Tra
tecnocrazia e immaginazione: illusioni e fallimenti durante il governo della
pandemia.
Il modello
liberale di gestione della pandemia – lo sperimentiamo alla perfezione in
Italia – si basa sull’assunto che la protezione della salute sia un diritto cui
si accede secondo un’inclusione differenziale: chi ha più soldi protegge meglio
la propria salute. Il collasso cronico del sistema sanitario nel contesto
pandemico ha ridotto i servizi medici, nell’ultimo anno, a uno stato di coma
vegetativo. Il mancato esproprio totale, parziale o temporaneo, nel 2020, della
sanità privata (scenario che sarebbe stato, ed anche apparso, pienamente
legittimato dall’emergenza) ha provocato il dirottamento di migliaia di
pazienti verso cliniche private, spesso scadenti, per patologie “ordinarie”
anche gravi. Dinamica presente da tempo, ma che la gestione liberale della
pandemia vorrebbe eleggere a destino immutabile della nazione.
L’attuale
sistema amministrativo, economico e d’apparato è incapace di auto-regolarsi in
rapporto agli eventi storici e agli interessi generali, talvolta persino a
quelli privati che lo influenzano. Legato mani e piedi a feticci ideologici come
l’intangibilità della (grande) proprietà, il moderno stato-nazione procede ogni
volta in maniera sorda e meccanica verso la socializzazione del debito derivata
da ogni nuova privatizzazione dei profitti, e verso un approfondimento
dell’inclusione rigorosamente premiale e condizionata nella sfera del benessere
e dei diritti. Non è un caso che proprio in una fase che avrebbe consigliato
strategie fondate su valori e obiettivi definiti i partiti abbiano compiuto un
nuovo lungo passo verso il consociativismo.
I contributi
economici emergenziali hanno premiato piccoli e grandi imprenditori,
indubbiamente abili e ben organizzati – a differenza di precari e operai – nel
pretendere correttivi a quello che spesso non è stato, per molti titolari
d’impresa, che un temporaneo abbassamento dei livelli di investimento e
consumo. Le detrazioni fiscali sono state interpretate come bolle speculative
che raddoppiano gli introiti privati scaricando sui contribuenti (cioè su chi
non può evadere) il peso finanziario degli stimoli e annullando, in casi come i
bonus al 50%, l’effetto di risparmio sulle famiglie. Nulla è richiesto ai più
abbienti: il sistema fiscale viene riformato a vantaggio dei redditi più alti.
La scuola, i trasporti e la ricerca non hanno visto alcun potenziamento
strutturale, e la delega delle ricerche per i vaccini ad aziende private è
stata data per scontata fin dall’inizio, come la loro distribuzione secondo
logiche di mercato.
Le case
farmaceutiche ricattano così gli Stati per spillare, in cambio del principale
strumento per tentare di uscire dalla pandemia, miliardi a debito delle future
generazioni. A quello accumulato per l’inattività resa necessaria dal
distanziamento pre-vaccinale si aggiunge così quest’altro, puramente
ideologico, dovuto all’inchino che gli stati-nazione devono ai diritti della
grande proprietà multinazionale su produzione, distribuzione e brevetti. Anche
in questo caso l’assenza di ipotesi di commissariamento o esproprio delle
grandi ditte farmaceutiche testimonia il carattere distorto delle politiche
attuate durante un’emergenza giuridica che, per il carattere subordinato del
ceto politico ai grandi poteri dell’economia, non può e non vuole coprire i
bisogni generali dell’emergenza sanitaria. La conseguente, scandalosa
esclusione della maggior parte delle società ex colonizzate dalla campagna
vaccinale smentisce qualsiasi residua
pretesa illuministica del liberalismo reale – che, sul piano globale, si è dimostrato in
questo 2021 vero “No Vax” nella sostanza, senza tentennamenti o esitazioni.
Nuovi lumi
per reagire da sinistra
Come
reagire? L’anno intero è stato contraddistinto da scimmiottamenti fascistoidi
d’opposizione e pose oscurantiste. È il baratro aperto dall’assenza di un
pensiero alternativo reale. Di fronte al dogmatismo suicida del liberalismo al
potere, nuovi e veri lumi sarebbero necessari. Essi non sorgeranno
dall’arroganza dei giornalisti che difendono sempre e in ogni caso il potere
costituito – molti di essi hanno difeso in questi anni guerre, sfruttamento e
repressione del dissenso sociale con la stessa passione con cui oggi
pretenderebbero di indossare i panni di paladini delle scienze. Non sorgeranno
neanche dall’usuale feticcio di (non sempre precisati) “movimenti sociali”. Il
pensiero che disegna una direzione alternativa non lo creano l’intellighenzia
conformista o la mobilitazione di massa, non da oggi sensibili tanto alle
sirene di poteri autoritari o a ideologie reazionarie, ma gli sforzi di
militanti critici con contezza di ragioni e di fini della loro
contrapposizione.
