Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 1998 nel numero 227 di Internazionale.
Ho pubblicato da poco un libro sulla povertà in America. Ma
non è il libro che volevo io. Il mondo mi ha colto di sorpresa – e non una
volta sola: in continuazione. I poveri mi hanno portato in direzioni che non
avrei potuto neanche immaginare. Come dopo una conversazione che ebbi in un
carcere femminile di massima sicurezza, incongruamente situato in una
verdeggiante periferia della contea di Westchester, ottanta chilometri a nord
di New York.
Lavoravo al mio libro da circa tre anni quando andai per la
prima volta alla Bedford Hills Correctional Facility. Il personale e le recluse
avevano messo a punto un programma per affrontare i problemi della violenza in
famiglia, e io volevo vedere se e come le loro idee collimavano con ciò che
avevo imparato in fatto di povertà.
Ci sono molti fattori – fra gli altri: fame, isolamento,
malattia, padroni di casa, vicini, polizia, abusi, droga, delinquenti e
razzismo – che esercitano costantemente il loro influsso sui poveri,
imprigionandoli, creando cioè un “accerchiamento della forza” da cui sembra che
essi non trovino scampo. Ero giunto alla conclusione che era questo che
impediva ai poveri di avere idee politiche, e che a mantenerli in condizioni di
povertà era l’assenza della politica dalla loro vita. Qui non intendo
“politica” nel senso di votare alle elezioni, ma nel senso in cui Tucidide
usava questo termine, e cioè come un insieme di attività condotte con altre
persone, a ogni livello, dalla famiglia al vicinato, alla comunità allargata
alla città-Stato.
All’epoca del mio arrivo a Bedford Hills avevo ormai
ascoltato oltre seicento persone, alcune delle quali nel corso di due o tre
anni. Sebbene il mio metodo sia quello del bricoleur – uno che mette insieme
una tesi con il bric-à-brac che trova in giro per il mondo – ormai non mi
aspettavo più sorprese. Avevo fatto i conti senza Viniece Walker.
In carcere è considerato di cattivo gusto parlare del
delitto commesso dalla persona cui si è di fronte, e in queste pagine osserverò
rigorosamente questa norma di galateo. Posso dirvi soltanto che Viniece era
arrivata a Bedford Hills quando aveva vent’anni, dopo avere interrotto gli
studi superiori, e le uniche cose che conosceva bene erano le strade di Harlem
e le case clandestine dove si fuma il crack. Aveva avuto un lungo legame con un
uomo violento. In superficie, Viniece è rimasta la “dura” che era quando faceva
vita di strada. Si esprime senza mezzi termini, e anche se è sieropositiva (e
da quando è in prigione il virus ha fatto progressi), continua a ostentare
un’aria da bullo quando passeggia per i lunghi corridoi del carcere.
Durante la sua reclusione, Niecie – così la chiamano gli
amici – ha ultimato le superiori e si è iscritta a un corso per conseguire un diploma
– l’unico possibile a Bedford Hills è in psicologia, ma Niecie si è interessata
anche di filosofia. È così che ha cominciato a offrire consulenza alle donne
con storie di violenza familiare alle spalle, e conforto ai malati di Aids.
Niecie attraversa la vita come un personaggio di Dostoevskij, ma ancor più
complesso di quelle creature immaginarie: è viva, è una persona,
un’afroamericana dalla pelle chiara piena di lentiggini, una carcerata. È stata
lei a dare risposta alla mia domanda improvvisa: “Secondo te perché esistono i
poveri?”. Non ci eravamo mai incontrati prima. L’argomento centrale della
conversazione in cui eravamo immersi era la violenza sulle donne. Gli occhi di
Niecie erano perfettamente opachi: occhi ostili, da prigione. Aveva la bocca
contratta in un sogghigno appena abbozzato.
“Devi cominciare dai bambini”, disse parlando svelta,
mangiandosi i suoni da strada che le salivano alle labbra. Fece una pausa
sufficientemente lunga per lasciare che il cambiamento di tema facesse effetto,
poi riprese il suo discorso concitato, privo di ritmo. “Devi insegnare ai
bambini la vita morale dei quartieri alti. E il modo di farlo, Earl, è portarli
in città, al teatro, ai musei, ai concerti, alle conferenze, dove possono
imparare la vita morale della gente perbene”.
