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Abbiamo portato la civiltà, siamo stati meglio degli
altri e gli abbiamo fatto le strade: lo storico Francesco Filippi ha smontato
le false credenze sul colonialismo italiano.
Per indicare
una situazione caotica e confusa, in Italia si usa ancora una parola:
“ambaradan.” Sono in pochi, però, a conoscere la sua origine—e si tratta di
un’origine tutt’altro che nobile, poiché deriva da uno dei più spaventosi massacri commessi dall’Italia nel corso della sua storia.
Amba Aradan,
infatti, è il nome dell’altopiano montuoso in Etiopia dove nel febbraio del
1936 l’esercito italiano sterminò circa ventimila persone—tra soldati e
civili—nel corso della guerra d’aggressione voluta dal regime fascista. Per
piegare definitivamente la resistenza degli abitanti, i militari sganciarono 60 tonnellate
di iprite sulle colonne in ritirata, violando platealmente la Convenzione di Ginevra del
1928 che proibisce l’uso di armi chimiche.
L’Italia ha
ammesso le proprie responsabilità solo nel 1996, quando l’allora ministro della
difesa Domenico Corcione desecretò i
documenti d’archivio—il cui contenuto era stato rivelato negli anni precedenti dallo storico
e studioso Angelo Del Boca, che per anni ha condotto inchieste in solitaria sul tema.
Da allora,
su quella vicenda è calato di nuovo un oblio pressoché totale. E l’uso corrente
del termine “ambaradan”, in questo caso, testimonia quanto sia generalizzata e
perdurante l’amnesia sul colonialismo italiano, che è durato per quasi otto decenni (dalla fine dell’Ottocento
fino al 1960, l’anno dell’indipendenza della Somalia).
‘Quando c’era Lui’: le bufale sul fascismo a cui la gente continua a
credere
Leonardo
Bianchi
24.7.17
La mancata
elaborazione di quel periodo da un lato continua a incidere sul nostro
presente, specialmente in relazione all’immigrazione e al razzismo; dall’altro ha fatto sopravvivere
molte leggende e stereotipi fuorvianti, un po’ com’è avvenuto con il fascismo e altri lati oscuri del nostro passato.
Fortunatamente,
negli ultimi tempi la percezione sul colonialismo italiano sta parzialmente
cambiando grazie a romanzi, documentari, progetti di sensibilizzazione e saggi storiografici. Uno dei più recenti
è Noi però gli abbiamo fatto le strade, scritto da Francesco Filippi, già
autore di Mussolini ha fatto anche cose buone.
Per lo
storico, “a sessant’anni dall’ultimo ammaina-bandiera oltremare, una buona
parte della coscienza collettiva del paese non ha ancora abbandonato le proprie
colonie.” Questo “paradossale meccanismo di cancellazione,” come lo definisce
lui, è reso possibile anche da una serie di miti che infestano il dibattito
pubblico sul tema. Basandomi sul libro, ho raccolto e smontato i cinque più
comuni.
Mito numero
1: Erano “terre di nessuno”
Rispetto ad
altre potenze europee, l’Italia è arrivata per ultima nella cosiddetta “corsa all’Africa” (scramble for Africa). Di conseguenza, già nella seconda metà
dell’Ottocento, era molto diffusa la convinzione che si stessero andando a
occupare territori “liberi”—in sostanza, delle “terre di nessuno.”
Pur non
essendoci dominazioni coloniali di altri paesi, sottolinea Filippi nel testo,
questo non voleva assolutamente dire che in quei luoghi “non vi fossero delle
forme di governo, anche strutturate, precedenti all’invasione.”
Significativamente,
l’esperienza del colonialismo italiano parte dal contratto di compravendita della baia di Assab (in Eritrea) stipulato il 15
novembre del 1869 tra il sultano di Raheita e l’esploratore Giuseppe Sapeto,
per conto della società di navigazione Rubattino e del governo. Diversi anni
dopo, quell’atto di proprietà venne trasformato dallo stato italiano in una
cessione di sovranità—in spregio alla legge del sultanato e anche a quella
italiana, ricorda Filippi—e diede ufficialmente vita alla prima colonia
italiana in Africa.
