L’Italia del concorri, competi, crepa - Marco Bersani
Come ampiamente previsto, la discussione parlamentare del Piano Nazionale
di Ripresa e Resilienza (PNRR) del Governo Draghi si è trasformata in
una cerimonia celebrativa da far invidia al governo nord-coreano.
Un intero arco parlamentare, trattato a pesci in faccia dal ‘governo dei
migliori’ al punto da aver ricevuto il testo definitivo del piano un paio d’ore
prima dell’inizio della discussione, si è allineato con dichiarazioni
imbarazzanti e prive di nessi logici.
Una per tutte, le parole del neo segretario Pd, Enrico Letta: “Verde,
sociale, inclusiva, competitiva, solidale. Questa l’Italia che potremo avere se
diventerà realtà il PNRR presentato in Parlamento da Draghi”.
Inutile spiegare a Letta, dizionario alla mano, l’antagonismo tra la parola
“competitiva” (‘che tende a competere, che è e vuol essere in competizione’) e
la parola “solidale” (‘che instaura rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno
fra i componenti di una collettività’).
D’altronde, anche allo stesso Draghi andrebbe regalato un dizionario, dopo
aver letto quanto scrive nell’introduzione al Piano: “Un fattore essenziale
per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della
concorrenza. La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può
anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale”.
Salvo poi aggiungere poche righe sotto: “Il Governo s’impegna a
presentare in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la
concorrenza (e) si impegna a mitigare gli effetti negativi
prodotti da queste misure (..). Quanto più si incoraggia la concorrenza, tanto
più occorre rafforzare la protezione sociale”.
Forse basterebbe liquidare l’intero PNRR con un unico dato lessicale: nelle
337 pagine del piano le parole “competizione” e “concorrenza” ricorrono 257
volte, la parola “diseguaglianze” 7 volte.
Di fatto, l’intero Piano, dentro il quale, sempre secondo il Presidente del
Consiglio, “non ci sono solo numeri e scadenze, ma le vite degli italiani e
il destino del Paese” è fortemente ancorato all’impianto della dottrina
liberista, per la quale il pubblico deve mettersi al servizio dell’economia di
mercato, dalla cui competitività si misura il benessere del Paese.
Da non credere. Come se non fosse stato proprio questo meccanismo a
portarci alla drammatica crisi resa evidente dall’esplosione della pandemia.
Basta leggere l’introduzione al PNRR per rendersene conto. Anche queste
sono parole di Draghi: “La pandemia si è abbattuta su un Paese già fragile
dal punta di vista economico, sociale, ambientale (..) tra il 2005 e il 2019 il
numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per
cento al 7,7 per cento della popolazione, prima di aumentare ulteriormente nel
2020 fino al 9,4 per cento (..) l’Italia è il Paese dell’UE con il più alto
tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o
nella formazione (NEET) (..) il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è
solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media
europea. E questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno (..)
l’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici con il 12,6 per
cento della popolazione che abita in aree classificate ad elevata pericolosità
di frana o soggette ad alluvioni”.
E’ stata provocata da uno spropositato ruolo del pubblico questa
situazione?
E’ sempre il nostro Draghi a rispondere di no. Dice infatti il PNRR: “Nell’ultimo
decennio l’evoluzione della spesa pubblica, con il blocco del turnover, ha
generato una significativa riduzione del numero dei dipendenti pubblici in
Italia. La Pubblica Amministrazione italiana registra oggi un numero di
dipendenti (circa 3,2 milioni in valore assoluto) inferiore alla media OCSE
(13,4 per cento dell’occupazione totale, contro il 17,7 per cento della media
OCSE, secondo i dati del 2017)”.
Non solo. “In 10 anni gli investimenti in formazione dei dipendenti
pubblici si sono quasi dimezzati, passando da 262 milioni di euro nel 2008 a
164 milioni nel 2019: una media di 48 euro per dipendente”. Il tutto
affiancato da una drastica riduzione degli investimenti pubblici, fin quasi al
loro azzeramento.
