlson-russia-ukraine.html ).

Tucker Carlson non vuole insomma dire ciò che pubblicamente è inopportuno, anche se vi fa espressamente cenno. Sia pure non tutti direttamente a libro paga di Raytheon Technologies o di Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics – ossia delle poche società che monopolizzano il mercato delle armi e della tecnologia militare per la difesa – la verità è, infatti, proprio che i parlamentari statunitensi non fanno ormai più da tempo gli interessi dei loro elettori, ossia degli uomini e delle donne di strada, ma solo e sempre quelli delle grandi multinazionali, che in un sistema di potere a scatole cinesi ne determinano la riuscita elettorale, di destra o di sinistra che essi siano. Non c’è pertanto Congressperson che risponda davvero alle esigenze dei cittadini statunitensi. Essi rispondono a quelle dei loro big donors, che devono rincorrere senza sosta, soprattutto se deputati nella House of Representatives, dato il ridottissimo scarto temporale della loro possibile rielezione (due anni). Da quando la Corte Suprema, con il famoso caso Citizen United del 2010, ha inoltre stabilito che le persone giuridiche, che si esprimono attraverso il denaro, esercitano il loro free speech attraverso i soldi e hanno quindi il diritto di immetterne illimitatamente nelle campagne elettorali, il peso dei corporate donors è divenuto esagerato. È per questo che la prospettiva dei parlamentari e della gente comune (ossia quella nelle cui scarpe Tucker Carlson si è messo per un momento, anche se a sua volta per tornaconti politici come si dirà) divergono enormemente ed è per questo che, per convincere la seconda della bontà delle loro scellerate decisioni di guerra, i primi devono mettere in piedi retoriche di buonismo internazionale sempre più spinte insieme ad allarmi di aggressioni russe chimiche o addirittura nucleari a Kiev, in modo da persuadere altrimenti recalcitranti uomini e donne di strada che si tratta di una scelta obbligata. Certo dopo le armi di distruzione di massa rivelatesi inesistenti in Iraq, il disastro civile libico seguito all’assassinio di Gheddafi e la mancata esportazione della fantomatica democrazia in Afghanistan, si tratta di un’impresa che potrebbe rivelarsi non facile. Tanto più che non più tardi di cinque mesi fa, a seguito della débacle afgana, il presidente Biden aveva categoricamente dichiarato finita l’era dell’uso del potere militare statunitense per ricostruire gli altri paesi (“to remake other countries”) (https://www.nytimes.com/2021/08/31/us/politics/biden-defends-afghanistan-withdrawal.html).

Gli interessi della potentissima industria bellica chiamano però a raccolta i loro debitori in Parlamento, diretti o indiretti che siano, democratici e repubblicani, ed essi rispondono tendenzialmente compatti. Joe Biden, che finora non è riuscito a fare nulla perché quegli stessi interessi non glielo hanno consentito (si pensi a Joe Manchin che, al servizio dei grandi donors, ha bloccato ogni iniziativa del programma Build Back Better che andasse a favore dei più deboli della società https://www.commondreams.org/news/2022/01/29/manchin-gets-thousands-gop-megadonor-after-tanking-bbb) ne ricava l’immagine di chi porta finalmente avanti una politica condivisa e di successo, che supera le polarizzazioni che la affliggono come mai prima d’ora.

