io ringraziare desidero - Mariangela Gualtieri
La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
io ringraziare desidero - Mariangela Gualtieri
Chiedere se gli Stati Uniti, la potenza militare mondiale dominante, sia ‘uno stato in fallimento’ dovrebbe causare un’ansia mondiale. Un tale stato, analogamente a un animale ferito, è una minaccia globale di proporzioni senza precedenti nell’era nucleare. La sua dirigenza politica esibisce una scellerata tendenza a combinare incompetenza ed estremismo. E’ anche cruciale accertare a che punto uno stato in fallimento debba essere depennato come ‘stato fallito’ per il quale non c’è più un chiaro percorso di redenzione. Le elezioni di novembre manderanno un forte segnale sull’essere gli Stati Uniti in fallimento o già falliti.
Lo stesso
porsi tali temi già suggerisce quanto gli Stati Uniti siano decaduti durante
gli anni di Trump pur essendo già in netto declino internazionalmente fin dalla
guerra in VietNam, continuando poi salvo alcune mosse di redenzione (adesso
rinunciate), durante la presidenza Obama. Le reazioni della presidenza Trump alle
due grandi crisi del 2020 sono servite a rassodare l’immagine dello stato #1
del mondo come davvero in caduta, e non solo frutti agri che assumono la forma
di un’espressione di frustrazione di parte per una leadership terrificante
– tale perché d’ affermazione delle caratteristiche più regressive del
passato americano e intanto vantando credito senza convincere,
per l’aumento dei valori di borsa e la bassa disoccupazione. La pandemia
Covid-19 e la campagna di Black Lives Matter contro il
razzismo sistematico hanno dato a Trump l’occasione di mostrare la sua
incompetenza letalmente sistemica come gestore di crisi provocando migliaia di
morti fra i suoi concittadini. Inoltre con l’occasione ha potuto mostrare al
mondo la sua solidarietà apparentemente autentica per lo spirito confederate
del sud degli USA che ha cercato di spaccare il paese e preservare la sua
cultura a sostegno della barbarica economia schiavista nella guerra
civile americana 150 anni fa, risultando da allora un dolente
perdente.
Con questi
sviluppi chiarificatori, non coglie più tutta la realtà di questa tendenza in
giù accontentarsi di richiamare l’attenzione al ‘declino imperiale’ dell’America.
Per come stanno attualmente le cose, sembra più rilevante insistere a
descrivere gli USA come uno ’stato in fallimento’ e cercare di capire che cosa
significa per il paese e per il mondo. Per la precisione è instruttivo rendersi
conto che gli Stati Uniti non sono uno stato in fallimento, bensì il primo caso
di stato globale in fallimento, tenendo debitamente conto del
suo stato egemonico multi-dimensionale in quanto concretizzato dalla proiezione
planetaria della sua possanza militare per aria, mare e terra, spazio e
cyber-spazio, nonché dalla propria influenza sull’operare dell’economia mondiale
e dal carattere di cultura popolare, espressa nella musica o nella gastronomia.
Ci sono
parecchi parametri per uno stato in fallimento che possono far luce sulla
realtà USA:
Alcune
considerazioni aggiuntive accentuano la realtà di condizione fallimentare degli
USA per le estese dimensioni extraterritoriali che accompagnano il divenire di
‘uno stato globale in fallimento’. Questo nuovo tipo di creatura politica
transnazionale dovrebbe venire classificato come primo esempio storico di
‘superpotenza geopolitica’. Un tale attore politico è né separato da né del
tutto soggetto al sistema statocentrico dell’ordine mondiale evolutosi dalla
Pace di Westfalia nel 1648, e universalizzatosi nei decenni successivi alla 2^
guerra mondiale. Benché mancando un vero antecedente, il ruolo delle ‘grandi
potenze’ europee o degli ‘imperi coloniali’ dà indicazioni per la valutazione
degli USA come stato globale o superpotenza geopolitica;
Come qui
suggerito, gli Stati Uniti come stato in fallimento si sono graficamente
rivelati tali nella propria reazione alla pandemia COVID-19: rifiuto di seguire
avvertimenti precoci; inaccettabili carenze di attrezzatura per il personale
sanitario e insufficiente capacità ospedaliera; premature aperture economiche
di ristoranti, bar, negozi; contraddittori standard di guida da esperti
sanitari e capi politici, comprese falsità e false notizie abbracciate dal
presidente USA nel bel mezzo di un’ emergenza sanitaria. Oltre a questo, Trump
ha adottato un inappropriato approccio nazionalista e mercificatore alla
ricerca di un vaccino capace di conferire immunità alla malattia, ma al tempo
stesso immobilizzando l’ONU, e specialmente l’OMS, come sede indispensabile per
trattare le epidemie di portata globale, ivi compreso il suo ruolo di
dispensatrice di assistenza vitale ai paesi più svantaggiati. Questi fallimenti
sono risultati in modo traumatizzante nel registrare gli USA un numero maggiore
d’infetti che qualunque altro paese al mondo, nonché nella massima incidenza di
fatalità attribuibili al morbo.
Contrastanti
sono state le risposte di vari paesi molto meno sviluppati e ricchi, che hanno
contenuto efficacemente il morbo senza gran perdita di vite o gravi danni
economici in termini di occupazioni perse e diminuita prestanza economica.
Giudicate dalla prospettiva sanitaria, tali società sono storie di successo, e
istruttivamente la loro identità ideologica attraversa l’intero spettro
politico, comprendendo il Vietnam socialista statalista e paesi mossi dal
mercato come Singapore, SudCorea, e Taiwan. Tali risultanze vanno in parallelo
a quella di Deepak Nayyar che nel suo libro di sfondamento The Asian
Resurgence (2019) riferisce che l’esperienza di notevole crescita
delle 14 società asiatiche che egli valuta empiricamente avvalora la
conclusione che l’ orientamento ideologico non sia un indicatore economicista
di successo o fallimento. Tali reperti sono rilevanti nel refutare le
asserzioni trionfalistiche dell’Occidente che il crollo sovietico dimostrasse
la superiorità del capitalismo nei confronti del socialismo. Il fattore
cruciale quando si tratti di successo economicistico è la gestione competente
dei rapporti stato/società sia in quanto all’investimento dei risparmi nel dare
precedenza a progetti di sviluppo, sia cercando d’imporre un lockdown per
ridurre la diffusione di un morbo infettivo letale.
