La crisi delle Istituzioni pare davvero avviata verso il baratro. La scelta di Giuliano Amato di illustrare in una inusuale conferenza stampa i motivi della bocciatura da parte della Corte Costituzione dei referendum su eutanasia e cannabis, quelli su cui due milioni di persone, uomini e donne consapevoli e tanti giovani, avevano creduto, in un tempo assai breve si rivelerà un boomerang.
Per il metodo e per il merito. È davvero stravagante accusare i comitati promotori di
avere raccolto le firme su un titolo truffaldino e addirittura di avere
sbagliato i quesiti. Il titolo è deciso dalla Cassazione e per
quanto riguarda la scelta delle abrogazioni di alcune disposizioni della legge
antidroga rivendico la assoluta puntualità del quesito. Andiamo con ordine.
Intervenire con lo strumento referendario su un testo complicato come il
Dpr 309/90 non è semplice. Va detto per prima cosa che quella legge
proibizionista voluta da Bettino Craxi, convinto dalla scelta punitiva degli
Stati Uniti segnò il tradimento della tradizione laica e libertaria dei
socialisti come Loris Fortuna, è ignobile e rappresenta una vergogna (un vero
crimine averla fatta firmare a un giurista come Vassalli). Durante la
discussione in Senato molte voci si levarono per condannare una brutta legge e
Paolo Volponi ricordando Cesare Beccaria deprecava un furor sanandi che
vale ancora oggi rispetto alle paure manifestate paternalisticamente sulle
conseguenze del referendum.
Nel novembre si svolse a Genova la Conferenza nazionale sulle droghe che si
caratterizzò per l’intervento memorabile di Umberto Veronesi, ministro della
Sanità. Una grande lezione a favore della distinzione fra le sostanze
stupefacenti e della smitizzazione dei danni della cannabis che fece
indispettire il Presidente del Consiglio Amato che boicottò il confronto non
presenziando alla conclusione (Livia Turco ricorda bene
quell’affronto!) e definì la relazione di Veronesi come il contributo tecnico di
un tecnico. Una delegittimazione che fa il paio con
l’insulto, falso, rivolto ai promotori del referendum a ventidue anni di
distanza. Ma la bulimia della caccia alle streghe indotta
dalla war on drugs si realizzò con l’approvazione truffaldina
nel 2006 di un decreto legge noto come legge Fini-Giovanardi che aveva come
motto “la droga è droga” equiparando tutte le sostanze in una unica tabella e
punendo la detenzione con il carcere da sei a venti anni. Nella
raccolta dei Codici la legge antidroga è riportata con il testo della
Fini-Giovanardi, cancellata nel 2014 come incostituzionale e solo in nota viene
riportato il testo vigente che è quello risuscitato del 1990.
Nella mia relazione di minoranza ero facile profeta a denunciare le
conseguenze nefaste della repressione, che si manifestarono con tragedie
individuali e con l’esplosione delle presenze in carcere. Nel 1993 un
referendum popolare cancellò le norme manifesto (drogarsi è vietato) e le norme
più repressive.
Dove era Amato? Certo non la pensava come Stefano Rodotà e Luigi
Ferrajoli. Nel 2000 io ero sottosegretario alla Giustizia e lavoravo
pervicacemente per una riforma di quella legge elaborando testi che purtroppo
rimasero nei cassetti.
La questione è semplice e anche gli assistenti della Consulta possono
comprenderlo: il primo comma dell’art. 73 che è il cuore della legge e
prevede le sanzioni penali per le violazioni, elenca 17 (sic!) condotte
illecite, la prima è la coltivazione che noi cancellavamo per rispondere
positivamente alla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha
stabilito non punibile la coltivazione domestica della cannabis. Punisce
con la reclusione da sei a venti anni le violazioni legate alle cosiddette
droghe pesanti. Le pene per le violazioni relative alle droghe leggere
sono indicate nel comma 4 con la pena da due a sei anni di carcere e sono
richiamate le condotte descritte nei commi 1, 2 e 3. Questo è il legame
presente nella legge e cancellando la pena detentiva per la cannabis
ci si è rifatti alle condotte del comma 1 che riguardano tutte le sostanze.
Se fosse vero l’assunto di Amato che l’art. 1 non riguarderebbe la canapa,
saremmo di fronte a un fatto enorme: le decine di migliaia di processi e le
incarcerazioni di massa sarebbero state un abuso. La sottigliezza gioca davvero
scherzi paradossali.
Che fare ora? Continuare nel nome di Arnao e di don Gallo la battaglia per il cambiamento
come in Uruguay, in Canada e in California.
Ma per la democrazia e lo stato di diritto occorre riportare la Corte
Costituzionale nell’alveo del rispetto dell’art. 75 della Costituzione con
criteri precisi senza straripamenti per l’ammissibilità dei referendum e senza
entrare abusivamente nel merito e nella legge di risulta. Sarebbe ora
anche di prevedere la dissenting opinion.
Chi pensava di ridurci al silenzio, ha fatto male i conti.
Fonte: il manifesto
https://comune-info.net/lautogol-del-dottor-sottile/
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