Intervista a Giulio Marcon (di Daniele Nalbone)
Il fallimento del nuovo ordine mondiale e la crisi del movimento pacifista.
Sono lontanissimi gli anni delle grandi mobilitazioni di piazza che
cercarono di difendere la popolazione dell’ex Jugoslavia e dell’Iraq dalle
relative guerre. Tante le cause che hanno portato quel movimento a disperdersi.
“La sinistra con l’elmetto“ è la definizione che
Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione Peacelink, ha utilizzato
per analizzare su MicroMega la crisi del pacifismo a
sessant’anni dalla prima marcia Perugia-Assisi promossa da Aldo Capitini. Pochi
mesi dopo, la situazione ucraina ci costringe a tornare sul tema. Stavolta
lasciamo l’analisi a Giulio Marcon, fondatore della campagna Sbilanciamoci! e nella precedente
legislatura coordinatore dei “parlamentari per la pace” di cui facevano parte
oltre 70 deputati e senatori impegnati sui temi del disarmo e della pace.
La situazione che stiamo vivendo oggi, con il rischio di un conflitto
bellico in Europa Orientale, chiama inevitabilmente in causa il movimento
pacifista.
Quello che oggi vediamo palesarsi in Ucraina rappresenta in realtà un
conflitto che va avanti da molti anni, dagli anni Novanta. Questo ci interroga
in primis sul fallimento di un ordine mondiale che speravamo democratico e che
non si è mai realizzato: dopo le fine della Guerra Fredda e dopo la scomparsa
del blocco comunista, in quelle aree si è continuato a vivere in situazioni di
conflitti. Lo scenario odierno è stato ampiamente previsto dai pacifisti, ma
evidentemente la mobilitazione del movimento non è stata adeguata ai rischi che
stiamo correndo. Questa debolezza, però, questa “assenza” non è propria
solamente del movimento pacifista ma di tutti i movimenti che, diciamo
nell’ultimo decennio, hanno mostrato una difficoltà nell’organizzarsi rispetto
alle crisi che si sono susseguite. Non parlerei quindi di crisi del movimento
ma di crisi “dei movimenti”.
Ora è in corso il solito gioco, quelle delle responsabilità.
Come in ogni conflitto, non c’è una parte che sta dalla parte giusta e una
da quella sbagliata. Da un lato il problema è il potere in mano agli oligarchi
nella Russia post-comunista, dall’altra le responsabilità degli Stati Uniti e
della Nato che hanno perseguito una politica di allargamento fino ai confini
della Russia. Cosa farebbero gli Stati Uniti se Messico o Canada avessero fatto
un’alleanza con la Russia di Putin?
Le immagini delle bandiere per la pace nelle strade, sui balconi, ai tempi
dell’invasione statunitense dell’Iraq sono ormai impolverate. In Italia la
colpa è davvero della “sinistra con l’elmetto”?
La colorita definizione di Marescotti è purtroppo azzeccata visto che il
cosiddetto centrosinistra, fin dagli anni Novanta, ha abbracciato politiche
interventiste che nulla hanno a che vedere con la cultura pacifista propria
della sinistra. Il problema è indubbio. Detto ciò, dopo quelle grandi
mobilitazioni il movimento pacifista in Italia non è scomparso ma si è
riorganizzato sulla base delle tante esperienze locali, particolari, specifiche.
Quello che manca è la forza di risvegliarsi al momento opportuno, quando
appunto c’è da mobilitarsi contro la guerra. Servirebbe una mobilitazione di
piazza contro il rischio di questa guerra, è vero, ma l’assenza di un momento
simile non deriva assolutamente dalla sottovalutazione dei rischi, sia chiaro.
Il problema è nella deformazione generale della società, del nostro Paese,
negli ultimi anni che, ripeto, non riguarda solo il movimento pacifista. Questo
è il risultato della crisi della partecipazione, tanto politica quanto sociale:
c’è un forte senso di sfiducia, la sensazione che tanto non saremmo comunque
ascoltati, che sarebbe impossibile incidere, contare nelle crisi.
La responsabilità quindi è della politica? O anche della politica?