La vicenda
della baia di Assab (e praticamente tutte quelle successive) dimostra pertanto
che non si trattava affatto di “terre incognite,” ma di entità con proprie
norme e forme amministrative diverse da quelle europee.
Tuttavia,
l’ottica coloniale faceva sì che il “dominio dei bianchi” fosse l’unico governo
concepibile. E per questo motivo, la propaganda dell’epoca—e quella successiva,
del fascismo—non parlava di sradicamento (anche violento) di una civiltà:
ripeteva che si stava portando la civiltà.
Mito numero
2: Il dono della civiltà
Alla fine
dell’Ottocento, l’Italia è assolutamente impreparata a interfacciarsi con i
paesi occupati.
“La quasi
totalità dei funzionari pubblici demandati alla gestione della colonia,” scrive
Filippi, “non ha la minima idea di qualità peculiarità abbiano questi luoghi.”
Gli italiani che arrivano in colonia si trovano di fronte a una realtà molto
diversa da quella immaginata, a partire dalla geografia per arrivare alla
composizione sociale e politica delle popolazioni.
Per tentare
di spiegare le incomprensioni, le crisi, gli scontri e le disfatte (su
tutte quella di Adua del 1896) che si susseguono
ininterrottamente, si ricorre dunque a tutto l’armamentario razzista e si
rovescia la responsabilità della violenza coloniale sugli stessi colonizzati.
I crimini dimenticati del colonialismo italiano in Libia
Mattia
Salvia
Questi
ultimi vengono continuamente accusati di voler rimanere fermi “all’età della
pietra” o di essere “biologicamente refrattari al progresso”; in un perverso
circolo vizioso, annota lo storico, “l’inferiorità percepita dei colonizzati
giustifica la violenza bestiale nei loro confronti.”
Le uniche
notizie positive che filtrano dalle colonie, ricorda Filippi, “riguardano quel
che di buono stanno facendo gli italiani sul posto.” Non si parla mai
dell’accaparramento di materie prime o dello spossessamento di terre:
nell’immaginario collettivo, l’Italia è lì solo ed esclusivamente per “portare
la civiltà”—e se non ci riesce è solo per colpa dei “selvaggi.”
Questo mito,
tra l’altro, riacquista forza ogni volta che si parla dell’Africa come di un
monolite indistinto e di un continente senza speranza, dove si pensa solo a
farsi la guerra gli uni con gli altri. Così facendo, sottolinea Filippi,
“l’immagine del passato coloniale ne esce rafforzata, perché dimostra ex
post che i colonizzati avevano bisogno dell’uomo bianco.”
Mito numero
3: “In Africa è un’altra cosa”
Gran parte
di quello che si conosce delle colonie è di seconda mano, come detto, ed è
frutto di resoconti parziali e pessima letteratura che tende alla
disumanizzazione delle popolazioni invase.
Questo
ingenera nei colonizzatori la convinzione che “in Africa” sia permessa
qualsiasi cosa, perché lì le cose sono “diverse”—specialmente sul piano della
sessualità. La pubblicistica dell’epoca indugia molto su questo aspetto, ricorda
Filippi, e gioca “sull’ambiguità del contesto sessuale per fare della colonia
un luogo di approdo desiderabile.”
La vicenda di Montanelli non è solo “passato”: è anche il nostro presente
Zad El Bacha
11.3.19
Tutti i
maschi che partono per le terre conquistate, insomma, prendono per vero
l’assunto che “le donne di colonia sono facili”—uno stereotipo sessista e
razzista che sopravvive ancora adesso. La vicenda più nota è senza dubbio
quella che ha riguardato Indro Montanelli, che “sposò” (cioè violentò)
un’adolescente di dodici anni quando era un ufficiale durante l’invasione
dell’Etiopia.