Tuttavia,
c’è un lato normative degli schemi reattivi come sopra suggerito. La Cina
tratta la ricerca disperata di un vaccine agibile come un bene pubblico
condivisibile, mentre gli Stati Uniti con Trump mantengono il loro approccio
transazionale standard nonostante problemi di accessibilità economica per molti
paesi del Sud globale, come pure per i poveri nel Nord. Da una prospettiva da
21° secolo, l’ethos dell’essere tutti insieme in questo pantano è l’unico
fondamento per affrontare i dilemmi sempre più impegnativi dell’ordine
mondiale. E’ un segno di uno stato in fallimento, indipendentemente dalle
proprie capacità e status, utilizzare il proprio potere d’influenza per
ottenere vantaggi nazionali e geopolitici. Dello stesso segno è pure
l’ignominia normative di rifiutarsi di sospendere sanzioni unilaterali imposte
a paesi come Iran e Venezuala, già in difficoltà, almeno per la durata della
pandemia in risposta a diffuse appelli umanitari da attori della società civile
ed istituzioni internazionali.
Un’osservazione
finale sull’orientamento del vettore USA: verso un futuro di fallimento o di
redenzione. Se Trump perde l’elezione e lascia la Casa Bianca al suo avversario
le prospettive di rovesciare la tendenza fallimentare migliorano, mentre se
Trump è rieletto in novembre o riesce a cancellare il risultato elettorale gli
USA si saranno avvicinati a diventare uno stato fallito con l’avallo della
cittadinanza o con l’evidente infiacchimento dell’ordine costituzionale, non
più abbastanza resiliente da rigettare il fallimento. Anche se Trump viene
sostituito e il trumpismo recede, sarà difficile ridurre lo slancio dietro al
capitalismo predatorio e al militarismo globale senza una spinta rivoluzionaria
che rigetti il consenso bipartitico su tali temi e sfidi la sufficienza della
democrazia procedurale centrata sul ruolo dei partiti politici e delle
elezioni. Solo un movimento progressista dal basso infrangerà quel consenso,
ponendo fine ai lamenti sulla transizione USA incerta fra fallimento rischiato
e avvenuto. Se la dirigenza di Black Lives Matter a
un’alternativa movimentista sia robusta e rappresentativa delle varie istanze
abbastanza da por fine alla caduta libera americana si
chiarirà nei prossimi mesi.
Juan Carlos fugge dalla Spagna, una fine ingloriosa per il simbolo della transizione alla democrazia. Vengono a galla fratture storiche della società spagnola e, anche se Sanchéz non vuole contrapporsi alla monarchia, l'esisto non è scontato
Juan Carlos
di Borbone scappa dalla Spagna. Lunedì scorso, con una lettera al figlio Felipe
VI, l’ex re ha annunciato quella che somiglia più a una fuga che a un esilio.
Braccato dagli scandali di corruzione e dalla pressione politica che aveva già
costretto il figlio a rinunciare alla sua eredità e a tagliargli i fondi, e che
spingeva ora verso una sua umiliante cacciata dal palazzo reale, Juan Carlos se
ne va, nel tentativo disperato di salvare la monarchia spagnola liberandola
dalla sua screditata figura. Una fine ingloriosa e fino a qualche anno fa
impensabile per quello che era stato il simbolo della transizione alla
democrazia. A travolgere l’ex re, del resto, sono proprio le macerie del
consenso su cui la stessa transizione si era basata. Dal 2011 in poi, sono
riemerse divisioni e fratture storiche, e l’anomalia del re che riusciva a
essere allo stesso tempo erede di Franco e padre della democrazia è venuta a
galla. Per una parte importante degli spagnoli, oggi, Juan Carlos non è che uno
dei tanti esponenti di un’élite arraffona e impunita.
La fuga dell’ex re Borbone
La fuga del
re è l’esito di una serie ormai infinita di scandali di corruzione che hanno
colpito Juan Carlos e la sua famiglia nell’ultimo decennio. Dal costosissimo
safari in Botswana del 2012 alle rivelazioni di Corinna Larsen, amante di Juan
Carlos, sulle tangenti per la costruzione di una ferrovia ad alta velocità in
Arabia Saudita, fino ai conti in Svizzera, ai prestanome, alle società
fittizie. Nel 2014 abdicò a favore del figlio Felipe, nel 2019 annunciò il suo
ritiro dalla vita pubblica, ma la pressione non accennò a diminuire: nel marzo
scorso Felipe VI rinunciò all’eredità paterna e privò il padre del sontuoso
appannaggio che gli spettava. Nelle scorse settimane, l’accumularsi di nuove
rivelazioni sul conto dell’ex re aveva portato alla richiesta di fargli
abbondare la Zarzuela, la residenza della famiglia reale. Fino alla scelta di
fuggire verso il Portogallo, secondo alcuni per rifugiarsi all’Estoril (dove
già aveva vissuto in esilio insieme al padre Juan, a due passi da un altro
monarca in esilio, il nostro Umberto II), secondo altri per volare nella
Repubblica Dominicana.
Benché a
parole Juan Carlos se ne sia andato per far calare la tensione, l’effetto è
stato diametralmente opposto: la destra del Partito Popolare, da sempre
monarchica e post-franchista si è schierata a difesa del sovrano, mentre l’estrema destra di Vox ha colto l’occasione per accusare il
vicepresidente del governo Pablo Iglesias e il suo partito Podemos di aver di
fatto costretto il re alla fuga. Una colpa per la destra monarchica, un merito
per la sinistra repubblicana (che in realtà non sembra aver avuto grandi
responsabilità, nel bene o nel male), un grande imbarazzo per il Partito
Socialista. Com’è emerso già nelle prime ore, infatti, la fuga di Juan Carlos
non è stata concordata solo con il re Felipe, ma anche con il presidente del
governo, il socialista Pedro Sánchez e con altri membri dell’esecutivo: guarda
caso, tutti tranne quelli di Unidas Podemos, considerati non affidabili da
parte della famiglia reale. Il risultato ora è una spaccatura fortissima
all’interno del governo, con la sinistra di Unidas Podemos che accusa l’ex re
di essersi sottratto alla giustizia e ai doveri di trasparenza di un ex capo
dello stato e coglie l’occasione per rilanciare l’idea di «una repubblica
solidale e plurinazionale» chiedendo che «il popolo decida». Un referendum tra
monarchia e repubblica, sull’onda dell’indignazione, è esattamente ciò che
Sánchez vuole evitare, distinguendo pubblicamente tra «istituzioni e persone»,
cioè tra la corruzione di un re e la stabilità della monarchia e ribadendo
l’impegno dei socialisti in difesa della monarchia parlamentare.
Eppure la
dinastia borbonica non è mai stata così a rischio negli ultimi quarant’anni:
per la prima volta dalla fine del franchismo è al governo una forza, Unidas
Podemos, esplicitamente repubblicana, e sentimenti repubblicani sono ormai
egemoni in vaste aree del paese, prima fra tutte la Catalogna. C’è un motivo se
dal 2015 il Cis, il centro di ricerca sociale statale, nei suoi sondaggi non
chiede più di esprimere una preferenza netta tra monarchia e repubblica: ha
paura della risposta.
