giovedì 6 maggio 2021

ancora sul PNRR

L’Italia del concorri, competi, crepa - Marco Bersani


Come ampiamente previsto, la discussione parlamentare del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del Governo Draghi si è trasformata in una cerimonia celebrativa da far invidia al governo nord-coreano.

Un intero arco parlamentare, trattato a pesci in faccia dal ‘governo dei migliori’ al punto da aver ricevuto il testo definitivo del piano un paio d’ore prima dell’inizio della discussione, si è allineato con dichiarazioni imbarazzanti e prive di nessi logici.

Una per tutte, le parole del neo segretario Pd, Enrico Letta: “Verde, sociale, inclusiva, competitiva, solidale. Questa l’Italia che potremo avere se diventerà realtà il PNRR presentato in Parlamento da Draghi”.

Inutile spiegare a Letta, dizionario alla mano, l’antagonismo tra la parola “competitiva” (‘che tende a competere, che è e vuol essere in competizione’) e la parola “solidale” (‘che instaura rapporto di fratellanza e di reciproco sostegno fra i componenti di una collettività’).

D’altronde, anche allo stesso Draghi andrebbe regalato un dizionario, dopo aver letto quanto scrive nell’introduzione al Piano: “Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza. La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale”.

Salvo poi aggiungere poche righe sotto: “Il Governo s’impegna a presentare in Parlamento il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza (e) si impegna a mitigare gli effetti negativi prodotti da queste misure (..). Quanto più si incoraggia la concorrenza, tanto più occorre rafforzare la protezione sociale”.

Forse basterebbe liquidare l’intero PNRR con un unico dato lessicale: nelle 337 pagine del piano le parole “competizione” e “concorrenza” ricorrono 257 volte, la parola “diseguaglianze” 7 volte.

Di fatto, l’intero Piano, dentro il quale, sempre secondo il Presidente del Consiglio, “non ci sono solo numeri e scadenze, ma le vite degli italiani e il destino del Paese” è fortemente ancorato all’impianto della dottrina liberista, per la quale il pubblico deve mettersi al servizio dell’economia di mercato, dalla cui competitività si misura il benessere del Paese.

 

Da non credere. Come se non fosse stato proprio questo meccanismo a portarci alla drammatica crisi resa evidente dall’esplosione della pandemia.

Basta leggere l’introduzione al PNRR per rendersene conto. Anche queste sono parole di Draghi: “La pandemia si è abbattuta su un Paese già fragile dal punta di vista economico, sociale, ambientale (..) tra il 2005 e il 2019 il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione, prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento (..) l’Italia è il Paese dell’UE con il più alto tasso di ragazzi tra i 15 e i 29 anni non impegnati nello studio, nel lavoro o nella formazione (NEET) (..) il tasso di partecipazione delle donne al lavoro è solo il 53,8 per cento, molto al di sotto del 67,3 per cento della media europea. E questi problemi sono ancora più accentuati nel Mezzogiorno (..) l’Italia è particolarmente vulnerabile ai cambiamenti climatici con il 12,6 per cento della popolazione che abita in aree classificate ad elevata pericolosità di frana o soggette ad alluvioni”.

E’ stata provocata da uno spropositato ruolo del pubblico questa situazione?

E’ sempre il nostro Draghi a rispondere di no. Dice infatti il PNRR: “Nell’ultimo decennio l’evoluzione della spesa pubblica, con il blocco del turnover, ha generato una significativa riduzione del numero dei dipendenti pubblici in Italia. La Pubblica Amministrazione italiana registra oggi un numero di dipendenti (circa 3,2 milioni in valore assoluto) inferiore alla media OCSE (13,4 per cento dell’occupazione totale, contro il 17,7 per cento della media OCSE, secondo i dati del 2017)”.

