Il 2021 è l’anno dell’onda lunga
della pandemia Covid19, anno in cui il mondo realizza che la prospettiva non è
quella di una crisi grave ma di breve durata, ma quella di un prolungata
transizione destinata a sconvolgere gli assetti sociali, economici e politici
con un impatto maggiore e più radicale di quello dovuto alla crisi finanziaria
del 2008. È anche l’anno dei vaccini, della corsa alla ricerca e alla
produzione, che dentro lo straordinario sforzo internazionale si schianta
contro le regole ferree del mercato e del profitto, lasciando scoperta la
maggior parte del mondo. La radicalità della crisi è tale, in ogni ambito, che
il mantra globale che l’accompagna suona più o meno “molte
cose devono cambiare, la pandemia non consente di tornare semplicemente al
sistema consolidato, se non si vaccina tutto il mondo nessuno è al sicuro”.
Ma mai come in quei mesi, e oggi ancora, la retorica ha fatto a pugni con i
dati di fatto. E mentre nella parte ricca del mondo una minoranza rifiuta il
vaccino, nella parte povera moltitudini in balìa delle logiche del profitto ne
sono escluse.
Un
anno di campagne vaccinali. Il virus è democratico, la prevenzione no
A metà del 2021, nel mondo
risultavano somministrate 2,19 miliardi di dosi di vaccino. Di queste, l’85% è
stato reso disponibile nei paesi ad alto reddito, mentre ai paesi più poveri,
alla fine della graduatoria mondiale, è andato lo 0,3%. La UE si è riservata
4,4 miliardi di dosi per 446 milioni di europei, che significa avere garantiti
5 cicli vaccinali completi. A fine maggio 2021, nella UE il 33% della
popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino, la percentuale scende al
15% in America Latina, al 5% in Asia e all’1,5% in Africa. Si va dal 62,2% del
Canada, il 51,2% degli USA, il 60% del Regno Unito e la media di 35-40% nella
UE, al 22% del Brasile, il 13% dell’India, l’1,08% del Sudafrica, lo 0,8% del
Sudan. Tra chi ha ricevuto il ciclo completo, si oscilla dal 60% di Israele, il
41,8% degli USA, il 41,1% del Regno Unito e lo 0,02% del Kenya e lo 0,05% della
Somalia. In media, nei paesi ad alto reddito a fine aprile 2021 risultava
vaccinata 1 persona su 4, in quelli a reddito medio-basso 1 su 500. A
marzo 2021 erano 130 le nazioni che non hanno ancora visto una dose di vaccino.
Il nesso tra le percentuali della popolazione vaccinata e il PIL dei paesi è
evidente. Con questo ritmo, si prevedeva che entro il 2021 solo il 30% delle
popolazioni di questi continenti sarebbe stato vaccinato e alcuni paesi lo
sarebbero stati alla fine del 2024.
Cosa ci dicono oggi, 2022, i dati di
queste previsioni? A gennaio 2022 dicono che quella percentuale prevista – il
30% di vaccinati entro il 2021 nei paesi a basso reddito – già scandalosamente
bassa, era ottimistica: si tratta invece del 10% in media, mentre la media
mondiale è del 61%. L’oscillazione del range è una dichiarazione di fallimento
delle politiche globali: il 99% in Arabia Saudita, il 6,6% in Nigeria.
Se nel 2020, in assenza di vaccini,
il 73% delle morti dovute al Covid19 è avvenuto nei paesi ricchi, come USA e UE,
dove alta è la mobilità delle persone e più alti i contagi, oggi, a campagna
vaccinale avanzata, la percentuale si rovescia, e il 72% delle morti avvengo in
Asia, Africa e America Latina, che pagano il prezzo della bassa o nulla
copertura vaccinale. Questo esito era del resto ampiamente prevedibile, se si
pensa che ancor prima che i vaccini fossero approvati dalle varie agenzie del
farmaco, 15 tra i paesi più ricchi del mondo, che totalizzano il 14% della
popolazione globale, avevano già acquistato dalle imprese la cui ricerca era
più promettente e su cui avevano investito denaro pubblico, il 60% delle dosi
che si prevedeva sarebbero state prodotte nel 2021. Così, per l’86% della
popolazione mondiale sarebbe rimasto – ipoteticamente, per altro – non più del
40% dei vaccini disponibili.