Re, franchista e democratico
«Non sono
monarchico, sono juancarlista». In questo modo di dire, molto diffuso in Spagna
negli anni Ottanta, sono racchiuse la forza storica e la debolezza attuale
della monarchia spagnola. Il consenso pubblico intorno al regime parlamentare
uscito dalla transizione non si è mai costruito su una vera accettazione
diffusa dell’istituzione monarchica, ma sulla figura di Juan Carlos, garante
della stabilità democratica. «Vorrei la repubblica, e poter votare Juan Carlos
come presidente», si sentiva dire a sinistra ancora negli anni 2000. Può
reggere la monarchia spagnola alla totale perdita di credibilità di una figura
così fondamentale?
Juan Carlos
è il terzo Borbone consecutivo a scappare in esilio. Suo nonno Alfonso XIII e
suo padre Juan fuggirono nel 1931, alla proclamazione della Seconda Repubblica,
per poi sostenere apertamente la parte franchista durante la guerra civile.
Juan Carlos nacque nel 1938 a Roma, ospite del regime fascista, e fu nominato
erede al titolo di capo dello stato non da una legge dinastica, ma da un atto del
dittatore Francisco Franco, che lo proclamò proprio successore nel 1969, quando
il legittimo erede, il padre Juan, era ancora in vita. Un salto dinastico
dovuto ai cattivi rapporti tra il conte di Barcellona e Franco, che considerava
il giovane erede più malleabile. La rilevanza storica della figura di Juan
Carlos sta tutta negli anni chiave tra il 1975, con la morte del dittatore, e
il 1978, con l’approvazione della Costituzione. Il giovane re riuscì a giurare
sui principi del franchismo e a guidare la transizione alla democrazia, con un
atto di equilibrismo politico a dir poco notevole.
In una
Spagna divisa tra franchismo e democrazia, e traumatizzata dalla tragedia dello
scontro armato tra queste due parti, di fatto, la monarchia parlamentare
rappresentò un compromesso accettabile per molti se non per tutti. Soprattutto,
rappresentò un compromesso estremamente proficuo per le élite nazionali e
internazionali: il mondo economico spagnolo e il governo americano, dopo aver
sostenuto il franchismo per decenni, erano ben consapevoli della necessità di
una normalizzazione democratica che facilitasse l’integrazione a pieno titolo
della Spagna nell’Occidente avanzato, ma temevano una repubblica dominata dalle
sinistre, allora a pieno titolo anti-Nato, compresi i socialisti. Juan Carlos
rappresentò l’uovo di Colombo, il punto d’equilibrio, il garante della
continuità nella Spagna che doveva cambiare. La determinazione nel perseguire
questo obiettivo di normalizzazione democratica gli conquistò se non l’apprezzamento
sicuramente il rispetto di molti, comunisti compresi, che arrivarono, da
principali eredi della repubblica abbattuta da Franco, a votare a favore della
nuova costituzione monarchica.
Una
credibilità rafforzata dalla vicenda del cosiddetto «23-F», quando, il 23
febbraio 1981, un gruppo di militari guidato dal colonnello Tejero occupò il
parlamento e il paese rimase per ore sull’orlo di un nuovo golpe, finché un
intervento televisivo del re, ribadendo l’irreversibilità del percorso
democratico, mise fine al tentativo. In questo episodio, d’altra parte, sta
tutta l’ambiguità della figura di Juan Carlos: se consideriamo sorprendente al
limite dell’eroismo il fatto che un re si sottragga alla tentazione della
complicità con un golpe militare, cosa stiamo dicendo della natura stessa della
monarchia e del suo rapporto con la democrazia?
E del resto,
la necessità della monarchia per tenere insieme un paese altrimenti
strutturalmente destinato alla frattura territoriale e politica non è che
un’evoluzione, sicuramente in senso democratico, dell’assioma franchista sulla
necessità della dittatura come garanzia della pace e dell’unità. Ma se senza
Juan Carlos non c’è monarchia, senza monarchia può esserci Spagna?
«Los Borbones son unos ladrones»
Se nel 2017
cantare che «i Borboni sono ladri» costò una condanna a tre anni e mezzo di
carcere al rapper Valtònyc, oggi la storia rischia di dargli ragione. E non è
un caso che siano proprio gli scandali di corruzione a portare alla monarchia
il colpo che i repubblicani non sono mai stati in grado di darle. Il legame
strettissimo tra politica e affari è stato uno dei nodi strutturali del
cosiddetto «regime del ‘78», come gli Indignados nelle piazze del 2011
chiamavano il sistema politico emerso dalla transizione. Juan Carlos cade come
sono caduti, almeno elettoralmente, i principali pilastri di quel regime, i due
partiti principali, popolare e socialista. E cade sulle stesse accuse che hanno
travolto prima di tutto i popolari, ma di fatto l’intero sistema politico: una
corruzione sistematica e radicata, una commistione tra politica e affari senza
soluzione di continuità, un sistema di tangenti e «porte girevoli» in cui
l’élite si muove agevolmente. Il ruolo del tema della corruzione, e della
natura castale dell’élite politica e finanziaria del paese, è stato centrale
sia nelle piazze del 2011, sia nel discorso politico di Podemos, sia nella
crescita dell’indipendentismo in Catalogna. Juan Carlos abdicò nel giugno 2014,
pochi giorni dopo l’exploit di Podemos alle elezioni europee: nessun rapporto
di causa-effetto ovviamente, solo l’estrema destra sopravvaluta così tanto il
ruolo della sinistra repubblicana, ma sicuramente il segno di un cambio di
fase, della crisi organica del sistema politico nato dalla transizione alla
democrazia.
Juan Carlos
è stato il garante della normalizzazione spagnola, di una transizione alla
democrazia che non toccasse integrità territoriale, schieramento internazionale
e poteri economici. Oggi non c’è elemento di questa normalizzazione che non sia
in crisi, e l’ex re si trova a pagare il prezzo di un’impunità troppo a lungo
goduta. Con lui se ne va uno degli ultimi pilastri di quell’equilibrio, aprendo
scenari di grande incertezza sul futuro. Il decennio post-15M, infatti, se ha
visto l’emersione di Podemos, il primo governo di coalizione dai tempi della
Seconda Repubblica e innovazioni sociali estremamente significative (pensiamo a
cosa significhi oggi il femminismo in Spagna), ha anche visto riemergere una
destra radicale apertamente razzista, nazionalista e antidemocratica, con il
successo di Vox. Una volta saltato il consenso centrista, il «liberi tutti»
vale davvero per tutti. Il fantasma del conflitto inevitabile tra le «due
Spagne», che ha sorretto prima il franchismo e poi la transizione, è una
costruzione ideologica reazionaria. Ma il carattere di fondo delle grandi
trasformazioni che attendono la Spagna non è affatto dato. Di sicuro,
avverranno senza la benevola benedizione di Juan Carlos. E chissà se suo figlio
Felipe riuscirà a rompere l’ormai secolare tradizione della fuga in esilio o
passerà, invece, alla storia come l’ultimo dei Borboni.