Che questo fosse il destino era d’altronde evidente già nel momento in cui, nel dicembre dello scorso anno, il Congresso votava un budget militare, ad avventura in Afghanistan ormai conclusa, di ben 768.2 miliardi: una cifra assai superiore non solo rispetto all’anno precedente (ammontante a 705.4 miliardi), ma addirittura più alta rispetto ai circa 740 miliardi richiesti dallo stesso Biden. I voti accordati a quello stanziamento la dicono lunga sull’accordo bipartisan circa le future guerre a vantaggio dell’industria bellica: se alla Camera i voti erano stati 363 contro 70, in Senato i favorevoli erano addirittura stati 89 contro 10. Il solito meccanismo della riconoscenza verso i big donors, che come mai prima hanno contribuito nel 2020 alla riuscita di Biden (con i Super PAC’s, ma anche con le cosiddette dark money https://www.nytimes.com/2022/01/29/us/politics/democrats-dark-money-donors.html ), aveva peraltro già da subito portato alla segreteria di Stato, al vertice della National Intelligence e al Pentagono, uomini e donne legati all’industria bellica per via di quel gioco delle revolving door fra Governo e grandi corporation, che consente ai poteri economici di dominare la politica. Si pensi a Tony Blinken, scelto da Biden come segretario di Stato, noto per aver sempre abbracciato la linea interventista più dura possibile in materia di politica estera, dalle invasioni in Afghani­stan e in Iraq all’operazione in Libia, fino alla richiesta di pesanti interventi militari contro la Siria. Uscito dall’amministrazione Obama, forte della sua esperienza governativa, nel 2018 aveva co-fondato una società di consulenza, la WestExec Advisors, che offre i propri servizi alle più importanti società di high tech, aerospaziali e in generale del settore militare privato, fra cui (se­condo un’indagine di The American Prospect) la Winward, socie­tà israeliana di elevata tecnologia di guerra. Dello staff della socie­tà di “informata” consulenza faceva parte anche Avril Haines, nominata da Biden a capo della National Intelligence (prima don­na a ricoprire tale carica) e nota non solo per il suo ruolo nella strategia di guerra con i droni inaugurata da Obama, ma anche per aver coperto le torture dei prigionieri perpetrate durante la presi­denza di George W. Bush (cfr. Jacobin, 23 novembre 2020, bit.ly/3aL7vVM). Anche il primo uomo nero mai nominato a capo del Pentagono, l’ex generale Lloyd Austin, oltre ad avere fortissimi legami col mondo militare da cui si era troppo recentemente congedato, ha ampiamente partecipato al sistema di revolving door fra pubblico e privato. Era stato, infatti, nei consigli di amministrazione delle più disparate società, ma soprattutto in quello della Raytheon Technologies, leader nella costruzione di armamenti per il Penta­gono stesso (nyti.ms/3rr9WDV).

Difficile non vedere il legame che intercorre fra queste nomine, l’aumento del budget per la difesa e l’annuncio di una possibile nuova guerra in Ucraina, che all’industria bellica sta già fruttando molto. Un esempio fra tutti: il recente acquisto di 64 caccia F-35A ad attacco nucleare della Lockheed Martin da parte della Finlandia, membro della UE e attivo partner NATO contro la Russia, al prezzo di 8,4 miliardi di euro che, comprese le infrastrutture, salgono a 10 miliardi, a cui occorrerà aggiungere altri 10 miliardi di euro per il loro mantenimento e ammodernamento (cfr. Manlio Dinucci, https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-manlio_dinucci__la_polveriera_ucraina_e_gli_usa_non_escludono_lazione_nucleare_di_primo_uso/39602_44367/). Non più tardi di una settimana fa il segretario della difesa Lloyd Austin ha messo 8.500 soldati in stato di “massima allerta”, pronti per essere inviati in Europa nel giro di cinque giorni (https://www.nytimes.com/2022/01/24/us/politics/russia-ukraine-us-troops.html?searchResultPosition=39), da mesi però gli Stati Uniti sono attivi nel sostegno della guerra. Hanno già dato a Kiev 2,5 miliardi di dollari, oltre a 88 tonnellate di munizioni nel quadro di un “pacchetto” da 60 milioni di dollari, comprendente anche missili Javelin già schierati contro i russi del Donbass, e a 150 consiglieri militari che ‒ affiancati da quelli di una dozzina di alleati Nato ‒ dirigono di fatto le operazioni, ci raccontava già a dicembre Manlio Dinucci (supra).

Se questo è il quadro, l’unica speranza per evitare un’ennesima guerra, questa volta nel cuore dell’Europa – per quanto possa apparire una bestemmia – sembra da riporre in Donald Trump, il rottamatore. Nel tentativo di riprendersi a breve il Congresso e poi la presidenza, dando seguito al suo portavoce mediatico di Fox news, il presidente più anti istituzionale che gli Stati Uniti abbiano mai avuto si è, infatti, opposto con determinazione a ogni intervento militare statunitense, facendo appello al buon senso della persona della strada che, lontana dalle logiche corrotte e perverse dei parlamentari, segue facilmente il ragionamento di Tucker Carlson (https://www.businessinsider.com/donald-trump-says-ukraine-russia-crisis-is-a-european-problem-2022-1?r=US&IR=T). E che si sia al punto di dover riporre fiducia in Donald Trump per la pace in Europa la dice davvero lunga sul drammatico stato della situazione in cui ci troviamo!

da qui

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