Intro
cara Bottega
sono un lettore assiduo. Apprezzo le tematiche, la visione, la
posizione politica del blog. Non sono in accordo con tutte le cose che vengono
scritte ma nella maggior parte dei casi, spulciando qua e là, trovo sempre
qualcosa che può darmi ispirazione. Vi ho conosciuti tramite mastodon qualche
mese fa, e da allora ho deciso di abbonarmi al vostro rss per ricevere
costantemente gli aggiornamenti. Non sono di primo pelo, ho 45 anni; forse per
quello uso ancora gli rss per ricevere le notiche dai miei siti preferiti.
Lettore accanito dunque ma su questo blog – come altrove – noto una enorme
mancanza: non si parla mai di problemi psicologici. Mi son chiesto “perchè”
dandomi varie e fantasiose spiegazioni, ma credo che la ragione sia semplice:
depressione e sentimenti di disistima sono considerati spesso come problemi
“minori” da tenere – se possibile – nascosti agli occhi del prossimo. Siccome però
non ci si può soltanto lamentare di quel che non va, ma bisogna
sempre fare qualcosa per cercare di trasformare il mondo in quello che vorremmo
fosse, se me lo concedete, ho deciso di scrivere qualcosa io.
Lo stigma
«Esci, vai in
giro, fatti una scopata e passerà tutto». Qualcuno di
voi sorriderà ma questi sono i commenti che ho sempre ricevuto quando ho
sommessamente provato a comunicare alcuni dei miei stati di disagio mentale. Ho
pensato per anni di essere io quello sbagliato, poi ho capito che rappresentare lo stereotipo dell’«uomo che non
deve chiedere mai» non serviva (tantomeno a me) e alla fine ho
cominciato ad accettarmi per come ero. Questo non ha risolto i problemi ma ha
alleviato la sofferenza. Avevo meno di 20 anni e a quell’età avevo già cercato,
per due volte, di togliermi la vita. Mi ero trasferito dal Sud Italia al Nord e
la sensazione di sentirmi un pesce fuor d’acqua era a quei tempi profonda.
Ricordo che ero piuttosto bravo a scuola, ma il bullismo subìto nella mia nuova
classe era talmente pesante che mi spinse a isolarmi; addirittura decisi che
non sarei più andato a scuola. I miei risultati calarono drasticamente. Passavo
i miei giorni a osservare il soffitto, fra le coperte, leggendo tutti i libri
di Renzo De Felice perchè avevo deciso di portare “storia del fascismo” come
tesina alla maturità. Mia madre era preoccupata.
Ricordo benissimo il giorno che lei mi portò al servizio di salute
mentale della ASL: aspettai quasi mezz’ora la psicologa che avrebbe dovuto
“curarmi” e che con un tatto simile alla carta vetrata mi fece domande
inopportune con un approccio pessimo. Stufo della situazione, dopo poco mi
alzai e dissi «signora, se non ha voglia di ascoltarmi, non c’è motivo di
perdere altro tempo». La depressione era qualcosa di cui sentirsi in colpa. E
ora ne avevo le prove.
Non capisco di cosa si lamenta
Mio padre era un uomo di un altro secolo. Complesso, severo, a
tratti iracondo, a volte anempatico. Quando prendevo 8 in matematica o scienze
non mi diceva «bravo» ma «hai fatto metà
del dovere tuo». Non gliene ho mai fatto una colpa: in fondo aveva un
gran cuore ma lo imparai soltanto durante i suoi ultimi anni di vita. Quando i primi segni dei miei disturbi cominciarono a
palesarsi ricordo che il mio disagio cresceva nell’avvertire la sua sensazione
di impotenza. Una volta lo
sentii dire: «gli abbiamo dato tutto, perchè si lamenta?». Per
me fu come se, in qualche modo, fosse crollato un mito: mio padre “superuomo”
crollava sotto il peso di qualcosa che non riusciva a controllare. Avevamo
passato momenti brutti in famiglia, di pesante crisi economica, minacce da
parte della mafia perchè pagassimo un pizzo eppure quella cosa – il mio disagio
– evidentemente lo destabilizzava pesantemente. Non ho mai avuto la fortuna di
essere padre e dunque come può essere vivere dall’esterno la depressione di un
figlio non riesco a immaginarlo. Imparai più tardi, quando cominciai a uscire
di nuovo dalla mia bolla, che la difficoltà nell’approcciare una persona
depressa non era solo di papà ma di tutti coloro che mi circondavano.
