A Roma tutto sembra uguale, Mattarella è ancora al Quirinale, Draghi a
Palazzo Chigi. Come se la settimana scorsa non fosse esistita. Come se non
fosse successo niente. E invece è successo tutto.
Intanto il sistema politico è definitivamente collassato. Le coalizioni che
strutturavano lo spazio parlamentare ne sono uscite in pezzi. I partiti che le
componevano si sono praticamente liquefatti, chi più chi meno. I rispettivi
leader sono, tutti, usciti dalla prova delegittimati, qualcuno in forma
devastante altri più lieve, ma ognuno con le proprie gatte da pelare se,
alternativamente, hanno dovuto ricorrere all’astensione per non essere
disarcionati in diretta dal fuoco amico dei franchi tiratori (forse solo la
Meloni, la peggiore per contenuti, si salva, e non è una buona notizia). Liberi
di muoversi come pesci nell’acquario i cosiddetti “grandi elettori”, in realtà
in prevalenza piccoli piccoli, hanno seguito ognuno i propri personali istinti
di sopravvivenza, intruppandosi alla fine dietro al nome scelto in un colloquio
tra il Capo del Governo e il Capo dello Stato. Come dire che alla fine il
Parlamento è stato orientato e di fatto commissariato dai due corni
dell’Esecutivo, in quella che dovrebbe restare, almeno sulla carta, una
democrazia parlamentare e che invece assomiglia sempre di più al funesto
modello che il Gramsci dei “Quaderni” avrebbe definito come una forma di
“bonapartismo-cesarismo”.
Ciò significa che non solo la “società politica” è preda di un
processo dissolutivo quasi terminale, ma anche l’assetto istituzionale è
fortemente lesionato. Lo dicevano in molti prima della svolta di sabato, poi si
sono taciuti, ma un Presidente che duri in carica 14 anni (due anni oltre
quelli della Quarta repubblica francese, solo tre anni in meno del regno di Vittorio
Emanuele II…) ricorda più una Monarchia elettiva che una Repubblica
parlamentare (o, come è stato detto con felice espressione, offre il profilo di
un “presidenzialismo preterintenzionale”). E un Presidente del Consiglio che,
nella paralisi del Parlamento, assume il ruolo conclamato di King Maker (è
salito prima lui “sul più alto colle” a far da apri-pista, seguito solo dopo
dal gruppo dolente dei capigruppo col cappello in mano) rivela più di una
“sgrammaticatura” nella lettura del testo costituzionale. Per non parlare
del “senso delle istituzioni” mostrato da quelli (e non sono pochi) che non
ebbero dubbi nell’indicare o accettare per la Presidenza della Repubblica la
persona che sta a capo dei servizi segreti, per farsi spiegare subito dopo da Matteo
Renzi (Matteo Renzi!!! a cui è stato regalato gratis un pezzettino di tutte le
facce perdute finora) che cose così avvengono solo in Russia e in Egitto…
Non ha torto chi ha osservato che quanto avvenuto in questa fine di gennaio
del 2022 può essere paragonato all’effetto dissolutivo che ebbe, all’inizio
degli anni Novanta, Tangentopoli sugli assetti della Prima Repubblica. In
fondo, come già allora, anche oggi nel maelstrom a cui si è assistito in
diretta sono state bruciate, come in un gigantesco autodafé televisivo, buona
parte delle figure a cui il parco mediatico, a sua volta, ci aveva abituati, e
sono andati in fumo, con esse, i residui “punti di riferimento” su tutti i
fronti. Bruciato Silvio Berlusconi con le sue stesse mani, con sovrana
indifferenza per l’ondata di discredito che quel solo comparire tra i possibili
candidati attirava sul Paese e sulle forze politiche (quasi la metà del Parlamento)
che per giorni e giorni hanno continuato a sostenerlo aspettando Godot, con lo
stesso spirito servile che le aveva caratterizzate durante il caso Rubi (non ne
piangeremo certo la sorte, anzi, ma è comunque un pezzo di società politica che
va giù, e la cosa va registrata). Bruciata la “seconda carica dello Stato”,
travolta dalla sua stessa hybris e inadeguatezza al ruolo, ben
visibile nella sua piccineria sul seggio da cui avrebbe per decenza dovuto
assentarsi durante lo spoglio che la riguardava personalmente. Affondato (nel
ridicolo) il “capitano” Salvini rovesciato dall’onda anomala da lui stesso
alzata come se fosse sul bagnasciuga del Papeete nel suo sconnesso sbracciarsi
per accattare un merito di demiurgo che mai possiederà. Sgonfiato persino
Conte, che si è giocato i residui spiccioli della possibile stima guadagnata
nel suo secondo mandato, logorato dal duello con il sodale Di Maio, ridotti
entrambi a patetiche figurine tardo-democristiane uno col santino di Padre Pio
in tasca l’altro con quello di San Gennaro, tristissimo esito di quello che
voleva essere il “partito non partito” dell’onestà e della tabula rasa. Non si
è salvato nemmeno Letta nipote, inciampato al penultimo gradino quando si è
bevuto come calice avvelenato la candidatura Belloni probabilmente
sussurratagli da Conte senza che neppure gli passasse per la testa
l’irritualità della cosa, per farsela poi ricordare dal nemico giurato come un
secondo “#enricostaisereno” e rispiegare, per aggiunta, da un Clemente Mastella
assurto a maestro di responsabilità istituzionale… e poi quell’improvvido
pollice alzato in segno di un tripudio malriposto. Nemmeno Draghi, bisogna
aggiungere, se l’è cavata, legato come alla classica macina da mulino da quell’
infelice conferenza stampa pre-natalizia, e ridimensionato nel ruolo e nella
