La pandemia, come la crisi energetica o l’aumento dei prezzi o la scarsità di materie prime e semilavorati sono manifestazioni (nemmeno iniziali) della più generale crisi ambientale e climatica ormai in pieno corso. Il modo in cui le classi dominanti – espressione di un ristretto establishment finanziario globale – hanno affrontato e stanno rispondendo alla pandemia anticipa e mette in luce la strumentazione con cui si apprestano ad affrontare le conseguenze (non le cause) della crisi climatica e ambientale, che dovremmo assumere come l’orizzonte entro cui ciascuno di noi, individualmente o collettivamente, colloca le proprie iniziative.
Questa strumentazione comprende, molte cose, ne cito
cinque.
La prima: una
distinzione sempre più drastica tra eletti – le popolazioni dei paesi
“sviluppati” e le élite di quelli emarginati – e dannati: tutti gli altri.
Gli ostacoli frapposti alla liberalizzazione e distribuzione dei vaccini ne
sono una evidente manifestazione. Quanto alle conseguenze della catastrofe
climatica, e soprattutto alle migrazioni di massa, si difendono, e lo faranno
sempre più, difendersi costruendo fortezze.
La seconda: l’adozione di misure standard uguali per
tutti (tranne che per le élite): disinformazione veicolata dai media, vaccini
per evitare cure personalizzate; intervento
a posteriori invece di prevenzione; prescrizioni spesso ridicole e
contraddittorie, “di immagine” anche quando si dimostrano inefficaci (il green pass, per esempio, ma non solo).
La terza: il
disciplinamento dei comportamenti attraverso misure selettive che erodono
progressivamente i diritti più elementari: lavoro, reddito, mobilità,
socialità, istruzione, accesso alla sanità e al welfare fino al paradosso di
rendere “obbligatorio” ma “volontario” il consenso al vaccino.
La quarta: la
promozione, attraverso l’utilizzo dei media, di una contrapposizione sempre più
violenta tra due comparti della società, quelli che si considerano protetti
dalle misure adottate e quelli che se ne sentono danneggiati o emarginati.
Una contrapposizione che nemmeno l’atteggiamento verso le migrazioni – fino a
ieri elemento di maggiore contrapposizione politico-culturale ed etica in
Europa e negli Usa – aveva mai raggiunto.
La quinta: la
repressione. C’è un filo diretto tra la svariate forme di repressione
dei decenni passati – dall’uso delle forze dell’ordine e dell’ordine
giudiziario al carcere, dalle stragi al tentativo di attribuirle agli avversari
politici (o agli “esclusi sociali”: si pensi al carcere di Modena), dall’uso
strumentale e dell’infiltrazione, che è stato fatto delle reazioni a quelle
politiche, da un lato, e le attuali forme di repressione, contro i NOTav,
i NOTap, gli studenti in lotta, i picchetti e i blocchi stradali degli scioperanti
e persino le manifestazioni di dissenso, tutte sbrigativamente criminalizzate
come NOVax. Gli attori e i metodi si assomigliano. Ma l’orizzonte è cambiato.
Gran parte della storia che abbiamo alle spalle si è
svolta entro un orizzonte contrassegnato dalla cultura dello sviluppo: se
alcuni, o anche molti, dovevano pagarne il prezzo, complessivamente il quadro
sarebbe migliorato per gli altri e per le generazioni future. Oggi l’orizzonte è quello di una crisi climatica
e ambientale irreversibile. I più acuti (pochi) dei nostri governanti
lo sanno; il Pentagono lo dice da tempo. I vertici sull’ambiente (le 26 COP
svolte finora) sono state delle mere messe in scena. Il traguardo del +1,5, o
anche solo del +2°C, è irraggiungibile. Se anche i paesi dell’Europa centrale e
gli Usa centrassero gli obiettivi climatici, del tutto insufficienti, che si
sono dati, molti altri Stati non lo faranno e se non lo fanno tutti e come se
non lo facesse nessuno. Per questo i nostri governanti – quelli che contano –
si preoccupano così poco di rispettare gli impegni presi e mirano soprattutto a
non perdere competitività – le posizioni acquisite rispetto agli altri. Allo sviluppo si è sostituita la crescita del
PIL, che non è altro che accumulazione del capitale.
Proviamo ora a immaginare che cosa può succedere in un
contesto di progressivo peggioramento delle condizioni ambientali: alluvioni,
siccità, eventi estremi, ondate di calore, crisi idrica e alimentare, rottura
delle catene di approvvigionamento, migrazioni (o tentativi di migrazione) di
massa, rivolte popolari – non necessariamente egualitarie; anzi, per lo più
sovraniste e razziste; o, per lo meno, confuse, come l’attuale rivota contro
l’obbligo vaccinale – e certamente anche scioperi, conflitti di classe,
iniziative dal basso. E, perché no? Guerre e relative mobilitazioni e nuove
pandemie. Ed ecco che la strumentazione per affrontare quel contesto è già
tutta pronta.
E noi? Molti
di noi non sono nemmeno consapevoli di questo cambio di prospettiva: sono più
indietro del papa, che lo ha capito benissimo e si sforza di
ricordarlo a tutto il genere umano. Altri ce l’hanno presente, ma poi se lo
dimenticano quando si tratta di scendere alle “cose concrete”: allora la crisi
climatica e ambientale, anzi, “l’ambiente” diventa un tema tra i tanti, da
mettere al fondo o ai margini di rivendicazioni ben più importanti:
occupazione, reddito, investimenti, welfare. Senza tener conto del fatto che
tutte quelle rivendicazioni, e molte altre, possono avere un senso e aspirare a
un qualche successo, solo se inquadrate entro il contesto più ampio di quel
radicale cambio di paradigma socioeconomico che è la conversione
ecologica.
Un orizzonte di
senso che impegna sia i nostri comportamenti individuali e collettivi nel campo dei consumi, della cura del territorio, dei
rapporti tra lavoratori o tra chi ha un lavoro e chi no, o tra i generi e tra
genitori e figli; sia le regole su cui si reggono l’attuale struttura
produttiva e i rapporti di forza tra le classi che ne costituisce la base. In
gioco c’è la prospettiva di una vita che può essere anche molto più
desiderabile di quella attuale, ma solo se sapremo promuoverla, presentarla e
farla vivere – almeno in parte – fin da ora mettendola al centro delle nostre
rivendicazioni.
È una prospettiva che ha al centro un generale
ridimensionamento di tutto ciò che ha caratterizzato l’evoluzione degli ultimi
secoli: meno estrazione di risorse,
meno generazione di scarti e rifiuti, meno produzione, meno consumi superflui,
meno finanza, meno spostamenti, meno automobili, meno espansione urbana a
favore di una gestione locale e comunitaria dei territori, e più attenzione per
le vicende personali di ciascuno.
Rispetto all’oggi, il
primo compito che forse dobbiamo porci è quello di raffreddare la
contrapposizione artificiale tra pro e no-vax (o pro e no-green pass), e tutte quelle, ancora più
acute, che ne potranno seguire, promuovendo un reciproco ascolto e cercando di
riportare l’attenzione su quelli che sono i rapporti tra le classi e il
conflitto tra i rispettivi interessi.
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