La governance globale del vaccino
produce e riproduce disuguaglianza, e fa male anche a chi la sostiene. Infatti,
non è che economisti e politici non sappiano che se il mondo non accede ai
vaccini, a cominciare dai paesi a reddito basso, la crisi travolge non solo chi
rimane in balia di una pandemia che produce ospedalizzazioni, morti, perdita
economica e povertà, ma costa caro anche coloro che se ne credono fuori.
Secondo uno studio dello ICC – International Chamber of Commerce (non proprio
una radicale ONG…), se la copertura vaccinale resta appannaggio dei paesi
ricchi e lascia scoperti gli altri, potrebbe esserci una perdita globale di 9,2
trilioni di dollari, circa il 7% del PIL globale. Circa il 50% di questa
perdita sarebbe comunque a carico dei paesi più ricchi, anche se le loro
popolazioni fossero coperte dal vaccino, con una media stimata del 5% di
perdite nei settori automobilistico, tessile, edile e commerciale. In uno
scenario meno pessimistico, con il 50% delle popolazioni dei paesi a basso e
medio reddito vaccinate, la perdita sarebbe comunque di 3,8 trilioni di
dollari, di cui 1,9 sulle spalle dei paesi ricchi. Ma i paesi ricchi non
investono a favore di quelli poveri: se pensiamo al programma dell’OMS
ACT-Accelerator, per l’accesso ai vaccini, il rapporto tra gli investimenti di
alcuni paesi a favore di questo programma e le cifre che sono destinati a
perdere qualora il mondo meno ricco restasse scoperto sono illuminanti: nel
febbraio 2021 gli USA annunciano di devolvere al programma 2 miliardi di
dollari, ne perderebbero 744 se il mondo rimanesse in parte non vaccinato; la
Germania, 1,8 miliardi, ne perderebbe 137, il Giappone 0,079 miliardi (!), ce
ne perderebbe 197, il Canada 0,059, ci rimetterebbe 61 miliardi. Un altro
studio, condotto da RAND Europe, calcola che per ogni singolo dollaro investito
per i vaccini nel sud del mondo, ai paesi ricchi tornerebbe indietro una cifra
di 4,8 dollari, mentre se questo non avvenisse costerebbe al PIL globale tra i
60 e i 240 miliardi di dollari ogni anno. Insomma, vaccinare il mondo sarebbe
interesse anche dei più ricchi.
Ma questi ragionamenti razionali non
fanno i conti né con il sistema internazionale governato da WTO (World Trade
Organization) e TRIPS (Trade Relate aspects of Intellectual Property Rights),
né con Big Pharma e il suo rifiuto a derogare ai brevetti, né con l’arroganza
occidentale del “nazionalismo vaccinale”.
A dire il vero, c’è stato un momento
in cui nella primavera del 2021 è sembrato che questa razionalità potesse
vedere la luce, quando si è affacciata alla politica internazionale con la
posizione assunta dal presidente USA Biden, che di fronte alla già evidente
iniquità della distribuzione mondiale dei vaccini, apriva alla possibilità di
deroga ai brevetti; e in questa direzione sono andate alcune timide aperture
europee, soprattutto di Italia, Francia e Spagna. Ancora a metà del 2021, al
Global Health Summit dei G20 sulla salute, tenutosi a Roma su iniziativa della
presidenza italiana, Mario Draghi nominava la possibilità di derogare,
temporaneamente e con molte cautele, ai brevetti. Ma si è trattato di un breve
flash subito rientrato nei ranghi: allo stesso summit, la Commissaria europea Ursula von der Leyen indicava
la cosiddetta “terza via” europea, che terza in realtà non è, essendo in pieno
in linea con la politica del WTO/TRIPS: no alle deroghe, sì a un sistema di
“donazioni” di quantità di vaccini ad opera dei paesi più ricchi e
trasferimento di know how per le produzioni locali, ma solo su base volontaria.