Non solo. “In 10 anni gli investimenti in formazione dei dipendenti pubblici si sono quasi dimezzati, passando da 262 milioni di euro nel 2008 a 164 milioni nel 2019: una media di 48 euro per dipendente”. Il tutto affiancato da una drastica riduzione degli investimenti pubblici, fin quasi al loro azzeramento.

Draghi la racconta come un dato oggettivo, ma tutti sappiamo che l’azzeramento della funzione della Pubblica Amministrazione è stata il frutto di scelte ben precise, dettate dai vincoli di Maastricht, dal patto di stabilità e dal Fiscal Compact; ovvero dalle misure di austerità applicate utilizzando la trappola ideologica del debito pubblico per favorire le privatizzazioni e la messa sul mercato di beni comuni e servizi pubblici che prima ne erano esclusi.

Ricapitolando: l’Italia è un paese allo sfascio, pesantemente vulnerabile dal punto di vista ambientale, drammaticamente diseguale dal punto di vista sociale e con un settore pubblico ridotto ai minimi termini ed espropriato della sua primaria funzione pubblica e sociale.

Come pensa di affrontare questa situazione il piano di Draghi?

Attraverso la rimozione delle barriere all’entrata dei mercati e promuovendo “dinamiche competitive finalizzate ad assicurare anche la protezione di diritti e interessi non economici dei cittadini, con particolare riguardo ai servizi pubblici, alla sanità e all’ambiente”.

Mentre le persone durante la pandemia hanno vissuto sulla propria pelle (e 120.000 di queste ci hanno lasciato) i disastri sanitari, sociali e ambientali prodotti dall’idea di società fondata sulla solitudine competitiva, sul profitto e sulle privatizzazioni, il pifferaio Draghi suona la sinfonia del mercato e partiti politici di ogni colore, mass media di ogni collocazione lo seguono incantati.

Draghi racconta di un PNRR che porterà un bastimento carico di miliardi in cambio di qualche riforma, la realtà dimostra che il PNRR è un piano che ridisegna il Paese con le riforme in cambio di qualche soldo. I 205 miliardi da investire in sei anni sono inferiori a quanto già speso dal governo italiano nei primi 15 mesi di pandemia (210 miliardi), mentre le riforme –condicio sine qua non per averli- sono finalizzate a stabilizzare un modello fondato sulla predazione della natura, sull’espropriazione sociale e sulla precarietà.

La ripresa di cui si parla è il rilancio dell’economia dei profitti. La resilienza che si auspica è la rassegnazione che si chiede alle persone.

 

A tutto questo va aggiunto che questo PNRR blinderà qualsiasi scelta politica – elezioni o meno – per i prossimi sei anni. Come ha esplicitato il commissario europeo Paolo Gentiloni, il PNRR è come un contratto tra l’Unione europea e ciascuno stato membro e “probabilmente due volte l’anno, la Commissione europea dovrà decidere se erogare la parte di finanziamento che il paese aspetta” e lo farà, oltre che sulla base della spesa sostenuta, “sul rispetto degli impegni presi nelle riforme indicate nel Piano”.

Era chiaro sin dall’inizio come la pandemia costituisse uno spartiacque e ponesse tutte e tutti di fronte a un bivio: proseguire con un modello capitalistico dentro un quadro molto più autoritario o dichiararne la totale insostenibilità sociale e ambientale e intraprendere la sfida per un’alternativa di società.

Il PNRR del governo Draghi ha imboccato senza indugi la prima direzione.

Centinaia di realtà associative e di movimento hanno intrapreso con determinazione la seconda, avviando il percorso di convergenza per la “Società della cura”.