Le sorrisi senza capire, credendo di assecondarla. “Secondo
te, così non saranno più poveri?”. Lesse la mia risposta in tutte le sue
sfumature e ribatté con rabbia: “Così non saranno più poveri”. “Vuoi dire
che…”. “Voglio dire quel che ho detto: un’alternativa morale alla strada”.
Non parlò né di lavoro né di soldi. In questo, era come
tutti gli altri che avevo ascoltato: nessuno di loro aveva parlato di lavoro o
di soldi. Ma come poteva la “vita morale dei quartieri alti” far uscire qualcuno
dall’accerchiamento della forza? Come poteva un museo scacciare la povertà? E
che dire della vita politica? Forse Niecie aveva saltato intenzionalmente un
passo, oppure quel passo non l’aveva fatto. La via d’uscita dalla povertà era
la vita politica, non la “vita morale dei quartieri alti”. Ma per entrare nel
mondo pubblico, per far pratica di vita politica, i poveri dovevano prima
imparare a riflettere. Era questo che intendeva Niecie per “vita morale dei
quartieri alti”.
Lei non faceva l’errore di scindere l’etica dalla politica.
Aveva detto semplicemente, quasi stenograficamente, che nessuno poteva uscire
da una condizione terrorizzante come la miseria per entrare direttamente nel
mondo pubblico.
Anche se non lo disse apertamente, ero certo che quando parlava
di “vita morale dei quartieri alti” si riferiva a qualcosa che era capitato a
lei. Senza lavoro e senza soldi, chiusa in carcere, Niecie aveva subito una
trasformazione radicale. Aveva seguito lo stesso cammino che nell’antica Grecia
aveva condotto all’invenzione della politica: aveva imparato a riflettere.
Nelle nostre successive conversazioni emerse chiaramente che, quando parlava di
“vita morale dei quartieri alti”, Niecie si riferiva agli studi umanistici,
cioè allo studio delle costruzioni del pensiero e delle occupazioni pratiche
degli uomini, che è fonte di riflessione per il mondo laico da quando i Greci,
contemplando la natura, indietreggiarono per la meraviglia di ciò che vedevano.
Se la via d’uscita dalla miseria era la vita politica, la via d’accesso alla
riflessione e alla vita politica era lo studio dei classici. I poveri non
avevano bisogno di nessuno che li liberasse; una via di fuga esisteva. Ma per
aprire quella via alla riflessione e alla politica, bisognava prima eliminare
la distinzione di fondo fra la preparazione alla vita da ricchi e quella alla
vita da poveri.
I problemi dell’esperimento
Ora che Niecie mi aveva lanciato una sfida con la sua teoria, i piaceri del
bricolage erano finiti; non potevo più rendere ossequio al mondo così com’era e
starmene tranquillo. Per verificare la teoria di Niecie, occorrevano studenti,
docenti e aule. Bisognava mettere a punto delle misurazioni quantitative, e
anche informazioni di tipo aneddotico potevano servire a questo scopo. E poi
bisognava valutare l’aspetto etico dell’esperimento: ero deciso a non produrre
effetti dannosi; il corso non doveva quindi seguire l’approccio “nuota o
affoga”, anzi poteva mirare a mantenere a galla il maggior numero possibile di
persone.
Quando nella mia mente si formò in modo compiuto l’idea di
un corso sperimentale, ne parlai con Jaime Inclán, direttore del Roberto
Clemente Family Guidance Center di Lower Manhattan, un’organizzazione che
fornisce consulenza ai poveri, soprattutto ispanici, nella loro lingua e all’interno
della loro stessa comunità. Il dottor Inclán mi offrì di usare come aula la
sala conferenze del centro. Su un tavolino da gioco, collocato in fondo
all’aula, avremmo messo una caffettiera e dei biscotti. Certo, non era un
ambiente elegante, ma sarebbe andato benone. La parete di fronte venne coperta
da una lavagna che andava dal soffitto al pavimento.