Insomma, nella Dichiarazione di Roma uscita dal summit che prometteva grandi
soluzioni, la guida è saldamente in mano alle grandi aziende produttrici; la
retorica rimane confinata nel prologo della Dichiarazione (“una vaccinazione globale, sicura, sostenibile,
equa ed efficace”) per poi sfarinarsi in una pletora di “accordi volontari di licenza di proprietà
intellettuale, i trasferimenti volontari di
tecnologia e know-how e la condivisione dei brevetti a condizioni concordate di
comune accordo”, cioè quella contrattazione polverizzata, insostenibile ai più,
già prevista dagli accordi TRIPS ma sempre tarpata dalle asimmetrie dei poteri
in campo. Stesso segno avrà la Carta di Roma prodotta dal G20 dei Ministri
della Salute tenutosi a settembre 2021: l’ambizioso obiettivo di coprire con i
vaccini almeno il 40% della popolazione mondiale entro il 2021 appare già
allora quanto meno azzardato, alla luce dei risultati della fase precedente (a
fine estate 21 solo il 5% dei vaccini è andato ai paesi a medio-basso reddito),
e oggi sappiamo che azzardato era un eufemismo. C’è in tutti questi documenti
una enfasi sulla necessità di trasferire tecnologie e know how, perché ci si
rende conto che la pandemia da covid19 non sarà breve né sarà l’ultima, e
aumentare la capacità produttiva mondiale di vaccini (ma anche di farmaci) è
prioritario; e tuttavia nessuno di questi indirizzi àncora a impegni precisi e
soprattutto la parola della politica non fa un passo avanti rispetto alla voce
e ai diritti che le grandi imprese hanno nell’architettura del WTO e del TRIPS.
Un esempio: l’agenzia Covid-19 Technology Access Pool (C-TAP), che dovrebbe
facilitare la nascita di nuovi poli produttivi soprattutto nei paesi a basso e
medio reddito, è sostanzialmente bloccata, perché Big Pharma frena e preferisce
puntare sul meccanismo distributivo (non produttivo) Covax, che mantiene
inalterato il suo potere anche sul know how e garantisce i profitti. Il CEO di
Moderna, Stéphane Bancel,
sbeffeggia di fatto il dispositivo C-TAP e con riferimento alla
realtà africana, afferma che «Covax è il miglior strumento per assicurare
l’accesso ai vaccini. Non abbiamo abbastanza risorse da investire per portare
le nostre tecnologie altrove. Questo avrebbe un impatto negativo sui nostri
obiettivi produttivi e porterebbe a una maggiore diffusione del virus».
Insomma, il sistema non va cambiato e cambiarlo aumenterebbe i danni. Più
chiaro di così non si può: la resistenza delle grandi aziende multinazionali
sabota la capacità mondiale di produrre vaccini e riduce drasticamente la loro
disponibilità. Peccato, perché non è vero ciò che alcuni sostengono, e cioè che
senza le grandi multinazionali non si può produrre vaccini: il mondo sarebbe
invece in grado di farlo. Secondo uno studio dell’Imperial College di
Londra, con 25 miliardi di investimento si potrebbero produrre
8 miliardi di dosi in sei mesi attivando 55 siti produttivi, mentre le economiste
Mariana Mazzucato, Jayati Ghosh and Els Torreele, animatrici di People’s Vaccine Alliance, stimano che se il sistema
degli accordi WTO non lo impedisse, ci sarebbe la capacità di produrre e
distribuire il 60% di vaccini necessari entro il 2021, e il restante entro il
2022. Con buona pace di Stéphane
Bancel, l’attuale scarsità è
determinata da un lato dall’accaparramento dei paesi ricchi e dall’altro dalla
gestione delle grandi imprese.
Dunque, a campagna vaccinale
avanzata e a evidenti risultati disuguali, nel 2021 si è nuovamente alzato il
muro liberista, come nel 2020, quando grazie agli USA ma forse soprattutto
all’Unione Europea – leader la Germania e la Commissione – al WTO fu bloccata
ogni ipotesi di deroga alla proprietà intellettuale dei vaccini (per altro non
una rivoluzione, ma utilizzando articoli esistenti nello stesso accordo TRIPS)
e fu destinata alla sconfitta la proposta di deroga di India e Sudafrica, che
pure avevano raccolto 100 adesioni da molti paesi del mondo e di agenzie OMS,
UNAIDS e Unitaid – Programmi ONU rispettivamente contro AIDS e malaria, i
Rapporteurs sui diritti umani e oltre 400 associazioni della società civile.