*Lorenzo
Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e
partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il
Mulino).
L’arresto di quest’uomo è soltanto l’inizio di un’offensiva del Deep State
e di tutto il sistema di potere del Nuovo Ordine Mondiale.
Non prendiamo per buone
le verità dei media mainstream.
Poniamoci qualche domanda.
Bannon non era amico di Salvini, Le Pen e Orban?
E perché nemmeno Trump corre in suo aiuto?
È una coincidenza se il logo degli Illuminati è stampato sulle banconote da
un dollaro con la scritta Novus Ordo Seclorum?
È una coincidenza il riferimento al magico triangolo di Gerusalemme i cui
vertici sono il Muro del Pianto, Santa Maria dei Teutonici e la spianata delle
moschee?
È tutto ciò non ci fa naturalmente pensare ai Protocolli dei Savi di Sion
(Протоко́лы сио́нских мудрецо́в in russo) e al sionismo americano?
E se tra le due guerre i membri del Ku Klux Klan (il cui simbolo è proprio
una croce!?!) erano sei milioni, dopo l’incidente di Roswell se ne contano
poche migliaia. Un’altra coincidenza che dobbiamo andare a verificare nell’Area
51?
Non ce lo permetteranno. No. Il Deep State ha troppi segreti da nascondere che
nemmeno Julian Assange rivelerà mai. Soprattutto dopo l’avvelenamento di
Aleksej Navalnyj!
E perché Hal Roach litigò con Stan Laurel facendo sciogliere la celebre
coppia Stanlio e Ollio proprio in quegli anni?
Si tratta di una coincidenza che i suoi studios finirono in mano ai militari e
furono ribattezzati “Fort Roach”?
Si tratta di un caso che furono affittati e gestiti dalla United States Army
Air Forces (USAAF) per la quale realizzò 400 film? I membri della “truppa”
includevano nomi come Ronald Reagan, il futuro presidente.
Anche questo è un caso?
Vi ricordate “Six six six the number of the beast” degli Iron Maiden.
E perché prima di quel celebre disco furono costretti a epurare Paul Di’Anno?
Sapevate che è nativo di Chingford? In quello stesso borgo è cresciuto
Peter Greenaway, uomo di cinema anche lui, e sceneggiatore non a caso, del
lungometraggio “The Baby of Mâcon”.
Vi ricordate che quel film termina con la Chiesa che “decreta lo smembramento
del bambino, i cui pezzi (come le sue secrezioni prima) vengono venduti a caro
prezzo”?
(fonte Wikipedia)
Ed è ovviamente nell’Inghilterra del gruppo musicale heavy metal
britannico, la terra più multirazziale del pianeta, che il piano Kalergi trova il
terreno più fertile e precisamente nel mondo magico del cinema.
Sapevate che non è negli USA, ma nel Regno Unito, precisamente a
Borehamwood che sono ospitati gli studi della statunitense Metro-Goldwyn-Mayer
dove il controverso e misterioso Stanley Kubrick girò i suoi film?
E non è un caso che in questo piccolo borgo ci sia la più grande sinagoga
ebraica del Regno Unito, mentre la seconda si trova a Stanmore, dove lo stesso
Kubrick si recò per conoscere Emilio D’Alessandro, italiano di Cassino, che per
più di trent’anni è stato il suo autista personale e factotum.
E perché proprio un italiano di Cassino?
Cosa c’entra Cassino? Non vi pare strano che tanti luoghi sacri della
cristianità vennero salvati dalla distruzione, ma l’abbazia più antica d’Italia
sia stata completamente distrutta dagli americani nel febbraio del 1944?
Da quel luogo proveniva D’Alessandro!
Ci nasconde qualcosa che riguarda il falso allunaggio dell’Apollo 11?
Le immagini che conosciamo furono girate dal regista di 2001 Odissea nello spazio?
E proprio a Stanmore, dove incontrò Kubrick, oltre alla grande sinagoga,
c’è un importante tempio indù e una moschea, ma solo il 31% di cristiani.
Sarà un caso anche questo?
Ed è proprio a pochi chilometri da Cassino, nella Grotta Guattari, sulla
linea del fronte conteso tra tedeschi e americani, che il professor Alberto
Carlo Blanc appena 5 anni prima del bombardamento aveva trovato i preziosi
resti di un Homo neanderthalensis. Tra i resti c’era un cranio con misteriosi
“segni di aggressione e svuotamento encefalico”. Segnali di un possibile
incrocio tra alieni rettiliani e abitanti primitivi del nostro pianeta.
Forse con la distruzione di Cassino volevano cancellare le tracce
dell’esperimento rettiliano!
Già nel ’99 David Icke pubblicò The Biggest Secret: The Book That Will
Change the World, nel quale affermò che il pianeta sarebbe controllato da un
Nuovo ordine mondiale. E “afferma che George W. Bush e la sua famiglia” fanno
parte di una razza extraterrestre. E che hanno “costituito una società segreta,
la Babylonian Brotherhood (Fratellanza babilonese), con lo scopo di controllare
segretamente il mondo. La politica estera statunitense sarebbe prodotto di una
cospirazione dei rettiliani per rendere schiava l’umanità”.
Icke cita nelle sue opere “gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001
e la pandemia di COVID-19 del 2019-2020 come esempi di eventi causati dal
governo segreto, arrivando a teorizzare un controllo e una responsabilità da
parte di esso sulla maggior parte degli eventi negativi degli ultimi tre
secoli”.
(fonte Wikipedia)
Secondo alcuni sarebbe solo un caso che appena quattro giorni dopo la fuga
dell’orso M49 dal recinto de Casteller il celebre pensatore americano Steve
Bannon “viene arrestato su richiesta della Proccura federale di New York mentre
era a bordo nel Connecticut di uno yacht di proprietà del miliardario cinese
Guo Wengui”.
(fonte Wikipedia)
Ed ancora un caso se in queste ultime ore il radiocollare dotato di sistema
di geolocalizzazione dell’orso, detto Papillon, è stato localizzato in zona
Passo Cinque Croci in direzione Valsugana, conosciuta per la polenta fatta con
mais ingrediente base della cucina degli aztechi, popolo precolombiano che
praticava sacrifici umani?
Bannon è l’ennesima vittima di un complotto giudaico-comunista finanziato
dai rettiliani di Hollywood ordito da Lady Gaga costretta da Barack Obama su
ordine di George Soros per ottenere il prezioso adrenocromo spremuto dalla
ghiandola pineale dei bambini deportati a Hollywood.
Tutto torna!
Pronunciate al contrario
la ricetta segreta della Coca Cola
e verrà fuori:
il Molise non esiste!