Draghi la racconta come un dato oggettivo, ma tutti sappiamo che
l’azzeramento della funzione della Pubblica Amministrazione è stata il frutto
di scelte ben precise, dettate dai vincoli di Maastricht, dal patto di
stabilità e dal Fiscal Compact; ovvero dalle misure di austerità
applicate utilizzando la trappola ideologica del debito pubblico per favorire
le privatizzazioni e la messa sul mercato di beni comuni e servizi pubblici che
prima ne erano esclusi.
Ricapitolando: l’Italia è un paese allo sfascio, pesantemente vulnerabile
dal punto di vista ambientale, drammaticamente diseguale dal punto di vista
sociale e con un settore pubblico ridotto ai minimi termini ed espropriato
della sua primaria funzione pubblica e sociale.
Come pensa di affrontare questa situazione il piano di Draghi?
Attraverso la rimozione delle barriere all’entrata dei mercati e
promuovendo “dinamiche competitive finalizzate ad assicurare anche la
protezione di diritti e interessi non economici dei cittadini, con particolare
riguardo ai servizi pubblici, alla sanità e all’ambiente”.
Mentre le persone durante la pandemia hanno vissuto sulla propria pelle (e
120.000 di queste ci hanno lasciato) i disastri sanitari, sociali e ambientali
prodotti dall’idea di società fondata sulla solitudine competitiva, sul
profitto e sulle privatizzazioni, il pifferaio Draghi suona la sinfonia del
mercato e partiti politici di ogni colore, mass media di ogni collocazione lo
seguono incantati.
Draghi racconta di un PNRR che porterà un bastimento carico di miliardi in
cambio di qualche riforma, la realtà dimostra che il PNRR è un piano che
ridisegna il Paese con le riforme in cambio di qualche soldo. I 205 miliardi da
investire in sei anni sono inferiori a quanto già speso dal governo italiano
nei primi 15 mesi di pandemia (210 miliardi), mentre le riforme –condicio
sine qua non per averli- sono finalizzate a stabilizzare un modello
fondato sulla predazione della natura, sull’espropriazione sociale e sulla
precarietà.
La ripresa di cui si parla è il rilancio dell’economia dei profitti. La
resilienza che si auspica è la rassegnazione che si chiede alle persone.
A tutto questo va aggiunto che questo PNRR blinderà qualsiasi scelta
politica – elezioni o meno – per i prossimi sei anni. Come ha esplicitato il
commissario europeo Paolo Gentiloni, il PNRR è come un contratto tra l’Unione europea
e ciascuno stato membro e “probabilmente due volte l’anno, la Commissione
europea dovrà decidere se erogare la parte di finanziamento che il paese
aspetta” e lo farà, oltre che sulla base della spesa sostenuta, “sul
rispetto degli impegni presi nelle riforme indicate nel Piano”.
Era chiaro sin dall’inizio come la pandemia costituisse uno spartiacque e
ponesse tutte e tutti di fronte a un bivio: proseguire con un modello
capitalistico dentro un quadro molto più autoritario o dichiararne la totale
insostenibilità sociale e ambientale e intraprendere la sfida per
un’alternativa di società.
Il PNRR del governo Draghi ha imboccato senza indugi la prima direzione.
Centinaia di realtà associative e di movimento hanno intrapreso con
determinazione la seconda, avviando il percorso di convergenza per la “Società
della cura”.
La partita è aperta è in gioco c’è il diritto al futuro. Nessuno pensi di
poterla stare a guardare.
Piano di ripresa e resilienza: una nuova fregatura - Luigi Pandolfi
L’errore più grande che si potrebbe fare a proposito
del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) varato dal Governo – la
Camera lo ha approvato con soli 19 voti contrari! – è quello di leggerlo
focalizzando l’attenzione esclusivamente sui numeri. I numeri relativi alle
risorse disponibili e alla loro distribuzione per ogni singola missione.