Ma, si sa, 100 paesi a reddito medio basso non pesano sul piatto della bilancia
globale, quando sull’altro piatto vi siano le grandi potenze economiche:
allora, la partita fu persa per 9 voti. Il Consiglio del TRIPS, tenutosi l’8 e
9 giugno 2021, ha visto di nuovo il fronteggiarsi delle due posizioni, una
sostenuta da 60 delegazioni per la deroga ai brevetti, l’altra, sotto l’egida
dell’Unione Europea (della Commissione, perché invece il Parlamento europeo a
fine 2020 e inizio 2021 aveva presentato due risoluzioni in appoggio alla
proposta indoafricana, che sono rimaste lettera morta), per il mantenimento
delle regole vigenti con soli incentivi alle licenze volontarie, che non
intaccano i dispositivi della proprietà intellettuale. Di nuovo, anche nel 2021
hanno vinto i potenti.
COVAX
non basta. Anzi, arranca
E dunque, in assenza di decisioni
coraggiose e strutturali, nel 2020 il mondo decide di procedere attraverso un
sistema – COVAX – promosso dall’OMS insieme ad alcuni dei paesi ad alto reddito
e in sinergia con due programmi, Gavi- Vaccine Alliance e CEPI, Coalition for
Epidemic Preparedness Innovations, la cui caratteristica è quella di funzionare
come partnership pubblico-privato, grazie a fondi (e tramite poteri) governativi
ma anche privati, come quelli della Fondazione Bill & Melinda Gates. Si
tratta di “donazioni” di dosi vaccinali a sostegno dei paesi con meno risorse,
con un impegno iniziale di 2 miliardi di dosi per il 2021, a cui aggiungere
altri 635 milioni ancora da negoziare, e altri 1,8 miliardi all’inizio del
2022. Ma a giugno 2021 risultavano distribuiti solo 70 milioni di dosi dei 240
previsti entro la primavera; nei mesi seguenti le cifre aumentano, ma sempre
molto al di sotto del necessario, al di sotto del miliardo di dosi a inizio
2022, e si tratta per altro di un miliardo solo dichiarato. Perché tra gli
impregni presi, poi il reale stanziamento e poi la concreta consegna ai paesi
destinatari di tempo ne passa. Per esempio, i due più grandi donatori, UE e USA,
si impegnano rispettivamente per 300 e 200 milioni di dosi, ma ne sono già
arrivati a destinazione solo 78 e 144 (inizio 2022), e restano solo annunciati
ma non ancora devoluti a Covax 140 milioni dalla UE e ben 664 dagli States.
C’è da notare, poi, che queste
“donazioni” soggiacciono non solo alle disponibilità e volontà politiche degli
stati più ricchi, ma anche alle aziende multinazionali, sotto diversi profili.
Per esempio, delle loro politiche commerciali, come nel caso di AstraZeneca, il
cui produttore Serum Institute of India ha dovuto far fronte all’impennata
della crisi pandemica in India, riservando al suo paese una quantità di dosi
prima impreviste. Oppure, la clausola accettata dalla Commissione Europea, con cui si è vincolata
all’autorizzazione delle case farmaceutiche per la cessione di dosi di vaccino
ai paesi più poveri. Questa paradossale clausola fa parte degli accordi con le
sei maggiori case produttrici, Advance Purchase Agreements (APAs), quel
patto finito sotto accusa anche del Parlamento Europeo, per le troppe regole a
sfavore dei governi e delle popolazioni e a favore delle aziende, dai prezzi
alle quantità di vaccini garantite ma poi non consegnate. Insomma, già “donare”
invece di “garantire” il diritto alla salute è di per sé (dovrebbe essere) uno
scandalo, ma in più il potere delle grandi aziende trova nel sistema Covax un
ulteriore modo per controllare il gioco.
L’esempio africano è emblematico.