Said impegnato con la
Palestina a un livello così profondamente umanista da aiutare a globalizzare la
causa e smantellare l’euro-universalismo
Anni dopo la sua
prematura scomparsa, la torreggiante figura di Edward Said (1935-2003) continua
a illuminare il nostro cammino mentre navighiamo in acque tempestose nella
storia del mondo.
Quali sono state le
origini e le ragioni alla base della sua tenace intransigenza nel dire la
verità al potere, e in che modo ha permesso a un’intera generazione di
pensatori critici di fare lo stesso?
L’aspetto determinante
del carattere morale e intellettuale di Edward Said come portavoce principale
della causa palestinese è stato il modo in cui ha definito quella fondamentale
causa politica della sua e nostra generazione in termini altrettanto definitivi
di altri movimenti cruciali per la giustizia in tutto il mondo.
È stato esattamente
l’opposto dei nativisti che definiscono i termini della loro particolare
politica a scapito degli altri. Questa identificazione con Said non è stata
solo ad un livello emotivo o carismatico. Era profondamente morale e una
questione di principio etico che a sua volta si traduceva in solidi termini
intellettuali e teorici.
Sono stato un
testimone partecipante in due importanti occasioni, solo la punta dell’iceberg,
quando l’universalità dell’appello politico e intellettuale di Said era sulla
scena mondiale. La prima fu nell’ottobre-novembre 2000 quando l’Accademia
Italiana per gli Studi Avanzati alla Columbia University, dove Said ha
insegnato per decenni fino alla sua scomparsa, ospitò l’eminente figura
fondatrice della scuola di Studi subalterni, lo storico indiano Ranajit Guha,
per tenere una serie di seminari.
In questo occasione,
il mio illustre collega della Columbia Gayatri Spivak ed io organizzammo una
conferenza di due giorni sui seminari di Guha che chiamammo “Studi subalterni
in generale”. Said, presente a questa conferenza, tenne un discorso di apertura
nella sua prima sessione plenaria.
Avevamo invitato i
principali pensatori critici e studiosi provenienti da Asia, Africa, America
Latina, Australia, Europa e Stati Uniti – e il vocabolario stesso delle nostre
discussioni erano quasi interamente articolazioni varie del lavoro di Said.
In un’altra occasione,
nell’aprile del 2003, pochi mesi prima della sua morte, in qualità di
presidente del mio dipartimento, organizzai una conferenza internazionale in
occasione del 25° anniversario della pubblicazione di ‘Orientalismo’ di Said,
alla quale ancora una volta avevamo invitato eminenti studiosi, letteralmente
dai quattro angoli del mondo, con Said che avrebbe tenuto le osservazioni
conclusive.
Anche in questa
conferenza fummo tutti testimoni del modo in cui la centralità fondamentale di
‘Orientalismo’ di Said abbia avuto risonanza globale, forse anche al di là
delle sue iniziali aspettative. Si poteva vedere come le opere di pensatori
critici, da Nietzsche a Gramsci ad Adorno a Fanon, fossero tutte arrivate a
compimento nel lavoro di Said.
Diffamare Said
Condivido questi
ricordi per sottolineare il mio suggerimento che gran parte del mondo
civilizzato e colto, il mondo moralmente e politicamente attento e
coscienzioso, ha ragioni per conoscere, amare e ora ricordare e ammirare Said
per obiettivi interni ai propri progetti politici.
Said naturalmente
aveva la sua parte di nemici giurati, forze nefaste investite nella ricerca,
vana, di diffamarlo. Di recente mi sono imbattuto in un altro di questi pezzi
da quattro soldi, questa volta su Newsweek, fra tutti i posti possibili.
Scopriamo che la
pagina delle opinioni di Newsweek è diventata un territorio occupato da un
editore filo-israeliano che sta usando questo forum per promuovere odio verso
arabi e musulmani (in particolare palestinesi), per diffamare l’insurrezione di
Black Lives Matter e cercare di assicurarsi altri quattro anni della malvagia
follia di Trump, tutto perché gli israeliani possano rubare il resto della
Palestina in un atto finale di rapina a mano armata.
Tutti questi pezzi
condividono un errore comune: stanno tutti abbaiando all’albero sbagliato. Said
non è dove stanno abbaiando. È da qualche altra parte.
Umanità condivisa
Durante la sua vita,
nell’impegno e con l’esempio, Edward Said ha creato un particolare tipo di
intellettuale pubblico che si è occupato della questione dominante del suo
tempo, per lui focalizzata sulla questione delle aspirazioni nazionali
palestinesi, in termini universali non eurocentrici.
È questo senso
cruciale di umanità condivisa che ha portato la Palestina nell’epicentro del
dialogo globale. Said si è impegnato con la Palestina a un livello così
profondamente umanista da contribuire a globalizzare la causa palestinese in
termini che avrebbero smantellato l’euro-universalismo che aveva sfidato con
gran parte del suo lavoro accademico.
Due grandi tendenze
intellettuali sono decisive per gran parte della scena americana del 20° secolo
– altrimenti priva di qualsiasi tradizione intellettuale nostrana: gli
intellettuali immigrati ebrei degli anni ’30 e successivi, e gli intellettuali
afro-americani dell’Harlem Renaissance e dopo, con Hannah Arendt e James
Baldwin come principali esempi di ciascuno.
Nel primo caso, gli
Stati Uniti sono diventati i beneficiari delle atrocità omicide dei nazisti in
Europa, e nel secondo, la scena stessa è stata abbellita dalle vittime di un
razzismo terrorizzante che aveva preso di mira gli afro-americani con una
svolta epocale nell’immaginazione morale e intellettuale di una nazione.
L’intellettuale
nell’esilio
Come erede di queste
due tradizioni, il successo di Said nel corso della vita è di aver creato una
posizione per un diritto intellettuale arabo o musulmano o immigrato tra queste
due potenti tradizioni, tra Arendt e Baldwin, per così dire. Lo stesso Edward
Said non la vide in quel modo, poiché si identificava profondamente con il
filosofo ebreo tedesco Theodor Adorno, e si considerava in esilio e quindi
teorizzava la condizione di esilio.
Ma all’ombra di questa
categoria di intellettuali esiliati sono emersi ovviamente gli informatori nativi
come Fouad Ajami. Molto più esatto è vedere Said come la globalizzazione di una
nuova categoria di intellettuale organico da qualche parte tra l’ebreo
immigrato e gli intellettuali afroamericani senza poteri.
È proprio questa
posizione iconica di Said all’interno di un’esperienza unicamente americana a
turbare profondamente i sionisti razzisti, che pensavano di avere le spalle
coperte dal mercato americano per le loro malvagie ruberie in Palestina.
Proprio nel cuore dell’impero che continuano a mungere per armi e protezione
politica è emersa una voce singolarmente potente: Edward Said.
Certo, lo odiano per
vendetta, proprio per quelle stesse ragioni per cui il mondo in generale lo ama
e lo ammira profondamente. “Accusano” Edward Said di aver ispirato aspetti
dell’insurrezione di Black Lives Matter.