Beninteso, il fatto che si abbiano o non si abbiano più soldi da spendere è
importante, ma trattandosi di un programma integrato, inteso come «parte di una
più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese», addirittura
finalizzato a «aggiornare le strategie nazionali in tema di sviluppo», più che il miliardo in più o il miliardo in
meno spalmato sui vari capitoli, conta l’idea di Paese e di società che in esso
viene disegnata.
Per questo, a chi volesse comprenderne la reale portata
consiglierei di partire, nella lettura, dalla fine anziché dall’inizio. In
particolare, suggerirei di dedicare un’attenzione preliminare, e particolare,
all’ultimo capitolo del documento, nel quale vengono esaminati gli «impatti
delle riforme», che del Piano costituiscono, per così dire, l’anima e
l’elemento prospettico (saranno realizzate con provvedimenti specifici). «Le
azioni di riforma sono sinergiche e interagiscono con gli investimenti pubblici
e le altre misure di spesa già esaminate», si legge nel capitolo richiamato. In
sostanza, si vuole significare che PNRR non è un semplice tableau di
interventi da finanziare, bensì un programma di riorganizzazione complessiva
del sistema economico e sociale, in vista del dopo pandemia. «I Piani Nazionali
di Ripresa e Resilienza sono innanzitutto piani di riforma. Le linee di
investimento devono essere accompagnate da una strategia di riforme orientata a
migliorare le condizioni regolatorie e ordinamentali di contesto e a incrementare stabilmente l’equità, l’efficienza e la competitività del Paese».
Innanzitutto “piani di riforma”, dunque. La leva
attraverso cui si dovranno realizzare “riforme strutturali” (ora chiamate
“riforme di contesto”) dirette a trasformare la situazione presente, in nome di
una maggiore “competitività” del sistema. Uno schema perfettamente
neoliberista. Nel quale lo Stato non scompare, ma si pone a diretto servizio
dell’economia di mercato, dettando regole di contesto, imponendo ope
legis ciò che serve per rendere i mercati “più concorrenziali”,
mettendo le imprese nella condizione di competere «in termini di qualità dei
prodotti, ma anche in termini di costi». Uno schema astratto, supportato da
formulazioni matematiche, nel quale di concreto ci sono soltanto il ritiro del
settore pubblico dall’economia e la riduzione dei costi di produzione.
Privatizzazioni ‒ quello che resta da privatizzare ‒ e abbattimento del costo
del lavoro, che, come si scrive esplicitamente nel Piano, costituisce uno dei
«motivi rilevanti» del fenomeno della delocalizzazione produttiva (deflazione
salariale).
Gli ambiti per i quali vengono simulati gli impatti
delle riforme sono tre: pubblica amministrazione, giustizia, competitività. Ma
è in particolare sul terzo ambito che bisogna concentrarsi per comprendere la
filosofia di fondo che ispira l’intero documento («Un fattore essenziale per la
crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza»,
scrive Mario Draghi nell’introduzione). La premessa è che le riforme devono far crescere il grado di concorrenza
dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo, però, è necessario
innanzitutto fotografare la situazione di partenza. Quanto è competitiva
l’Italia in rapporto ad altri Paesi europei ed extraeuropei? La risposta a
questa domanda può essere data avvalendosi di un indicatore che misuri il
rapporto tra livello di regolazione dei mercati e performance dell’economia:
l’Indice di regolamentazione del mercato dei prodotti (Product Market
Regulation Indicators, PMR), sviluppato una ventina d’anni fa
dall’OCSE. L’equazione su cui si basa il modello di comparazione è
molto semplice: a livelli elevati di regolamentazione dei mercati e di presenza
dello Stato in economia corrispondono bassi livelli di competitività del
sistema, quindi una sua bassa propensione alla crescita, alla creazione di
ricchezza, all’incremento dell’occupazione. A ben vedere, niente di
nuovo. Tutto in linea con i
presupposti della teoria economica dominante, secondo la quale è il mercato e
solo il mercato a determinare la migliore allocazione possibile delle risorse,
in vista del conseguimento di obiettivi economici di cui potranno beneficiare
tutti i membri della società. Tesi farlocca, ovviamente. La
storia ha dimostrato esattamente il contrario. Che anche quando il mercato raggiunge
un certo “equilibrio”, quest’ultimo non è mai ottimale. E che, al netto delle
crisi, in una società organizzata secondo questo schema l’optimum è
possibile solo per chi detiene i mezzi di produzione e sfrutta il lavoro
altrui, benché anche nel Piano si ponga l’accento sulla riduzione dei margini
di profitto per effetto di una maggiore concorrenza (meno profitti, prezzi più
bassi, maggiori investimenti, sarebbe la sequenza). Insomma, da molti decenni a
questa parte, l’equilibrio ottimale dei mercati concorrenziali è rimasto solo
nei grafici dei manuali di economia politica. E nei documenti di politica
economica dei governi, che continuano, a dispetto della storia e dell’evidenza
empirica, a farne Vangelo.