L’Africa ha 1,3 miliardi di abitanti e annovera molti tra i 92 paesi più poveri
del mondo. A metà 2021 solo 7 delle sue 54 nazioni hanno potuto avviare la
campagna vaccinale, mentre ad oggi solo il 10% delle popolazioni dei suoi paesi
più poveri è in media vaccinato con almeno una dose. Per una copertura
vaccinale di almeno il 60% (che è comunque poco rispetto al necessario, i paesi
ricchi puntano al 90%…) ci vorrebbero 1,5 miliardi di dosi (booster escluso),
cifra non credibile se consideriamo i citati dati Covax sulle donazioni. Nel
2021 (primi 6 mesi), in media sono state somministrate nel mondo 28,5 dosi ogni
100 persone, 65 nei Paesi ricchi, 2,5 dosi ogni 100 persone in Africa e 1,5
nell’africa sub-Sahariana. Le difficoltà di Covax certo non mettono l’Africa al
sicuro e ben si comprende la battaglia del Sudafrica per la deroga ai brevetti.
Gli africani sono pertanto costretti a muoversi sul mercato; il Presidente
dell’Unione Africana, il sudafricano Cyril Ramaphosa, ha varato lo African Vaccine Acquisition Task Team (AVATT),
simile al modello secondo cui l’Unione Europea negozia per i suoi stati membri,
programmando di procurarsi attraverso canali commerciali 670 milioni di dosi.
Non sarà un percorso veloce, vanno trovati i fondi, e nonostante l’African
Export-Import Bank si sia impegnata ad anticipare 2 miliardi di dollari, si
stima che l’intera fornitura non arriverà prima del 2022 avanzato. Senza
contare che, stante che Covax coprirà (dovrebbe coprire) il 20% delle
vaccinazioni, e gli acquisti dei governi tramite la Banca Africana un altro
15%, per raggiungere la copertura minima del 60% rimane scoperto un 25%: si
farà appello alla banca Mondiale o ad altre fonti per ora non specificate. In
ogni caso, i governi africani dovranno indebitarsi, depositare subito il 15%
del prestito e poi restituirlo a rate entro 5 o 7 anni, non proprio una bella
prospettiva per il continente più povero del mondo e massacrato dalle
conseguenze economiche, sociali e sanitarie della pandemia.
Intanto
Big Pharma… Lobbying e guadagni stellari
A proposito dei contratti poco
favorevoli all’interesse delle popolazioni e più utili alle grandi aziende
farmaceutiche, l’Unione europea non ci fa una bella figura, nonostante in
quanto area ricca del globo certamente stia tutelando i suoi cittadini di serie
A assai più di quelli di serie B del mondo a basso reddito. Al 1° febbraio
2021, la Commissione ha negoziato complessivamente l’acquisto di 2,3 miliardi
di dosi di vaccini. Va detto che tutta la partita è comincia con il piede
sbagliato, quando nel 2020 la Commissione si impegna all’acquisto di milioni di
dosi di vaccini che ancora non esistono, di cui poco o nulla sa in termini di
efficacia, e lo si fa con l’imperativo assoluto di assicurarsi le dosi, ma
negoziando poco o nulla circa prezzi e forniture e loro condizioni, cioè
curando il “nazionalismo vaccinale” ma assai poco altri aspetti che riguardano
l’interesse pubblico. Quando nel 2021 scoppia il contenzioso con AstraZeneca,
Moderna e Pfizer per il non rispetto di quantità e tempi per la consegna
pattuita, si cominciano a capire alcune delle trappole contrattuali. Non ci
sono termini chiari sulle consegne, quantità e tempistiche, le imprese sono
tenute a “fare del loro meglio” (“its Best Reasonable Efforts”), laddove questo
“meglio” è definito come mettere in campo «un
impegno adeguato ad un’azienda di dimensioni simili con un’infrastruttura di
dimensioni simili e risorse simili nello sviluppo e commercializzazione del
farmaco». Un poco vago per poter poi pretendere il rispetto delle consegne
pattuite e per pensare che le minacce comunitarie di sospensione dei contratti siano
davvero efficaci. I ritardi e i tagli nelle forniture non sono cosa da poco se
si considera come una copertura vaccinale tempestiva incida sul decremento dei
numeri delle morti, ma anche sulla crisi economica: alcune proiezioni affermano
come a livello europeo un ritardo di cinque settimane nella campagna vaccinale
possa costare all’economia dell’Unione fino a 90 miliardi di euro. Un altro
punto controverso è quello della responsabilità civile in caso di danni causati
dai vaccini: una lunga azione di pressione è stata condotta dalle case
farmaceutiche per trasferire la responsabilità ai governi acquirenti, indicando
una simile legislazione già vigente negli Stati Uniti.