Ormai mancavano soltanto gli studenti e i docenti. Senza
fondi e con un bilancio che aumentava ogni volta che mi veniva in mente una
nuova idea, avrei dovuto chiedere ai docenti di mettere a disposizione
gratuitamente il loro tempo e il loro lavoro. Per giunta, come diceva un grande
rettore dell’Università di Chicago, Robert Maynard Hutchins, “la migliore
istruzione per i migliori è la migliore istruzione per tutti”, quindi per i
nostri corsi occorreva un corpo docente dotto e prestigioso come quello che uno
studente del primo anno avrebbe potuto trovare a Harvard, a Yale o a Princeton.
Come prima cosa mi rivolsi al romanziere Charles Simmons,
che era stato assistant editor della New York Times Review of Books e aveva
insegnato alla Columbia University. Si era offerto come docente volontario di
poesia, cominciando con autori semplici, come Housman, per finire con la poesia
latina. Grace Glueck, che scriveva di arte e di critica d’arte per il New York
Times, organizzò un corso che partiva dalle pitture rupestri per giungere alla
fine del Ventesimo secolo. Timothy Koranda, che aveva svolto i suoi studi
specialistici al Massachusetts Institute of Technology, aveva pubblicato
articoli di logica matematica su diverse riviste, poi per qualche anno aveva
lasciato il suo campo, e non vedeva l’ora di tornarci. Io avrei tenuto il corso
di storia americana attraverso documenti d’epoca, partendo dalla Magna Charta
per passare al secondo dei due Trattati sul governo civile di Locke, alla
Dichiarazione d’Indipendenza e così via, esaminando infine i documenti della Guerra
civile. Inoltre, avrei tenuto il corso di filosofia politica.
Essendo del tutto digiuno di imprese del genere, non mi
venne in mente subito che avremmo potuto incontrare difficoltà a trovare
studenti. Non sapevo neanche quanti me ne servivano; disponevo soltanto di
alcuni criteri per la selezione. Età: dai 18 ai 35 anni; reddito familiare:
meno del 150 per cento della “soglia ufficiale di povertà”; livello
d’istruzione: sufficiente a leggere un settimanale; obiettivi: intenzione
manifestata di portare a termine il corso.
Inclán organizzò una riunione fra operatori di comunità in
grado di aiutarci a reperire studenti. Sia Lynette Lauretig di The Door (un
programma che fornisce servizi sanitari e scolastici agli adolescenti) che
Angel Roman del Grand Street Settlement (che organizza programmi speciali di
lavoro, formazione e istruzione), si erano resi disponibili a metterci in
contatto con possibili candidati. Per giunta, ci fecero presenti alcune
considerazioni pratiche: il corso doveva fornire gratis tessere dell’autobus e
della metropolitana, visto che le tariffe andavano dai 3 ai 6 dollari a
studente per ogni classe, e i nostri studenti non potevano permettersi di
spendere in trasporti 30 o addirittura 60 dollari al mese. Inoltre, era
opportuno offrire loro una cena, o quanto meno uno spuntino, visto che i corsi
si sarebbero tenuti fra le 18 e le 19.30.
La prima sessione di reclutamento ebbe luogo dopo appena
qualche giorno. Nancy Mamis-King, direttrice associata del programma
Neighborhood Youth & Family Services del South Bronx, aveva individuato
alcuni possibili candidati al Clemente Course, e poi aveva riunito una ventina
delle persone con cui collaborava – tutti o neri o ispanici, tranne me e
un’assistente sociale.
Dopo che ebbi spiegato l’idea da cui avevamo preso spunto
per creare il corso, l’assistente sociale bianca fu la prima a fare una
domanda: “Lei insegnerà storia dell’Africa?”. “No. Ci sarà un corso di storia
americana, basato, come ho già detto, su documenti d’epoca. La nostra
intenzione è insegnare le idee della storia, in modo che…”. “Lei deve insegnare
storia dell’Africa”. “Beh, ma qui siamo in America, quindi insegneremo storia
americana. Se fossimo in Africa, insegnerei storia africana, e se fossimo in
Cina, storia cinese”. “Lei vuole indottrinare la gente alla cultura
occidentale”. Cercai di aggirare le sue obiezioni. “Studieremo arte africana”,
dissi, “visto che ha avuto un influsso sull’arte dell’America. Studieremo
storia e letteratura americana, cosa che non si può fare senza studiare la
cultura afroamericana, dal momento che, sul piano culturale, tutti gli
americani sono neri, oltre a essere bianchi, indiani d’America, asiatici,
eccetera”. Non servì a niente. Non ce ne fu neanche uno che chiese di essere
ammesso al corso.