Simili
militanti hanno sempre pensato e sempre penseranno a un programma di governo,
dentro o fuori dall’attuale definizione giuridica del governo. Saranno interni
alle mobilitazioni sociali, ma quando compatibili con una cultura della
liberazione. La presa di partito è infatti sempre teorica, mai puramente
sociale e tantomeno disposta a scambiare la società per la folla. Senza teoria
non v’è successo per l’azione pratica, quando riferibile a obiettivi
intellegibili. Non c’è neanche azione extra-teorica: al limite si subiscono
(sub-)teorie in forma implicita, per pigrizia, mancanza di coraggio o assenza
di reale autonomia. Non serve la rituale tonalità di protesta, reiterazione di
un negativo che basta a sé stesso. La teoria deve avere come obiettivo la
creazione di valori e cercherebbe forza, spazi e amici nella società senza
attardarsi su fallite illusioni circa l’esistenza, nella storia, di una mano
invisibile “antagonista”: popolo, moltitudine, classe, post-classe o altre
mille possibili controfigure di un “soggetto storico” fuori dal quale, e in
gran parte inizialmente contro il quale, obiettivi e valori per il cambiamento
sono sempre stati costruiti – senza paralizzanti deferenze istintive per questo
genere di illusioni.
La sinistra
post-classica: tecnocratica o immaginaria
Due compiti sono
prioritari per una sinistra da mettere al mondo: combattere l’idea del suo
superamento e le forme che ha assunto negli ultimi decenni. Lo mostrano le
reazioni alla pandemia e, prima, quelle alle primavere orientali, alla crisi
economica, alle guerre “di pace” e allo stesso 1989. Le attuali forme della
sinistra, antagoniste o di governo, si illudono – dal Pd alle disperse galassie
spontaneiste – di valutare la propria condizione a partire da riflessioni che
impattano su lassi temporali di mesi o anni. Dovrebbero invece comprendersi su
tempi di trasformazione molto più lunghi. Non è la sinistra di ogni tempo e di
ogni spazio: le sue origini si collocano in Europa e in Nord America nel
Secondo dopoguerra, nel declino della minaccia bolscevica e nell’affermarsi, in
parallelo, della società dei consumi. Allora – quando le varianti comunista e
socialdemocratica sono scomparse come forme storiche, lasciando i loro
simulacri e il guscio vuoto dei loro nomi a deperire per altri trent’anni –
hanno visto la luce due nuove realtà: la sinistra tecnocratica e quella
immaginaria. Sono ancora le realtà dello scenario attuale.
Cos’è la
sinistra tecnocratica? Un serbatoio di competenze tecnico-amministrative per le
burocrazie nazionali e (a causa della sua distanza dai sentimenti popolari e
della conseguente precarietà elettorale) sovranazionali e internazionali. Cos’è
la sinistra immaginaria? Un serbatoio di relazioni sociali e stili di vita
prodotti parassitando il retaggio simbolico delle rivoluzioni passate o
extra-occidentali. Scopo di entrambe queste sinistre non è lanciare una sfida
all’ordine esistente, e neanche, conseguentemente, vincerla. Esse non
funzionano secondo questo schema e talvolta mettono a tema questa circostanza.
La sinistra tecnocratica si accontenta di amministrare le istituzioni nazionali
e mondiali con malsicuro senso di superiorità culturale; quella immaginaria vi
contrappone con convinzione fanatica, ma altrettanto malsicura, un senso di
superiorità morale adornato da tonalità euforico-depressive. Il ceto politico
tecnocratico, che ha rinunciato all’idea di cambiamento e progresso, ha
forgiato uno stile di potere che ha traghettato il socialismo sovietico fino al
1989 e gran parte del liberalismo occidentale dopo quella data. L’arcipelago di
relazioni tribali estetizzate sviluppatesi a partire dal 1968, tuttora vive e
vegete (e potenzialmente indistruttibili), ha invece tramandato forme di
opposizione auto-riferita e moralistica ad ogni tentativo di proporre un’azione
imperfetta verso imperfetti cambiamenti concreti.