La partita è aperta è in gioco c’è il diritto al futuro. Nessuno pensi di poterla stare a guardare.

da qui



Piano di ripresa e resilienza: una nuova fregatura - Luigi Pandolfi

 

L’errore più grande che si potrebbe fare a proposito del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) varato dal Governo – la Camera lo ha approvato con soli 19 voti contrari! – è quello di leggerlo focalizzando l’attenzione esclusivamente sui numeri. I numeri relativi alle risorse disponibili e alla loro distribuzione per ogni singola missione. Beninteso, il fatto che si abbiano o non si abbiano più soldi da spendere è importante, ma trattandosi di un programma integrato, inteso come «parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese», addirittura finalizzato a «aggiornare le strategie nazionali in tema di sviluppo», più che il miliardo in più o il miliardo in meno spalmato sui vari capitoli, conta l’idea di Paese e di società che in esso viene disegnata.

Per questo, a chi volesse comprenderne la reale portata consiglierei di partire, nella lettura, dalla fine anziché dall’inizio. In particolare, suggerirei di dedicare un’attenzione preliminare, e particolare, all’ultimo capitolo del documento, nel quale vengono esaminati gli «impatti delle riforme», che del Piano costituiscono, per così dire, l’anima e l’elemento prospettico (saranno realizzate con provvedimenti specifici). «Le azioni di riforma sono sinergiche e interagiscono con gli investimenti pubblici e le altre misure di spesa già esaminate», si legge nel capitolo richiamato. In sostanza, si vuole significare che PNRR non è un semplice tableau di interventi da finanziare, bensì un programma di riorganizzazione complessiva del sistema economico e sociale, in vista del dopo pandemia. «I Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza sono innanzitutto piani di riforma. Le linee di investimento devono essere accompagnate da una strategia di riforme orientata a migliorare le condizioni regolatorie e ordinamentali di contesto e a incrementare stabilmente lequità, lefficienza e la competitività del Paese».

Innanzitutto “piani di riforma”, dunque. La leva attraverso cui si dovranno realizzare “riforme strutturali” (ora chiamate “riforme di contesto”) dirette a trasformare la situazione presente, in nome di una maggiore “competitività” del sistema. Uno schema perfettamente neoliberista. Nel quale lo Stato non scompare, ma si pone a diretto servizio dell’economia di mercato, dettando regole di contesto, imponendo ope legis ciò che serve per rendere i mercati “più concorrenziali”, mettendo le imprese nella condizione di competere «in termini di qualità dei prodotti, ma anche in termini di costi». Uno schema astratto, supportato da formulazioni matematiche, nel quale di concreto ci sono soltanto il ritiro del settore pubblico dall’economia e la riduzione dei costi di produzione. Privatizzazioni ‒ quello che resta da privatizzare ‒ e abbattimento del costo del lavoro, che, come si scrive esplicitamente nel Piano, costituisce uno dei «motivi rilevanti» del fenomeno della delocalizzazione produttiva (deflazione salariale).

Gli ambiti per i quali vengono simulati gli impatti delle riforme sono tre: pubblica amministrazione, giustizia, competitività. Ma è in particolare sul terzo ambito che bisogna concentrarsi per comprendere la filosofia di fondo che ispira l’intero documento («Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza», scrive Mario Draghi nell’introduzione). La premessa è che le riforme devono far crescere il grado di concorrenza dei mercati. Per raggiungere questo obiettivo, però, è necessario innanzitutto fotografare la situazione di partenza. Quanto è competitiva l’Italia in rapporto ad altri Paesi europei ed extraeuropei? La risposta a questa domanda può essere data avvalendosi di un indicatore che misuri il rapporto tra livello di regolazione dei mercati e performance dell’economia: l’Indice di regolamentazione del mercato dei prodotti (Product Market Regulation Indicators, PMR), sviluppato una ventina d’anni fa dall’OCSEL’equazione su cui si basa il modello di comparazione è molto semplice: a livelli elevati di regolamentazione dei mercati e di presenza dello Stato in economia corrispondono bassi livelli di competitività del sistema, quindi una sua bassa propensione alla crescita, alla creazione di ricchezza, all’incremento dell’occupazione. A ben vedere, niente di nuovo. Tutto in linea con i presupposti della teoria economica dominante, secondo la quale è il mercato e solo il mercato a determinare la migliore allocazione possibile delle risorse, in vista del conseguimento di obiettivi economici di cui potranno beneficiare tutti i membri della società. Tesi farlocca, ovviamente. La storia ha dimostrato esattamente il contrario. Che anche quando il mercato raggiunge un certo “equilibrio”, quest’ultimo non è mai ottimale. E che, al netto delle crisi, in una società organizzata secondo questo schema l’optimum è possibile solo per chi detiene i mezzi di produzione e sfrutta il lavoro altrui, benché anche nel Piano si ponga l’accento sulla riduzione dei margini di profitto per effetto di una maggiore concorrenza (meno profitti, prezzi più bassi, maggiori investimenti, sarebbe la sequenza). Insomma, da molti decenni a questa parte, l’equilibrio ottimale dei mercati concorrenziali è rimasto solo nei grafici dei manuali di economia politica. E nei documenti di politica economica dei governi, che continuano, a dispetto della storia e dell’evidenza empirica, a farne Vangelo.