Della sordità della politica, sicuramente. Faccio un esempio che non
riguarda il pacifismo ma la campagna Sbilanciamoci!. La campagna è nata venti
anni fa con grande entusiasmo e un enorme obiettivo: incidere nella legge di
bilancio. Oggi questo lavoro non lo facciamo più ma puntiamo tutto sulla
sensibilizzazione, sull’educazione e sulla promozione. Abbiamo rinunciato ad
avere un qualsiasi rapporto con le istituzioni e la politica perché è inutile
pensare di affidare loro delle proposte di cambiamento. Ecco, questa sfiducia
ha colpito anche il movimento pacifista anche se, ribadisco, ci sono in Italia
tanti gruppi e tante realtà in mobilitazione permanente.
Nemmeno sulla questione “armi” si è riusciti in questi anni a creare un
movimento in grado di incidere. C’è poca sensibilizzazione sul tema. La
gente è consapevole, genericamente, che quello delle armi è un grande business,
ma poco più. Lavorando sui territori in prima persona siamo riusciti, come Rete
Disarmo, a far capire che spendere 25 miliardi di euro per degli F35, dei
cacciabombardieri di assalto, fosse una follia. Questa cosa la gente l’ha
introiettata. Il problema però è la potenza di fuoco. Non c’è spazio sui media
mainstream per queste tematiche. Anche qui, porto un esempio: qualche anno fa
il Corriere della Sera ha dedicato due pagine – non pubblicitarie – a Leonardo,
il principale produttore italiano di armi, parlando di “Leonardo industria
sostenibile”. Sostenibile. Un’azienda che fabbrica e commercia armi, vendendole
(anche) a regimi dittatoriali. Le armi sono evidentemente un business che fa
aprire tantissime porte, anche dal punto di vista della comunicazione. Il tema
della pace, per avere un simile spazio su un giornale come il Corriere della
Sera, dovrebbe essere portato in piazza da almeno due milioni di persone.
L’Unione Europea è nata avendo tra gli obiettivi quello di “contribuire
alla pace”. Nel 2012 ha vinto anche il Nobel. Dieci anni dopo…
L’Ue ha fallito nell’ex Jugoslavia e sta fallendo oggi. Finché non si
doterà di una vera politica estera, non soltanto formale, finché non agirà come
organismo veramente federale, non andrà da nessuna parte. Soprattutto se
schiacciata, da un lato, dalla politica americana sempre più ondivaga, e
dall’altro dall’arroganza russa. Ha ragione Lucio Caracciolo quando descrive
l’Ue come un vaso di coccio stretto in mezzo tra l’avventurismo made in Usa e
le politiche criminali di Putin.
In tutto questo, sembra non ci sia nessuno interessato veramente alle sorti
della popolazione ucraina.
Ci sono state tante realtà che in questi anni hanno portato avanti
programmi di aiuto in Ucraina, un moto dal basso simile a quello che c’è stato
a suo tempo nell’ex Jugoslavia. Tante ong, molte organizzazioni cattoliche sono
impegnate in quei territori. E anche in Donbass ci sono realtà, aderenti alle
frange dell’estrema sinistra, che sono state solidali con i secessionisti del
Donbass. Chi non è interessato alla popolazione ucraina non è quindi la gente,
ma le grandi potenze in campo.
C’è poi una questione che chiama ancora più direttamente in causa l’Unione
Europea e le Nazioni Unite: in Ucraina il 18% della popolazione è di lingua
russa, una percentuale che sale fino all’80 per cento nelle zone di frontiera.
Nella regione di Kiev il 25 percento della popolazione non si “sente” ucraina.
Questo è un problema che non può non essere considerato visto che parliamo di
una minoranza consistente della popolazione che si sente “vicina” al Paese con
il quale confina e lo stesso discorso vale in altre nazioni europee dell’Europa
Orientale. Sono cose con cui l’Ue e le Nazioni Unite dovrebbero fare i conti.
La tutela delle minoranze in questi Paesi è un tema non più rimandabile,
altrimenti la questione continuerà a essere benzina su un fuoco su cui, di
volta in volta, soffierà chi avrà interesse a farlo.
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