La sinistra
tecnocratica, in epoca socialista, aveva assunto su di sé la scienza triste
dello sfruttamento del lavoro e della repressione politica dei lavoratori; in
epoca liberale si è resa connivente con lo strapotere politico della grande
proprietà privata sul mondo, fino a farsi agente dello smantellamento del
welfare, della precarizzazione del lavoro, della gestione differenziale
dell’accesso sanitario e medico e persino vaccinale, sul piano globale, durante
questa pandemia. La sinistra immaginaria è ai suoi margini, impotente per
definizione di fronte a tutti i centri e a tutti i poteri, a tutto ciò che
trascende l’universo simbolico e allusivo: nulla può se non ottenere facili
vittorie sul terreno della contrizione interiore e del concetto. Nel ricondurre
gesti o linguaggi della critica a una riproduzione interminabile di rapporti
privati, o a forme di soddisfazione contemplativa, è un inesauribile meccanismo
di disinnesco delle velleità di ribellione che possono albergare tra i giovani
e nel mondo.
Le due
sinistre e la pandemia
La sinistra
liberale, da Speranza a Draghi, non possiede pensiero o progetto autonomo in
relazione alle politiche sociali, economiche e vaccinali, qualificandosi per
l’applicazione di tecniche di amministrazione dell’esistente. Esse possono
variare e non hanno tutte lo stesso valore, ma non possono neanche ambire a
costituire posizioni politiche nel senso pregnante del termine, che comprende
sempre il non considerare quale scenario futuro l’attuale dato di fatto. Il
carattere politico del liberalismo pandemico si delinea, non a caso, soltanto
in negativo: nell’importante (ma insufficiente) opposizione alla brutalità
dispiegata delle destre, o nella gogna spettacolare dei movimenti oscurantisti
che soli, davvero, possono far apparire razionali gli adepti della tecnocrazia
politica o dell’informazione.
La valenza
della sinistra immaginaria durante la pandemia non è stata superiore, anzi. Le
forme della sua critica sono state costruite sull’usuale presupposto di una
totale irresponsabilità, la quale discende – si badi – da una consapevolezza
inespressa della propria irrilevanza storica. Irrilevanza definitiva e non
accidentale: la sinistra immaginaria esclude per definizione prese di posizione
contingenti e concrete, poiché giustificazione della sua alienazione dal mondo
è l’attesa di uno scenario già liberato in cui l’agire non costituisca più una
forma di colpa o di compromesso. È evidente che tutto il lavoro di transizione
che le sinistre classiche affidavano alla dura lotta dei rivoluzionari sono qui
deputate interamente a un’attività onirica (o verbale). Per questo lo scenario
impossibile di una “sinistra immaginaria al potere” è l’effettivo scenario
distopico dell’epoca in cui viviamo.
Unico dogma
che accomuna queste mille micro-frazioni immaginarie e i loro gerghi
incomprensibili (non di rado perché insensati) è però proprio l’esclusione di
ogni ipotesi di governo della società e, nel caso corrente, della pandemia. La
variante immaginaria della sinistra sa di non potersi assumere
responsabilità di sorta di fronte al mondo e alla storia. La discussione mimetica-mitologica
sul “Che fare?” si riduce a forme di attivazione rituale talvolta genuine, ma
che non discutono fini positivi generali, essendo semmai indispensabili a
proteggere reti di relazioni personali. È questa allergia alle asperità, ai
grigiori e alla mondanità del mondo che mistifica pericolosamente il “reale” della
società e dei suoi conflitti, rendendo possibile la sua confusione con una mera
immersione strumentale e alienata nelle folle. Di qui anche le sorprendenti
frequentazioni di manifestazioni oscurantiste di norma care alle destre. Non
ogni opposizione sociale è meglio di ciò cui si oppone. Il Novecento (e in
verità la storia intera) hanno insegnato che non esiste legge dialettica
dell’emancipazione attraverso la mobilitazione, ma è sempre possibile la negative Aufhebung delle
condizioni attuali – ossia qualcosa di molto peggio.
Ecco allora
che l’opposizione “di sinistra” alla tecnocrazia pandemica, nell’urgenza di cavalcare
ogni piazza fisica o virtuale disposta a riempirsi, ha dovuto scegliere tra il
silenzio e diverse gradazioni del surreale, coerenti con una cultura che isola
ed eleva a metro della politica la sola facoltà (altrimenti utile)
dell’immaginazione. Quest’ultima funziona nei sogni, ma produce anche incubi.
Si è partiti dalla denuncia delle zone rosse come manovra totalitaria, ovviamente senza considerare
minimamente il virus quale elemento reale dell’equazione storica; dei lockdown
come arresti domiciliari di massa frutto, a seconda dei casi, di un disegno
distopico o di mero sadismo; infine, si è giunti all’equiparazione del Green
Pass a un provvedimento nazista. Il tutto senza chiedersi come un ipotetico
governo giusto, eventualmente frutto dell’immaginata rivoluzione, affronterebbe
situazioni simili. L’allergia all’assunzione di responsabilità ha a volte
trapassato il piano politico per depotenziare il contributo individuale: non
pochi, anziché instaurare contatti con i movimenti dei paesi poveri e
pretendere universalità vaccinale, rifiutano di vaccinarsi esibendo
narcisisticamente western people problems: mi si nota di più se non
mi vaccino o se rinvio di un po’, attardandomi in pedanti e amletiche
lamentazioni?