Perché la UE è così debole? Certo è
noto lo strapotere delle grandi multinazionali nel governo dell’economia
globale e nei confronti della politica, ma oltre a questa generale
constatazione merita ricordare che il covid19 arriva in un contesto dove già
questo squilibrio è forte e sancito. Il sistema comunitario nel campo dei
farmaci ha il suo luogo privilegiato nell’IMI – Innovative
Medicine Initiative, un sistema pubblico-privato tra Commissione Europea e
EFPIA- European Federation of
Pahrmaceutical Industries and Associations, dove vengono prese le
decisioni e dove il peso del pubblico è storicamente debole. Tanto che in sede
di valutazione del suo operato da parte della Commissione europea nel 2017, si
afferma che «Non ci sono esempi di attività
che abbiano portato a terapie o prodotti nuovi, più sicuri e più efficaci per i
pazienti. Il valore aggiunto
dell’IMI per la società e per i pazienti è difficile da dimostrare». È
in questo ambito che la richiesta della Commissione, portata alcuni anni fa, di
concentrarsi anche sui coronavirus per quanto attiene la ricerca, è stata
disertata dalle aziende, che al momento non la valutavano prioritaria (e
proficua). E dove ci sono anche problemi di trasparenza, per esempio circa gli
investimenti delle aziende (mentre quelli pubblici sono in chiaro) e di non
giustificata segretezza, per esempio circa i verbali delle riunioni.
A fianco di questi deficit
strutturali del sistema, c’è una potente azione di lobbying, che durante la
pandemia è cresciuta sensibilmente: le grandi aziende dovevano tamponare
l’uscita della primavera 2021 di Biden circa la possibile deroga ai brevetti,
poi rapidamente rientrata (ma intanto negli USA, in quelle settimane, 100 nuovi
lobbisti hanno cominciato a lavorare al Congresso) e ha investito sulla
Commissione Europea come baluardo del sistema. Per altro riuscendoci, come si è
visto dalla posizione assunta alla riunione TRIPS del giugno 2021. Il sistema è
collaudato: EFPIA tra il 2015 e il 2020 ha investito in azioni di lobbying “in
chiaro” (cioè note al Transparency Register della Commissione) 36 milioni di
euro, di cui 25,3 spesi da 40 maggiori aziende, e 15 spesi per le agenzie di
consulenza, con 290 lobbisti attivi, cui aggiungere numerosi incarichi
temporanei di consulenza. La pandemia enfatizza il lobbismo, EFPIA nel 2020
aumenta del 20% il suo investimento e assume 25 nuovi lobbisti. Sono 34 le
agenzie di consulenza che lavorano a Bruxelles per le aziende farmaceutiche:
EFPIA ci investe 660mila euro l’anno, Johnson & Johnson 770mila, Pfizer
spende tra gli 8 e 900mila euro e ha 4 lobbisti permanenti presso il Parlamento
europeo. A fronte della pandemia, nel 2020 ci sono state 140 audizioni di Big
Pharma con la Commissione, mentre questa ha incontrato una sola realtà
pro-deroga dei brevetti: Medici Senza Frontiere, non riesce a farsi ricevere né
dalla Commissaria alla Salute Kyriakides né da quello al commercio
Dombrovskis, lo stesso dicasi per Global Health Advocates (GHA) e Save the
Children. 140 a 1, non c’è storia…
Denaro
pubblico, profitti privati
“L’affare di una vita”, farmaci
destinati all’intera popolazione globale e ripetuti nel tempo, in un simile
sistema sbilanciato, porta a profitti stellari. Pfizer, per esempio, aveva
previsto per il 2021 un profitto derivante dai soli vaccini anti-Covid di circa
15 miliardi di dollari, ma ha dovuto correggere la stima, perché ne sono alla
fine arrivati 26 (e la campagna The
People’s Vaccine osserva che con quella cifra si vaccinano 1,3
miliardi di persone cioè l’intera Africa). Un indicatore importante è quello
del mercato azionario, dove sempre Pfizer è passata a un valore delle sue
azioni di 30 dollari nel gennaio 2020, a 121 nel dicembre dello stesso anno,
con una distribuzione ai suoi azionisti di 2,2 miliardi di dollari nei primi
tre mesi del 2021. Del resto, è stato calcolato che quando le due dosi del
vaccino Pfizer sono vendute al prezzo massimo (il range dei prezzi negoziati
con i diversi governi va da 13 a 39 euro), il profitto è dell’80%. I vaccini
mRNA sono prodotti con in media tra i 1,18 e i 2,85 dollari, mentre costano ai
governi tra le 4 e le 24 volte questo costo (dipende dalla famigerata
contrattazione segreta dei prezzi). Ci sono stime che dicono che, con questa
politica di sovraprofitti, Pfizer/BioNTech e Moderna avrebbero sovracaricato
molti paesi di una spesa in eccesso calcolata in 41 miliardi di dollari, costi
di produzione esclusi. Anche l’Unione europea sarebbe vittima di questo
meccanismo, avrebbe pagato 31 miliardi di euro più del dovuto per i vaccini
mRNA, cifra pari al 19% del suo budget 2021.