Questa non è
un’accusa. Questo è un motivo per festeggiare.
Naturalmente Said è
stato fonte d’ispirazione per gli afroamericani nelle loro storiche lotte per
la giustizia e oggi, in figure giustamente famose come Angela Davis, Cornel
West, Alice Walker e Eddie S Glaude Jr, sentiamo forte e chiaro gli echi della
voce di Said e del modo in cui ha esteso il potere del suo intelletto
carismatico al movimento Black Lives Matter.
E nessun arabo, nessun
palestinese, nessuno in Asia, Africa e America Latina che si preoccupi
ugualmente della giusta causa di neri e palestinesi potrebbe essere più
orgoglioso di Said per questo ruolo fondamentale.
Hamid Dabashi è Hagop
Kevorkian Professor di Studi iraniani e Letteratura Comparata alla Columbia
University nella città di New York. I suoi ultimi libri includono Reversing the
Colonial Gaze: Persian Travelers Abroad (Cambridge University Press, 2020), e
The Emperor is Naked: On the Inevitable Demise of the Nation-State (Zed, 2020).
Il suo prossimo libro, On Edward Said: Remembrance of Things Past, dovrebbe
essere pubblicato da Haymarket Books entro la fine dell’anno.
Traduzione: Simonetta
Lambertini-invictapalestina.org
Un avvocato italiano e il suo collega serbo insieme nel difendere
le vittime civili e militari dell’uranio impoverito utilizzato alla fine degli
anni ’90 dalla Nato nell’ex Jugoslavia
La
responsabilità istituzionale per le «vittime interne» dell’uranio impoverito
impiegato nelle «guerre umanitarie» della Nato nell’ex Jugoslavia è stata
dimostrata inequivocabilmente dalla relazione finale della IV Commissione
parlamentare d’inchiesta presieduta dall’onorevole Gianpiero Scanu e dalle 170
cause di servizio risarcitorie e indennitarie a favore di altrettanti ex
militari strappate nei tribunali al ministero della Difesa dall’avvocato Angelo
Fiore Tartaglia. Per le responsabilità individuali delle alte cariche
istituzionali dovremo invece attendere gli esiti delle indagini aperte dalla
procura della Repubblica di Roma e dalla procura Militare grazie ad un esposto
depositato recentemente dal generale Roberto Vannacci e supportato dalle
dichiarazioni del colonnello Fabio Filomeni.
MA QUELLA che si prospetta come una
spallata definitiva al muro di gomma (nazionale ed internazionale) sull’affaire uranio
impoverito è la inedita saldatura tra le vittime militari dei Paesi che
parteciparono all’aggressione e quelle civili dei Paesi aggrediti.
GLI INCONTRI alla base di questa
iniziativa epocale si svolgono da oltre un anno, con molta discrezione, nello
studio romano di Angelo Tartaglia. L’eco dei ripetuti successi dell’avvocato
italiano, che non pochi grattacapi ha procurato e sta procurando al ministero
della Difesa, hanno raggiunto il suo collega serbo Srdjan Aleksic il quale,
accompagnato da Domenico Leggiero dell’Osservatorio militare, ha voluto
assolutamente incontrarlo.
OGGI SONO PRONTI a rendere pubblica, in
esclusiva per il manifesto, la loro strategia che punta ad ottenere verità e giustizia ai
massimi livelli. «Ho incontrato il mio collega Srdjan Aleksic per la prima
volta presso il mio studio», spiega Tartaglia. «Mi raccontò di aver perso la
madre a causa dell’uranio impoverito. È uno dei più autorevoli avvocati dei
Balcani e si è subito creato fra di noi una grande intesa professionale ed
umana. È arrivato il tempo di affrontare questa tematica che in Italia ha
colpito e continua a colpire i nostri militari reduci da queste aree contaminate,
ad un livello più alto. Affrontare la questione nei tribunali in Serbia
significa entrare nel cuore giuridico del problema. Non risparmierò le mie
energie, dedicherò tutto me stesso e con me il mio collega finché non avremmo
raggiunto lo scopo di tutelare tutti. Mai più un danno così enorme alle persone
inermi ed al territorio….».
ALEKSIC è infatti molto noto in
Serbia: da anni organizza presso l’università di giurisprudenza di Niš simposi
internazionali sull’uranio impoverito coinvolgendo massimi esperti da Russia,
Giappone, Francia, Belgio, Germania e Cina.
«Il problema delle conseguenze dei bombardamenti è stata la mia ossessione per
parecchi anni» spiega Aleksic – «Non solo per la tragedia che ha colpito la mia
famiglia ma anche per i contatti personali quotidiani con i miei concittadini e
con le persone del sud di Serbia. Il carcinoma ed altre malattie gravi con
aumento di mortalità hanno segnato gli anni dopo l’aggressione criminale della
Nato. Anzi, queste malattie sono diventate sinonimo dell’aggressione stessa.
Grazie all’esperienza accumulata dal mio collega Tartaglia, faremo partire in
autunno a Niš, Kragujevac, Belgrado, Vranje e Novi Sad altrettante cause
risarcitorie. Si tratta di cause a favore dei malati di carcinoma, con
incontestabili prove mediche che la malattia e’ provocata dall’uranio
impoverito sparso durante i bombardamenti della Nato».
OLTRE alla sua esperienza
l’avvocato Tartaglia ha messo a disposizione le perizie di istituzioni di
riferimento che in Serbia non esistono come la Clinica Universitaria La
Sapienza di Roma, l’Istituto di nanotecnologia di Milano e il Politecnico di
Torino. «E comunque le cinque cause saranno solo il primo passo», continua
Aleksic. «Nel mio ufficio adesso ho più di duemila casi di persone malate che
in quel periodo lavoravano in Kosovo e Metohija. Dobbiamo radunare tutti i
malati di carcinoma e altre malattie causate dall’uranio perché ogni singolo
caso possa essere giustamente risarcito. Ciò vale anche per le famiglie dei
morti che possiedono documentazione medica adeguata con prova della causa di
morte. Verificheremo ogni singolo caso presso l’Istituto di nanotecnologia in
Italia, presenteremo ogni singolo caso nei tribunali in Serbia e tramite le
migliaia di cartelle cliniche chiederemo all’Onu di inviare ispettori
indipendenti per fare verifiche sulla contaminazione dei territori a distanza
di 21 anni dai bombardamenti. Poi ci rivolgeremo alla Corte dei diritti
dell’uomo a Strasburgo e informeremo il Parlamento europeo. Il nostro obiettivo
è che in tali processi siano chiamati in causa anche i Paesi che hanno
partecipato direttamente o indirettamente ai bombardamenti Nato del 1999 anche
mettendo a disposizione le loro basi. Questi Paesi, per la quasi totalità
europei, dovranno farsi carico della bonifica totale dell’uranio impoverito
presente sui nostri territori”.
