Da dicembre
l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi
totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno
facendo.
Per quasi due mesi
i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio
palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di
una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il
1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio,
che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un
posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al
traffico.
Da allora, i
soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a
lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli
e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i
movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.
I soldati non si
limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14
occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini
o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre
diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.
La punizione
collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini
di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati
da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto
che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai
soldati cosa stessero facendo esattamente lì:
Posso chiederti
qual è lo scopo di questo posto di blocco?
“Certo. Siamo qui
perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini
dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di
passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione
sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro
al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli
adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari.
Non vogliono che lancino pietre”.
Quindi questa è in
realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?
“Esatto. È una
punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli
‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini
che quindi smetteranno di lanciare pietre”.
Ok. E che senso ha
questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?
“O è così, o altre
soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”
Cosa intendi per
altre soluzioni?
“Oggi disponiamo
di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di
pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini
saranno messi dove devono essere messi”.
La nuova
“normalità”
A duecento metri
dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto
bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la
maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei
anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione
superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto
in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere.
Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.
“Mi hanno
arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato.
“Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla
un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.
L’atmosfera è
cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi
occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi
di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce
l’esercito “. Tutti tacquero.
“E’ sempre mio
padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”,
dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il
posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in
ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno
scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano
sassi?’”
E tu cosa dici?
“Niente. Sono sul
sedile posteriore e guardo mio padre”.
E cosa pensi?
“Niente. Non penso
niente. Per me è normale”.
Il resto dei
bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti.
“Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas
lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.
Tamer fa
riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video,
quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle
ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli
studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato
le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham,
che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in
cortile”.
Da quando sono
iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola
tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio,
alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.
Il brutale
ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e
insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di
essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente
dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo
corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”
In un altro video,
i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si
vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le
aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da
basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono
stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno
successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tutt’ora in custodia.
“Di solito prendono
i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche
schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li
riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio,
l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo
li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di
polizia per essere interrogati e non sono stati processati.
“Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”
Arin, una 43enne
residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica
delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le
incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a
interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas
lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.
Ad esempio, il 2
dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del
villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla
strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è
impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo
dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle
granate stordenti.
“Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna
anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente
non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di
30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.
“Ogni notte, da un
mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre
volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice:
‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io
lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini
li odino ancora di più”.
Il nuovo posto di
blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la
statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento.
“L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro
vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la
sera”, ha detto Fatima.
Elham, 32enne che
culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione
avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile
posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha
risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio
figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato
Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché
l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha
semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”
“Controllate
l’aria che respiriamo”
Come in moltissimi
villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova
nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area
B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai
palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo
vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le
nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla
sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a
distruggerlo”, dice Fatima.
Halamish, noto
anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È
stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare
giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha
reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà
privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche,
a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione
che pubblicizza nuovi appartamenti.
I residenti
palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di
coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine
all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su
Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina
Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può
lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché
i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché
controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.
A dicembre Nasser
Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del
consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come
previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale
Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e
parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il
villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha
spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha
di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a
causa della punizione collettiva.
“Esci dal
villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e
rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12
anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i
nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine
fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono
responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro
sicurezza”.
Fermati medici e
infermieri
Da quando è
iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso
completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette
ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato
l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano
recando alla clinica locale per visitare i residenti.
Nel mese scorso
agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città
palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio,
annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di
essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un
video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al
posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I
soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.
Shadi e il suo
amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio
mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a
Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”,
indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.
Tel Aviv dista 30
chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si
librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi,
come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare.
Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.
All’uscita, vicino
al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal
lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso
di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al
posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non
pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di
ingresso.
“Per tutto il
viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di
blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la
spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a
loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e
alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro
mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’.
E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.
Da un’analisi e da
un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria –
un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre
palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le
azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano
una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati
sulla statale 465.
All’inizio dello
scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita
da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita
alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è
stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli
unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a
Dir Nizam.
Da quando il 1°
dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella
zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati
documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo
precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte
più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività
di deterrenza.
Abbiamo chiesto al
portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire
i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica
dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava:
“Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici
locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano
sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze
dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le
valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.
Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora
in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e
insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta
comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.
(traduzione
dall’inglese di Luciana Galliano)
Nessun commento:
Posta un commento