Nel 2018, l’indice PMR dell’OCSE segnalava per l’Italia, come per gli anni precedenti, un problema di bassa competitività. Non tanto per i livelli di regolazione del mercato che, dati alla mano, erano più bassi di altri paesi sviluppati (il risultato delle “riforme” che hanno deregolamentato il mercato del lavoro e liberalizzato ampi settori dell’economia), ma per l’eccessiva presenza dello Stato in economia (come se gli anni Novanta non ci fossero stati). È da qui che muove il Piano di ripresa e resilienza. Bisogna privatizzare e liberalizzare ancora di più per mettere le ali all’economia (nel Piano si dà ampio risalto alla necessità di affidare al mercato i servizi pubblici essenziali, limitando la possibilità per le amministrazioni di ricorrere a gestioni in house). Non mancano, ovviamente, numeri e tabelle per dimostrare questo assunto. La scientificità della tesi è data in maniera assiomatica: una riduzione del 15% dell’Indice di regolamentazione dei mercati «genera dopo 5 anni un aumento del PIL rispetto allo scenario di base pari a 0,2 punti percentuali, mentre nel lungo periodo si arriverà a 0,5 punti percentuali». Senza considerare “l’impatto positivo” su investimenti e consumi. Keynes fuori dalla porta, siamo di nuovo alla Legge di Say. I redditi generati dal sistema sono sufficienti a garantire un certo livello di investimenti e di consumi che consentono al sistema di riprodursi.

Un mondo irreale, fantastico, che fa a pugni con la realtà drammatica in cui siamo immersi. La pandemia, tra le altre cose, ha reso evidente quanto siano state nocive per la società, per la qualità della vita, le scelte di politica economica compiute negli ultimi decenni all’insegna delle formulazioni che ancora si ritrovano in questo Piano. Sanità, lavoro, servizi pubblici: le fragilità del sistema sono imputabili a una presunta “ristrettezza” del mercato o al fatto che il mercato è stato fatto entrare dappertutto e che tutto è stato mercificato, finanche il diritto alla salute? Per quanto riguarda la bassa crescita, è stato un problema di concorrenza o una questione di domanda insufficiente, figlia di alti livelli di disoccupazione, di lavoro sottopagato, di aumento della povertà, di politiche che hanno compresso la spesa pubblica, compresa quella per investimenti? Purtroppo, con l’eccezione di sparute minoranze, invisibili agli occhi dei media, nessuno in questo momento pone seriamente questi problemi (nemmeno a sinistra, per la verità). Si fanno i conti della serva sul miliardo qui e il miliardo là, quanto a me e quanto a te, che bella la rivoluzione verde, quanto è figo l’idrogeno, senza accorgersi (c’è ovviamente chi se n’è accorto ed è d’accordo) che ci stanno fregando un’altra volta. No, in questo modo non usciremo da questa crisi meglio di come ci siamo entrati. Ne usciremo nel peggior modo possibile.

da qui


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