Mentre
la relazione finale della IV Commissione parlamentare d’inchiesta è stata
depositata dallo stesso Scanu presso la presidenza del Parlamento europeo,
l’internazionalismo giuridico che gli avvocati Tartaglia ed Aleksic stanno
mettendo in campo varca i confini del legittimo risarcimento per le vittime
militari e civili di questo maledetto metallo pesante ed assume chiari contorni
politici: ristabilire finalmente quel diritto internazionale ed umanitario
espropriato e fatto a pezzi dalla Nato.
(*)
pubblicato ieri sul quotidiano “il manifesto”
http://www.labottegadelbarbieri.org/misfatti-nato-luranio-contro-i-civili/
(ripreso da ilpost.it)
Le Monde racconta come molte aziende e istituzioni preferiscano non parlare
di come – in modo diretto o indiretto – fecero fortuna con la tratta degli
schiavi
La tratta degli schiavi tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo non ha
lasciato solo statue o edifici nelle città europee dei paesi che vi hanno preso
parte: ha portato anche alla fondazione e alla fortuna di varie aziende e
istituzioni. Lo scorso giugno, dopo che il movimento Black Lives Matter ha ripreso forza
in tutto il mondo a partire dagli Stati Uniti, la Royal Bank of Scotland, la
Lloyds Bank, la Banca d’Inghilterra e persino il birrificio Greene King, tra
gli altri, hanno riconosciuto i loro legami con
la schiavitù, si sono scusate e alcune hanno anche promesso dei risarcimenti.
In Francia, a differenza del Regno Unito, il passato schiavista di certe
aziende e istituzioni del paese non è mai stato riconosciuto.
La Francia, così come il Regno Unito, i Paesi Bassi, la Spagna e il
Portogallo, sono tra i principali stati europei ad aver praticato il cosiddetto
“commercio triangolare”, uno dei più grandi traffici sviluppatisi nelle acque
dell’oceano Atlantico tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo e avente come
poli tre continenti: Europa, Africa e America. La prima tappa prevedeva il
passaggio dall’Europa all’Africa, dove i prodotti europei venivano
barattate in cambio di persone. Dall’Africa, gli schiavi venivano poi
trasportati e venduti in America, mentre la terza tappa prevedeva il ritorno
delle navi in Europa, con le stive cariche di altri prodotti come caffè e
cotone. È stato calcolato che la Tratta Atlantica portò alla deportazione di
più di 12 milioni di persone. La navi francesi partivano soprattutto dai porti
di Nantes e di Bordeux per poi arrivare nelle colonie come Haiti, Santo
Domingo, la Martinica, la Guyana o le Antille.
La Francia abolì la schiavitù una prima volta nel 1794, poi nel 1802 Napoleone la reintrodusse e l’abolizione definitiva arrivò nel 1848. Il passato coloniale francese, così come negli altri paesi europei, è comunque molto presente e visibile: basti pensare che il palazzo dell’Eliseo a Parigi, residenza ufficiale del presidente della Repubblica, venne costruito nel 1720 grazie ai finanziamenti di Antoine Crozat, proprietario di una delle più importanti società del commercio triangolare. Sulla schiavitù vennero fatte anche grandi fortune, la cui storia in Francia è però meno conosciuta o indagata che altrove (in una rimozione non così diversa da quella che riguarda il brutale colonialismo italiano).
Qualche giorno fa Le Monde ha pubblicato un articolo in cui ha
raccontato la storia di alcune società e istituzioni coinvolte più o meno
direttamente nella tratta degli schiavi, o la cui prosperità si è basata sulla
riscossione delle compensazioni finanziarie pagate ai proprietari di schiavi
dopo l’abolizione della schiavitù.
L’articolo cita per esempio Jacob du Pan, colono di Santo Domingo che
arrivò in Francia poco dopo che l’isola dichiarò l’indipendenza, nel 1804, e
che grazie alle ricchezze fatte con le piantagioni di canna da zucchero
partecipò alla fondazione, nel 1816, della Compagnie dʼassurances mutuelles
contre lʼincendie de Paris. Questa compagnia, dopo vari passaggi, alla fine
degli anni Ottanta entrò a far parte del gruppo Axa, che la riconosce
esplicitamente come la propria prima antenata diretta. Le Monde ha
poi parlato dello storico Anisette, un liquore prodotto da Marie Brizard e dato
in cambio di schiavi. Tra i commercianti che contribuirono a fondare la Banca
di Francia, scrive sempre Le Monde, ce n’erano alcuni che si sono
arricchiti con la tratta di schiavi, così come fu – fino al 1883 – la Caisse
des dépôts (Cassa dei depositi) a gestire il cosiddetto
“debito di indipendenza” di Haiti, il risarcimento finanziario che dopo
l’indipendenza, appunto, il paese dovette versare ai coloni.
Nei confronti di questo passato, però, scrive Le Monde, c’è
molta reticenza. Le società interessate dicono cose ovvie: e cioè che le loro
attività attuali non hanno nulla a che fare con quel passato. Temono la
pubblicità negativa che porterebbe qualsiasi associazione del loro nome con
questa storia. Alcune per lo stesso motivo faticano anche a contribuire alla
Fondazione per la memoria della schiavitù. Questo occultamento non può però
continuare, scrive Le Monde in un editoriale: «Perché le aziende che
ora accettano la loro responsabilità sociale e ambientale non dovrebbero
assumersi la loro responsabilità storica? (…) Nessuna delle borse di studio
concesse dalla Banque de France o dalla Caisse des Dépôts, la cui storia si
interseca tuttavia con quella della schiavitù, è dedicata alla tratta degli
schiavi. Legate allo Stato, queste istituzioni dovrebbero dare l’esempio».
Il Conseil Représentatif des Associations Noires (CRAN) ha fatto della
questione dei risarcimenti economici la propria battaglia principale, ma il
punto centrale, secondo molti, non è tanto quello di ottenere dei risarcimenti
tra l’altro difficilmente calcolabili, ma non ignorare che lo schiavismo è
stato centrale nella costruzione del capitalismo francese. La riparazione deve
dunque passare attraverso la conoscenza e la trasparenza, la promozione della
ricerca, di un’educazione antirazzista e la costruzione di una memoria
collettiva onesta.
Nel 2018, una serie di associazioni antirazziste chiesero al presidente
Emmanuel Macron di rinnovare l’impegno già preso dal suo predecessore François
Hollande di creare un memoriale e museo storico della schiavitù a Parigi.
Macron, dopo aver riaffermato gli orrori del passato ma esaltando la Francia
per la sua doppia abolizione, accettò la proposta di costruire un memoriale ma
rifiutò quella di un museo.
come sempre i libri di Mia Couto non deludono.
la storia è misteriosa, un padre con sue ragazzini sta in un posto dimenticato da dio e dal mondo, non c'è altro, dice il padre ai ragazzini.
intanto qualcuno va e viene, alla fine appare una donna portoghese, la prima donna che Mwanito, il bambino che racconta, ha mai conosciuto.
succedono tante cose in quel posto chiamato Jesusalém,e alla fine si torna al mondo, e ai suoi terribili segreti.