Nel 2018, l’indice PMR dell’OCSE segnalava per l’Italia,
come per gli anni precedenti, un problema di bassa competitività. Non tanto per
i livelli di regolazione del mercato che, dati alla mano, erano più bassi di
altri paesi sviluppati (il risultato delle “riforme” che hanno deregolamentato
il mercato del lavoro e liberalizzato ampi settori dell’economia), ma per
l’eccessiva presenza dello Stato in economia (come se gli anni Novanta non ci
fossero stati). È da qui che muove
il Piano di ripresa e resilienza. Bisogna privatizzare e liberalizzare ancora di
più per mettere le ali all’economia (nel Piano si dà ampio risalto alla
necessità di affidare al mercato i servizi pubblici essenziali, limitando la
possibilità per le amministrazioni di ricorrere a gestioni in house). Non
mancano, ovviamente, numeri e tabelle per dimostrare questo assunto. La
scientificità della tesi è data in maniera assiomatica: una riduzione del 15%
dell’Indice di regolamentazione dei mercati «genera dopo 5 anni un aumento del
PIL rispetto allo scenario di base pari a 0,2 punti percentuali, mentre nel
lungo periodo si arriverà a 0,5 punti percentuali». Senza considerare
“l’impatto positivo” su investimenti e consumi. Keynes fuori dalla porta, siamo
di nuovo alla Legge di Say. I redditi generati dal sistema sono sufficienti a
garantire un certo livello di investimenti e di consumi che consentono al
sistema di riprodursi.
Un mondo irreale,
fantastico, che fa a pugni con la realtà drammatica in cui siamo immersi. La pandemia, tra le altre cose, ha
reso evidente quanto siano state nocive per la società, per la qualità della
vita, le scelte di politica economica compiute negli ultimi decenni all’insegna
delle formulazioni che ancora si ritrovano in questo Piano. Sanità, lavoro,
servizi pubblici: le fragilità del sistema sono imputabili a una presunta
“ristrettezza” del mercato o al fatto che il mercato è stato fatto entrare
dappertutto e che tutto è stato mercificato, finanche il diritto alla salute?
Per quanto riguarda la bassa crescita, è stato un problema di concorrenza o una
questione di domanda insufficiente, figlia di alti livelli di disoccupazione,
di lavoro sottopagato, di aumento della povertà, di politiche che hanno
compresso la spesa pubblica, compresa quella per investimenti? Purtroppo, con
l’eccezione di sparute minoranze, invisibili agli occhi dei media, nessuno in
questo momento pone seriamente questi problemi (nemmeno a sinistra, per la
verità). Si fanno i conti della serva sul miliardo qui e il miliardo là, quanto
a me e quanto a te, che bella la rivoluzione verde, quanto è figo l’idrogeno,
senza accorgersi (c’è ovviamente chi se n’è accorto ed è d’accordo) che ci
stanno fregando un’altra volta. No,
in questo modo non usciremo da questa crisi meglio di come ci siamo entrati. Ne
usciremo nel peggior modo possibile.
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