Anch’io mi sento depresso
«Siamo tutti
depressi in questa società». Più o meno è la risposta che arrivava quando provavo a
spiegare quanto il mio disturbo impattasse sulla mia vita. «Bisogna
andare avanti, non ci si può piangere addosso» oppure «il tuo problema
è che ti chiudi in casa»: come se la depressione fosse una colpa e non una
questione da risolvere. Ho tante volte immaginato come sarebbe stato se mi
fossi rotto un braccio o una gamba: mi avrebbero detto frasi così inopportune?
Oppure, vedendo fisicamente il problema, avrebbero reagito stimolando i 4
neuroni specchio rimasti nei buchi reconditi del lobo parietale? Le prime volte
che ascoltavo queste risposte non riuscivo proprio ad accettarle. Col tempo ci
ho fatto l’abitudine tanto che, chiudendomi sempre più in me stesso, diventò
difficile per gli altri identificarmi come una persona depressa. Diventai un
perfetto teatrante, nascondevo tutto. In pochi sapevano, e andava bene così.
Dopo tanti anni però la cosa riesplose in maniera inaspettata.
Quel piccolo hotel
Ero a Genova e quella notte, in un hotel, esplose un ricordo
rimosso. Ricordo quel prete, le sue mani, quell’odore simile all’ammoniaca: il
sudore, il testosterone; c’era qualcosa in quella stanza che aveva dato vita a
un passato rimosso. Ricordai la sagrestia, l’odore di incenso, e quel tempo
bloccato che sembrava non finire mai. Ricordai di essere entrato dentro la
nostra Renault, di essermi accovacciato nel largo bagagliaio e di aver
cominciato a piangere. E poi di aver visto, dopo ore, alcuni amici – che mi
cercavano per una sessione di AD&D – ridere dei me attraverso i finestrini
di quell’automobile.
Il mio cervello aveva rimosso tutto, come si fa con le robe vecchie
messe in soffitta. Era davvero un male? Forse la mia testa aveva fatto la cosa
giusta, ma ormai il danno era fatto: il ricordo era riaffiorato e rimuoverlo di
nuovo non sarebbe stato semplice.
Forse fu allora che cominciai a sviluppare i miei disturbi
alimentari. Diventai bulimico, con condotte di eliminazione, ma questo non
aiutò, anzi peggiorò la situazione. Provai a comunicarlo all’unica amica che
credevo avere a quei tempi, ma la sua risposta fu il silenzio; e non ci
ritornammo su mai più. Possibile che nessuno mi volesse ascoltare? Forse era
questo il mondo “dei grandi” e io, semplicemente, non volevo accettarlo.
Una volta ero… ma ora…
Mi fa ridere quando sento persone che dicono «una volta ero
depresso, una volta ero bipolare, una volta avevo disturbi del comportamento
alimentare ma ora…». E’ davvero tranquillizzante ascoltarli per chi non
ha mai avuto problemi simili. Ma io vorrei comunicare, una volta per tutte, che
da questi disagi non se ne esce, si impara semplicemente a conviverci.
Se voi che ora state leggendo ascolterete qualcuno parlare di
depressione, ricordate che, se non siete specialisti, non sarete chiamati a
risolvere i suoi problemi. Evitate perciò di esprimere pareri inopportuni.
L’ascolto è cosa nobilissima. Però bisogna imparare ad ascoltare.
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