…Mia Couto, al secolo António Emílio Leite Couto, nato e
cresciuto in Mozambico, è uno tra i maggiori scrittori contemporanei di lingua
portoghese e questo libro ne dimostra ancora una volta il talento, dando
sfoggio di una scrittura che ci accompagna per mano in una terra lontana e
polverosa, arcaica e sconosciuta, parlandoci di una cultura legata a spiriti
presenti e passati e a codici d’onore e di promesse, ad energie sottili e a
solenni cerimonie di iniziazione. Una lettura che funziona anche solo di per
sé, per il gusto di avventurarsi in una sorta di favola familiare dai toni
esotici e leggermente cupi, ma che ancora di più impressiona per la potenza
della semplicità con cui vengono trattati temi pesanti come la morte e
l’elaborazione del lutto, la realtà e la volontà di vivere non solo come si
vuole ma, soprattutto, come si può. Perché “se dobbiamo vivere nella finzione,
che sia almeno quella creata da noi”. Ed anche se siamo lontani, culturalmente,
dal mondo di Mwanito e della sua famiglia, ne comprendiamo logiche e desideri,
commossi e turbati. Bellissime anche, tra le altre, le poesie di Sophia De
Mello Breyner Andresen poste ad inizio dei capitoli. Un libro dove le donne,
anche se non ci sono fisicamente come a Jesusalém, sono determinanti, pure se
odiate, maltrattate. O morte.
Come nell’ascolto di una musica, in questo ultimo
suo romanzo, Mia Couto ci trasporta in un’atmosfera fuori dal tempo, senza perdere
tuttavia la consapevolezza della storia e delle vicende umane attuali e del
passato. Questa compresenza credo sia dovuta anche all’innesto tra
cultura africana e cultura europea che avviene in un autore come lui, bianco di
appartenenza africana lusofona. E’ proprio la collocazione fuori dal tempo che
permette all’autore di prendere le distanze per vedere meglio, per capire
meglio. Qui siamo in una situazione estrema di ricerca di salvezza fuori dal
mondo: in una zona inarrivabile dagli uomini…
Autore poco conosciuto in Italia ma dal grande
talento. Questo testo in particolare racchiude tracce oniriche e uno stile
diretto quanto profondo. Lascia immagini di grande impatto emotivo nella
memoria del lettore, alterna elementi di assurda quanto adorabile fantasia a
eventi tragici della vita del protagonista. Consigliato, davvero una scoperta!
…Mia Couto si rivela anche questa volta un prestidigitatore
della parola, continuando a smontare e rimontare a modo suo la lingua
portoghese. E onore al traduttore, Vincenzo Barca, per come riesce a stargli al
passo, per quanto rimanga, inevitabilmente, sempre qualcosa di intraducibile.
Come il nome che il padre dà alla sua nazione personale, Jesusalém –
che è anche il titolo dell’edizione originale del libro –, un gioco di parole in
cui la città santa diventa una sorta di “Gesù-oltre”: per Silvestre, «in quel
luogo Gesù si sarebbe scrocifisso». E Dordalma, la mamma che Mwanito non ha mai
conosciuto e di cui nessuno osa dire come sia morta, sta per “Dolor-d’anima”.
È ben di più, naturalmente, che un gioco enigmistico:
grazie anche alle sue invenzioni, ma non solo a queste, l’autore dà vita a
un’atmosfera tutta sua, tra favola e verismo, con l’uso di metafore inattese e
di dialoghi che non di rado sono sorprendenti pillole filosofiche.
«Nessun governo del mondo comanda più della paura e della
colpa. La paura mi ha fatto vivere insignificante e schivo. La colpa mi ha
fatto fuggire da me, disabitato dai ricordi. Era questo Jesusalém». E l’unico
rimpianto nostro, a chiusura di libro, è che non sia stato mantenuto il titolo
originale (nemmeno nell’edizione brasiliana, peraltro!).
(Gaza Community Mental Health Programme)
Tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009 l’operazione “Piombo Fuso” condotta
dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza ha provocato una devastazione e
un massacro impressionanti. Ne sono derivati miseria, disoccupazione,
distruzione e isolamento che non hanno risparmiato nessun aspetto
dell’esistenza pubblica e privata. La guerra di Israele contro Gaza ha preso di
mira tutti e tutto, fattorie e industrie comprese. Più di ventimila case e
infrastrutture civili sono state completamente o parzialmente distrutte, cosa
che ha lasciato migliaia di bambini senza tetto costringendoli a essere
sfollati e a trascorrere lunghi periodi in tende e rifugi provvisori. Più di
mille e quattrocento palestinesi sono stati ammazzati e cinquemila sono stati
feriti, per la maggior parte civili. Centinaia di genitori con i loro figli
sono stati colpiti da colpi di armi da fuoco, fatti saltare in aria o bruciati
a morte con il fosforo bianco.
I traumi psicologici subiti da tutte queste persone persistono tuttora e
difficilmente si rimargineranno.
Giorno dopo giorno il Gaza Community Mental Health Programme testimonia
dell’impatto catastrofico di quella violenza. Gli alunni delle scuole fanno i
compiti a lume di candela a causa di costanti interruzioni dell’elettricità. E
il prolungarsi dell’occupazione strangola lentamente Gaza. Da più di tre anni
la Striscia vive sotto un costante e inesorabile assedio, frutto di un piano
deliberato. L’obiettivo è di umiliare, intimidire e isolare un milione e mezzo
di persone, nell’intento di spezzarne la volontà.
Per questo, in un piccolo libro dal titolo La vita vale la pena
viverla, il Gaza Community Mental Health Programme ha cercato di mostrare i
danni e la sofferenza che le forze di occupazione israeliane provocano.
Una domanda si impone: quali vissuti contribuiranno a formare la
generazione che sta nascendo? Una popolazione di orfani pieni rabbia deve
fronteggiare perdite angoscianti. Queste perdite minacciano costantemente e
significativamente ogni aspetto della loro crescita, sviluppo e benessere psicologico.
Lo sforzo del Gaza Community Mental Health Programme è volto a rafforzare la
resilienza della comunità, e in particolare quella dei bambini. La terapia non
è però sufficiente a contrastare il carico e l’intensità delle sofferenze.
Per le ferite di Gaza, la sola efficace e duratura modalità di trattamento
sarà il conseguimento della giustizia; questo sarà la cura e la vittoria morale
per le vittime. Un mondo senza giustizia è, invece, un luogo pericoloso, un
terreno fertile per il senso di impotenza e per la disperazione di chi,
afflitto, non ha nulla da perdere.