persona dal possibile passaggio sul letto di Procuste parlamentare dove si
avvertiva nell’aria tutto l’astio e il rancore che quell’esercito di peones che
per mesi aveva guardato dall’alto in basso con sguardo da Marchese del Grillo
nutriva per lui e che certamente se fosse arrivato alla conta gli avrebbero
fatto pagare nel segreto dell’urna. Così anche il Migliore, entrato come
possibile vincente, ne è uscito ridimensionato, da Supermario a Minimario
potremmo dire…
Eppure, dobbiamo dirlo, era tutto ampiamente prevedibile. Lo si sapeva già
da un anno – da quando Mattarella aveva prodotto quel monstrum istituzionale
del “Governissimo”, con quasi tutti dentro e sopra il papa straniero piovuto
direttamente dall’Eurotower -, che era stata innescata una bomba a orologeria
che sarebbe esplosa alla resa dei conti dell’elezione quirinalizia ma il cui
ticchettio, chi aveva orecchi per sentire, avvertiva come un memento
mori. Era evidente che quella maggioranza bulgara e arlecchinesca, che
metteva insieme “tacchi dadi e datteri” come avrebbe detto Totò, o diavoli e
acque sante (inquinate) e che stava insieme solo perché la chiave di volta
poggiava sul credito europeo, giunta alla prova del fuoco del voto segreto
sarebbe esplosa (o implosa, il che è lo stesso). Che sarebbe stata una gabbia
di ferro anelastica incompatibile con l’impossibilità di trovare una qualche
figura nuova in grado di unire tutti e destinata a far saltare il governo in
caso di voti contrapposti. Non c’era bisogno di essere dei Max Weber per
capirlo, anche un bambino ci sarebbe arrivato.
Ora, in questo gioco delle oche selvatiche, si torna alla casella di
partenza, peggiori di prima. Più delegittimati di prima, più frammentati di
prima, più disorientati di prima. Quando nacque il governo Draghi parlai di una
struttura a due livelli: il Caveau in alto, con
alla guida il Migliore e i suoi fedeli, in prevalenza tecnici, addetti alla
manovra; e il Pollaio in basso, con le forze politiche a starnazzare piantando
bandierine su questo o quel provvedimento secondario e a misurarsi su chi
avesse la cresta più alta. Ora ci possiamo aspettare che il film (noir)
prosegua, con performances peggiori: con un maggior
protagonismo “d’ufficio” del premier (dunque una minor collegialità del Governo
che pure il dettato costituzionale non vorrebbe “monocratico”) accompagnato da
un contemporaneo maggior dominio dell’Esecutivo su un Parlamento ampiamente
sputtanato. E con un più rumoroso starnazzare in basso, in quella che si
profila come una lunga, lunghissima campagna elettorale forse già
cominciata. Così sa un po’ di nemesi che tocchi proprio a Sergio
Mattarella restare incatenato al proprio “compito istituzionale” per tentare di
sbrogliare una simile matassa, essendo stato proprio lui, con l’improvvida
manovra di un anno fa, ad aver creato le premesse per questo esito.
Tutto indicherebbe, come priorità più che evidente, la necessità urgente di
una riforma elettorale in senso proporzionale puro, non come toccasana di tutto
ciò ma almeno come misura per limitarne i danni e restituire al Parlamento un
minimo di capacità rappresentativa. E forse qualcuno, in ciò che resta della
vita politica a livello istituzionale, che ci pensa c’è, anche se finora in
modo timido. Certo è che quello che risuona, forte sui media finora, è l’urlo
opposto che rivendica, sull’onda dello spettacolo vergognoso offerto nelle
sette tornate parlamentari, l’elezione diretta del Presidente. Il vero
passaggio terminale che personalmente mi fa tremar le vene e i polsi, perché
significherebbe consegnare il Paese al primo demagogo di turno che
intercettasse le passioni tristi cresciute nella pancia di una società
abbandonata a se stessa. In fondo, quello che ci ha salvato pur nella
dissoluzione in corso da avventure autoritarie irreparabili, è stata l’assenza
di una forza, o di una figura, capace di coagulare i veleni in sospensione e
indirizzarli verso uno sfondamento definitivo. Il Presidenzialismo (o il
semi-presidenzialismo) evocato potrebbe effettivamente chiudere il cerchio, con
esiti disastrosi. Nella giornata di sabato, a happy end consumato,
in cinque minuti, a raffica, con impressionante irresponsabilità, prima Aldo
Cazzullo del “Corriere della sera” poi Matteo Renzi dal suo podio permanente
hanno rilanciato il tema, quasi stesse nell’”ordine delle cose”. E c’è da giurare
che altri lo riprenderanno. Dobbiamo saperlo, ed esserci preparati, perché è
ciò contro cui ci troveremo a dover combattere da domani.
“Ti avverto. Adesso guarderò questo schifo, dato che me lo ordini. Ma è
l’ultima volta…”. Così, a un certo punto, dice Clov a Hamm nella celebre piéce di
Samuel Beckett Finale di partita. La scena mi è tornata in mente
sabato, appena spento il televisore alla fine dell’ennesima maratona di
Mentana. Non riuscivo a togliermi dalla mente l’immagine di quei due
protagonisti beckettiani, soli nella stanza circondata dal nulla, a
giocarsi le ultime mosse di uno stentato dialogo in prossimità della morte, con
a fianco, ficcati nei bidoni della spazzatura, i decrepiti genitori. E in
effetti forse il teatro dell’assurdo è l ’unica chiave con cui rappresentare la
farsesca tragedia italiana delle ultime settimane.
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