Quando Big Pharma invoca prezzi e
profitti a copertura dello sforzo eccezionale nella ricerca dice una mezza
verità. L’altra mezza, taciuta o pervicacemente negata anche attraverso
aggressive campagne mediatiche, come quella condotta da Pfizer su tutti i
maggiori media mondiali, parla di ingenti investimenti pubblici, un fiume di
denaro pubblico confluito in questo sforzo planetario.
Data la pluralità dei canali di
finanziamento, comporre la mappa del denaro pubblico investito e calcolarne
l’esatto ammontare è questione non facile, anche perché vi è un flusso di denaro
che è convogliato verso le agenzie pubbliche-private come il CEPI, però alcuni
dati ci sono. La forma più rilevante di finanziamento pubblico alle grandi
imprese sono gli Advance Market Commitments (AMC), i soldi che i governi hanno
fatto arrivare come anticipo su vaccini ancora allo studio, denaro che ha
consentito l’accelerazione della ricerca: si tratta di 86 miliardi di dollari
nel 2020, il 95% dei finanziamenti pubblici (95% per la ricerca per il vaccino
e il restante 5% alle terapie). A questa cifra (sottostimata perché non include
i dati di Cina e Russia) si aggiungono altri 7 miliardi di prestiti agevolati o
sovvenzioni dirette. Maggiori finanziatori gli USA (32%), il 24% viene
dall’Unione Europea e il 13% dai governi giapponese e della Corea del Sud.
Sulla quota investimenti diretti in ricerca e sviluppo, 2,2 miliardi dagli USA,
1,5 dalla Germania, 500 milioni dal Regno Unito, e 327 dalla UE, mentre il
governo cinese avrebbe contribuito con 153 milioni; sono andati 956 milioni a
Moderna, 910 a Jessen, 800 a Pfizer, 741 a Curevac, 541 ad AstraZeneca, 145 a
Sinofarm. Il che dovrebbe almeno suggerire un maggior potere decisionale del
pubblico, governi e enti sovranazionali, nelle politiche di produzione e
distribuzione, oltre che sui prezzi.
Se è vero che sono le dinamiche
macroeconomiche quelle che devono preoccupare, i profitti e la
finanziarizzazione delle imprese che producono beni che sono in realtà beni comuni per l’umanità, colpisce però
per la sua enormità anche un altro dato, quello dei guadagni stellari di CEO e
singoli grandi capitalisti del settore: la pandemia ha creato in pochi mesi 9
nuovi miliardari, di cui 5 legati a Moderna e 3 vengono dalla Cina, da CanSino
Biologics. Tra tutti e 9 arrivano a 19 miliardi di dollari, mentre altri 8 sarebbero
coloro che, già miliardari prima della pandemia, hanno fatto affari investendo
nel settore dei vaccini anti-covid19, portando i loro patrimoni complessivi a
32 miliardi di dollari.