Nella
famigerata intervista del 1969 alla trasmissione L’ora della verità,
il giornalista si vantava di aver “scelto bene” questa “bellissima ragazza di
dodici anni,” dicendo che “in Africa è un’altra cosa.” La giornalista Elvira
Banotti aveva contestato con forza quell’affermazione, evidenziando come quello
fosse il “rapporto violento del colonialista che si impossessava” di una
minorenne.
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Il mito
della “diversità” delle colonie, dunque, serviva solo ed esclusivamente a
giustificare la violenza e la sopraffazione dei colonizzatori.
Mito numero
4: I meno peggio
A proposito
di violenza: in qualsiasi discussione sul colonialismo italiano, è pressoché
matematico che a un certo punto qualcuno dica che “alla fine siamo stati meglio
degli altri.” Certo, magari non siamo stati irreprensibili; ma nulla a che
vedere con gli inglesi, i francesi o i belgi.
In realtà,
scrive Filippi, “l’efferatezza che gli italiani impiegano per costruire [il
loro impero coloniale] non è seconda a nessuno.” Tutta l’epopea coloniale è
intrisa di sangue, e il fascismo non fa altro che ereditare e completare
l’opera avviata dai governi liberali.
Il documentario che racconta gli orrori del colonialismo italiano in
Etiopia
Mattia
Salvia
29.2.16
In Eritrea,
Libia, Etiopia, Somalia e altrove l’Italia ha compiuto eccidi, terrorizzato le
popolazioni, allestito campi di concentramento, instaurato un apartheid di
fatto e commesso svariati crimini di guerra. “I numeri enormi dei massacri
vengono edulcorati dal fatto che si tratta di non bianchi,” puntualizza lo
storico, “e vi è una pressoché totale indifferenza nei confronti delle stragi
compiute in colonia.”
Come ho
ricordato all’inizio, anche nell’Italia repubblicana e “post-coloniale” ci sono
voluti decenni per ammettere di aver utilizzato armi chimiche. Quella tardiva
ammissione, tra l’altro, non è stata accompagnata da alcun atto concreto. Anzi:
in Italia ci sono un sacco di vie e monumenti che
celebrano criminali di guerra, su tutti l’orrido mausoleo dedicato al gerarca fascista
Rodolfo Graziani (soprannominato “il macellaio del Fezzan” per i suoi metodi spietati).
Quindi, no:
non siamo stati “meglio degli altri”. Abbiamo fatto le loro stesse cose, e
continuare a raccontarci favole autoassolutorie non cambierà la storia.
Mito numero
5: Costruire le strade
Quello delle
strade è il topos coloniale per eccellenza, paragonabile al
tormentone dei treni in orario di Mussolini. Come quest’ultimo, è però fondamentalmente
falso.
Sebbene lo
sforzo infrastrutturale nelle colonie sia stato enorme, sostiene Filippi, le
sue esigenze erano in larghissima parte di carattere militare: “costruire le
strade significa spostare velocemente truppe nelle varie zone delle colonie per
poterle controllare”.
Le strade
servono pertanto ai colonizzatori, non ai colonizzati. Nonostante ciò, la rete
viaria nelle colonie è precaria, inefficiente, funestata dalle ruberie e
destinata più alla propaganda che altro.
Di essa si
lamentano anche pezzi grossi del regime come Roberto Farinacci, che in una nota rivolta a Mussolini dice che “le
migliaia e migliaia di chilometri di strade asfaltate rappresentano una tremenda
fregatura per l’erario.”
La più
sbandierata opera di “civilizzazione,” insomma, è un clamoroso fallimento. Che
tuttavia è rimasta impressa nella memoria collettiva come un grande successo, e
ha paradossalmente “contribuito a formare il giudizio dell’intera esperienza
imperialista” dell’Italia. Siccome “gli abbiamo fatto le strade,” in fondo non
eravamo così come male come colonizzatori.
Peccato che
una strada, chiosa Filippi, non potrà mai e poi mai compensare “i massacri, la
cancellazione di intere culture e la perdita di indipendenza di milioni di
persone.”
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