Viaggio nel perverso mondo del football trafficking, che ogni anno
coinvolge migliaia di giovanissimi che sognano di diventare le nuove stelle del
calcio mondiale. Per pochi che ci riescono, ci sono migliaia di disperati che
finiscono tra le mani di agenti fittizi e intermediari senza scrupoli.
Sfruttati, derubati e abbandonati, molti di loro si ritrovano senza speranze in
paesi sconosciuti. Eppure i “trafficanti” di calciatori sono solo una parte di
un problema più complesso, che coinvolge famiglie, media e società sportive. (English
version)
“C’è
una cosa di cui ti convinci, quando cresci circondato dalle gigantografie di
campioni come Didier Drogba, Samuel Eto’o o Yaya Touré: se ce l’hanno fatta
loro, puoi riuscirci anche tu. Sei giovane e ti sembra di poter realizzare
qualsiasi cosa. Poi però arrivi in Europa e se hai la fortuna di fare un
provino ti rendi conto che la realtà è diversa, che magari ti devi giocare tutto
in una partita e che la temperatura è di dieci gradi e tu non ci sei abituato.
Né sei preparato a giocare insieme a un gruppo di sconosciuti che parlano
un’altra lingua. E se il provino va male, ti ritrovi abbandonato a te stesso:
da solo, in un paese che non conosci”.
Le parole di
Joseph*, venticinquenne originario del Senegal arrivato in Italia nel 2014 e
oggi residente in Liguria, sintetizzano un’esperienza comune a quella di
migliaia di ragazzi provenienti in gran parte dall’Africa Occidentale e vittime
di un fenomeno conosciuto a livello internazionale come football
trafficking.
Se volessimo
tradurre letteralmente dall’inglese, trafficking equivarrebbe
a “tratta”, mentre il “traffico” di esseri umani è invece indicato come smuggling. La
differenza tra i due termini non è una questione speculativa, in quanto tratta
e traffico si configurano come reati diversi e sono punibili in modo
differente. Tuttavia, i casi di football trafficking si
situano spesso in una zona grigia tra le due casistiche: da qui, la scelta di
usare la definizione inglese per indicare tutti gli episodi di migrazioni
irregolari nel mondo del calcio.
Come già si
intuisce da questa premessa, il fenomeno è complesso e richiede, come vedremo,
un approccio non manicheo di risoluzione della questione in una mera divisione
tra buoni e cattivi. Ci sono, è vero, delle vittime e degli sfruttatori, ma
alla radice del problema vi è in realtà una visione diffusa nel “sistema
calcio” che si esplicita attraverso due metafore pervasive in ambito sportivo:
1) l’atleta come merce; 2) l’atleta come macchina.
Riflettiamo,
nel primo caso, sulla nonchalance con cui usiamo espressioni
come “comprare”, “vendere”, “prestare” calciatori, come se essi fossero dei
pacchi da spostare da un posto a un altro. Nel secondo caso, pensiamo invece a
frasi come: “Quell’atleta è una macchina”, “un vivaio che produce talenti in
serie”, “il giocatore tal dei tali è un robot”. In entrambe le situazioni, il
calciatore è percepito come un prodotto industriale, spogliato delle sue
caratteristiche umane.
Senza questa
riflessione sulla mancata considerazione dell’umanità della persona in
questione, peraltro estendibile a un elevato numero di ambiti extra-sportivi,
il rischio è di concentrarsi solo sugli effetti del problema senza comprenderne
le cause.
Un altro
aspetto fondamentale del football trafficking riguarda il
sogno, inteso in questo caso come desiderio irrefrenabile ma slegato,
purtroppo, da un’analisi consapevole della realtà. Ne parleremo tra poco.
Proprio la
forza del sogno calcistico è stata il fondamento del successo di Sadio Mané, calciatore
senegalese del Liverpool campione d’Inghilterra e d’Europa con i Reds.
“Il calcio è sempre stato la mia vita e, crescendo, non avevo altro desiderio
che diventare calciatore,” afferma Mané nel film documentario sulla sua
carriera, Made in Senegal. L’ambizione di avere successo nello
sport amato, condiviso da milioni di ragazzi in tutto il mondo, è
particolarmente sentito laddove “farcela” nel calcio che conta significa non
solo realizzare le proprie legittime aspirazioni individuali, ma anche affrancarsi
da una situazione economica precaria e aiutare famiglia e amici a farlo. Il
desiderio di contribuire al benessere del proprio paese d’origine attraverso
le rimesse dall’estero
accomuna un numero consistente di calciatori originari del Golfo di Guinea.
Tornando
alla vicenda di Joseph, considerati questi presupposti, non risulta difficile
intuire le emozioni che lo animano quando, al termine di una partita giocata in
un torneo a Dakar, la sua città natale, il ragazzo viene avvicinato da una
persona conosciuta nella zona per avere dei contatti nel calcio europeo.
“Vieni con
me in Italia e ti farò fare una grande carriera,” gli dice l’uomo. Joseph non
sta nella pelle: ha fiducia nelle proprie capacità, accompagnata da un fisico
notevole. È vero, la concorrenza in Europa sarà agguerrita, ma a lui non
interessa. Continua a ripetere tra sé e sé che, se ce l’hanno fatta i suoi
connazionali diventati celebri come Sadio Mané, ce la farà anche lui.
C’è però una
cosa che, da subito, a Joseph non quadra. Il suo agente – il termine è
improprio in quanto l’uomo agisce senza presentare delle credenziali formali –
pretende dalla famiglia del ragazzo una somma di denaro. “Ma come”, si chiede
Joseph, “se mi reputa così bravo perché vuole che lo paghi già prima di avermi
fatto provare con un club?” Ma la preoccupazione svanisce subito, schiacciata
dal desiderio accecante del giovane di giocarsi le sue chance in Europa. La
famiglia del ragazzo, però, è contraria al trasferimento. I rischi sono troppo
elevati: e se poi le cose non andassero bene? Facendo ignobilmente leva sulle
aspettative di Joseph, che vengono usate per mettere pressione sui suoi
genitori, l’intermediario riesce a incassare i soldi richiesti e a convincere
la famiglia a lasciarlo partire.
Già al
momento dell’atterraggio a Roma Fiumicino, però, Joseph intuisce che i suoi
dubbi prima della partenza non erano infondati. Quando telefona al suo agente –
continuiamo a chiamarlo così per convenzione – la risposta di quest’ultimo
sembra sorpresa, come a dire: “Sei venuto davvero”. A ciò si
aggiunge il senso di disperazione derivante dal trovarsi da solo, poco più che
adolescente, in un paese nuovo, la cui lingua non parla. “Mi veniva da piangere
ed ero già pentito della scelta fatta appena sbarcato. Comunque, mi sono fatto
coraggio e sono andato avanti”, racconta Joseph. Il ragazzo riesce in qualche
modo ad arrivare alla stazione del treno di Roma Termini per dirigersi poi a
Milano, dove il suo agente lo attende…
*I nomi di tutte le persone citate in
questo articolo sono stati modificati.
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