La
lotta che ci serve
Mentre in Europa e in USA l’eco
mediatica amplifica un conflitto, in realtà numericamente limitato, attorno ai
vaccini all’insegna del loro rifiuto, continua la lotta dei governi dei paesi
poveri e di una fitta rete di associazioni locali e mondiali perché i vaccini
siano sicuri e accessibili in ogni angolo del mondo. Vaccino
bene comune, in questa duplice accezione di sicuro e garantito, è lo
slogan di questo nuovo spezzone del movimento antiglobalizzazione liberista,
che è in continuità, tematica e politica, con quello nato vent’anni fa a
Seattle e arrivato fino a Genova 2001. Allora si trattava dei farmaci per la
cura dell’AIDS, del loro costo inavvicinabile dai paesi più poveri che erano
anche i più colpiti, della lotta del Sudafrica contro il TRIPS e della
Conferenza di Doha. Oggi c’è un altro virus ma lo stesso capitalismo, o forse, se
possibile, anche più arrogante e potente, con il depotenziamento della forza
delle Agenzie internazionali come l’OMS e la crescente debolezza dei governi
verso il potere dell’economia.
Sono più deboli anche i movimenti,
che pure sono attivi, la forza globale dei movimenti di inizio millennio si è
sfarinata, su questo come su molti altri fronti, e quanto si vede nelle nostre
piazze no vax ogni sabato ha il sapore amaro di una critica sociale strabica,
che sbaglia i bersagli e gli obiettivi. Big Pharma non ha la “colpa” di aver
prodotto dei vaccini che stanno salvando vite, almeno quelle di chi può
permetterseli, ma quella di limitarne la distribuzione equa in nome del
profitto. E i governi non hanno la colpa di somministrare i vaccini, ma quella
di aver imboccato la strada del “nazionalismo vaccinale” dei ricchi, ignorando
il mondo e di aver per anni o decenni ridotto i sistemi di sanità pubblica
all’osso, in ossequio al mantra liberista. La sfida per i movimenti – tra
questi The People’s Vaccine, No profit
on pandemic, Our health is not for sale! – è
strategica, mirata ad apprendere dalle lezioni della pandemia per imprimere una
svolta radicale al sistema grandi aziende farmaceutiche-governi-enti
internazionali, nella direzione di un maggior potere del governo pubblico nel
garantire l’accesso a cure e vaccini a costi e modalità sostenibili da tutte le
popolazioni, e i un più garantito protagonismo delle popolazioni. I movimenti
sanno, sembra assai meglio dei governi, che questo scenario è destinato a ripetersi,
e che la risposta non può essere il balbettio dello status quo. Essi pongono
temi che non riguardano solo i brevetti, che pure è tema cruciale per l’accesso
alla conoscenza e ai farmaci, ma più in generale è sotto accusa la governance
globale della salute: molte reti internazionali sottolineano come non può
essere il WTO, l’organizzazione del commercio, a governare la salute e il
diritto di poco meno di 8 miliardi di persone, e a deciderne le regole per
quanto attiene farmaci e accesso alle cure, e come gli organismi quali l’OMS
debbano essere rimessi al centro di una forte governance pubblica, capace di
tutelare e promuovere i diritti delle popolazioni. Invece di essere resi deboli
al limite della ininfluenza, come è accaduto e sta avvenendo durante questa
pandemia.
L’articolo è tratto dal capitolo Il diritto alla salute e la governance della
pandemia, curato dall’autrice, del
19° Rapporto sui diritti globali. Stato
dell’impunità nel mondo, promosso da Fight Impunity-Association against
Impunity and for Transitional Justice, a cura di Associazione Società
Informazione, Ediesse-Futura editore. Tutte le fonti dei dati e delle
informazioni citati in questo articolo sono reperibili nel citato capitolo del
Rapporto, pp. 145-184.
Susanna
Ronconi è ricercatrice, formatrice e attivista. Collabora dal 2004 al Rapporto
sui Diritti Globali, di cui cura i temi del sociale e della salute; per
l’edizione 2021 ha redatto il capitolo Il diritto
alla salute e la governance della pandemia. É attiva nel campo delle marginalità
sociali, del carcere, dei consumi di droghe e delle tematiche di genere. È
presidente del Comitato scientifico dell’Associazione Forum Droghe.
https://transform-italia.it/pandemia-la-governance-iniqua-dei-potenti/
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