Vaccini e
Green Pass tra tecnocrazia e immaginazione
Apparentemente
questo genere di sinistra non può percepire il proprio imbarazzante privilegio
geopolitico e non intende contestarlo in nome di una logica inclusiva, quindi
lo estremizza elevandosi, piuttosto pateticamente, al di sopra di ogni
responsabilità sociale nazionale o mondiale. È così che l’immaginazione si
libera in un sol colpo dalle costringenti catene dall’etica e dalla logica, che
svariate dottrine immaginarie hanno spiegato essere politicamente inopportune.
Ne segue quella depressione latente che sempre conduce all’indicibile, non a
caso sempre più detto: i campi di sterminio e le leggi razziali usate per
giustificare i propri capricci, il paragone costante tra la propria realtà
ovattata e la resistenza al nazi-fascismo. Banalizzazione estrema dell’estremo
per cui i fascisti ringrazieranno a lungo.
La logica
del Green Pass nulla ha a che fare con il fascismo (o “con il socialismo
sovietico” – si dice; come se fossero la stessa cosa). È uno dei tanti esempi
di governo tecnocratico-liberale della società e, nello specifico, della
pandemia: «Libertà di scelta uguale libertà di portafoglio» chiosava
soddisfatto, a tal proposito, un noto giornalista economico di Radio24. Il
Green Pass, che non è la svolta palingenetica verso un universo da cui non si
tornerà più indietro, afferma una libertà puramente formale per negarla nella
sostanza, come ha giustamente fatto notare Alessandro Barbero: impone condizioni
draconiane a chi non compie una scelta e, quindi, riduce l’affermazione della
libertà a una sorta di presa in giro caratteristica del liberalismo fin dalle
sue origini. Questa forma di induzione economica alla vaccinazione dovrebbe
perciò essere sostituita con l’obbligo diretto che, coerentemente con la
verificata utilità dei vaccini, e senza creare disuguaglianze o pericolose
incertezze sui diritti, sarebbe altrettanto o più efficace nel portare a
termine le campagne europee e – questo il vero tema – mondiali.
Esiste
naturalmente un’altra alternativa al Green Pass promosso dalla sinistra
tecnocratica, che quella immaginaria predilige: la libertà vaccinale piena.
Soltanto una valutazione riduzionista degli effetti sociali e sanitari degli
agenti patogeni (il coronavirus come altri) può però motivare simili
pseudo-proposte, a meno che non si tratti di mera vigliaccheria intellettuale.
Non è escluso sia una parte del problema: l’opposizione al Green Pass, se è
stata per gli anti-vaccinisti un modo per riciclarsi come qualcosa di
apparentemente diverso da ciò che sono, ad alcuni attivisti immaginari serve
per sprofondare in una melassa che li toglie l’imbarazzo della fase
pre-vaccinale, quando non sapevano mai cosa dire. Perché dire qualcosa è tutto
quello che serve: l’opposizione immaginaria non è rivolta contro il governo
della pandemia, né contro questo o quel governo, contro un certo ordinamento
giuridico o contro una certa concezione del governo. È rivolta contro il
concetto di governo in quanto tale.
Com’è
possibile un’idea così balzana, tanto più per chi sbandiera una presunta
politicità “radicale”? Si tratta, per gli appassionati di queste cose, di un
fossile dell’inconcludenza tragica della sinistra extra-parlamentare degli anni
Settanta, di cui le nuove generazioni di militanti dovrebbero finalmente
smettere – dopo mezzo secolo – di pagare le sconfitte pratiche, concettuali e
filosofiche. Dall’inconsistenza storica di quella tradizione deriva l’ostilità
ad ogni prospettiva di cambiamento concreto e quindi di governo che, secondo
l’etimo greco, è l’attività (kibernan) di direzione e precisazione, con
un timone, della rotta della nave sociale. Attività mai individuale e mai
unanime che è, con buona pace di Agamben ed anche di Foucault, essenziale anche
e soprattutto a qualsiasi progetto di trasformazione, a pieno vantaggio di una
nuova relazione tra individuo e società, e tanto più in una moderna società di
massa. La lotta contro la sinistra immaginaria inizia qui: senza idea di
governo, non c’è sinistra. Quella contro la variante tecnocratica aggiunge,
senza illudersi possa bastare: senza volontà e capacità di rottura storica,
nessuna sinistra dovrebbe essere al governo.
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