Nuove tattiche
Qualche giorno dopo, Lynette Lauretig organizzò una riunione con alcuni membri
del suo staff di The Door. Ci trovammo in disaccordo sul corso: loro ritenevano
che il livello dell’insegnamento dovesse essere molto più basso.
Non riuscii a fargli cambiare idea, ma accettarono
ugualmente di mettere insieme un gruppo di ragazzi del loro programma che
probabilmente erano interessati allo studio dei classici.
Un tardo pomeriggio di quella stessa settimana, doveva
tenersi in un’aula di The Door un incontro con una ventina di possibili
candidati. La maggioranza arrivò in ritardo. I primi a presentarsi si sedettero
sbracati a fissare il pavimento o mi lanciarono sguardi imbronciati. Qualcuno
mangiava caramelle o quelli che sembravano gli avanzi di un pasto. Erano quasi
tutti neri e ispanici, salvo un asiatico e cinque bianchi, fra cui due
immigranti che avevano seri problemi con l’inglese. Quando mi presentai, molti
studenti non vollero neanche darmi la mano, due o tre si rifiutarono persino di
guardarmi, una ragazza ridacchiò, e l’ultimo che mi disse spontaneamente come
si chiamava – un giovanotto con una felpa e il berretto storto – fece in tono
strascicato: “Henry Jones, ma mi chiamano Sleepy, perché con questi occhi
sembro sempre assonnato…”. “In aula la chiameremo signor Jones”. Lui sorrise e
affondò nella sua sedia fino ad avere la schiena parallela al pavimento.
Prima che avessi finito di tentare di stringere la mano ai
possibili studenti, una ragazza asiatica dall’aria smarrita, con la bocca piena
di torta, disse: “Possiamo andare avanti? Comincio ad annoiarmi!”. Quel gruppo
mi fu subito simpatico.
Visto che mi era andata male nel South Bronx, decisi di
usare con i nuovi candidati un approccio diverso. “Vi hanno imbrogliato”, dissi
loro. “I ricchi studiano i classici; a voi non ve li hanno fatti studiare. Gli
studi umanistici sono un fondamento per andare avanti nel mondo, per pensare,
per imparare a riflettere sul mondo, anziché limitarsi a reagire alle molte
forze che vi aggrediscono. Secondo me, lo studio dei classici è una delle vie
per acquisire una coscienza politica, ma non politica nel senso di votare alle
elezioni: politica in senso più ampio”. E ripetei loro la definizione di
politica data da Tucidide.
“La politica
in quel senso, i ricchi la conoscono; sanno trattare anziché usare la forza.
Sanno servirsi della politica per andare avanti, per conquistare il potere.
Questo non significa che i ricchi siano buoni e i poveri cattivi. Significa
semplicemente che i ricchi conoscono un metodo più efficace per vivere in
questa società.
“Forse che
tutti i ricchi, o tutti quelli delle classi medie, conoscono le materie
umanistiche? Neanche per sogno. Ma alcuni sì. E questo serve. Serve a vivere
meglio e a godersi di più la vita. Allora, studiare i classici vi renderà
ricchi? Certo. Senz’altro. Ma non di quattrini: di vita.
“I ricchi
studiano i classici in scuole private e in università che costano un sacco. E
questo è uno dei modi in cui imparano che cos’è la vita politica. Secondo me,
nel nostro paese è questa la vera differenza fra avere e non avere. Se uno
vuole il potere vero, legittimo, quello che viene dalla gente e appartiene alla
gente, deve capire la politica. E studiare i classici aiuta a farlo.
“La cosa
funziona così: noi vi pagheremo il biglietto della metropolitana; ci occuperemo
dei vostri figli, se ne avete; vi offriremo uno spuntino o un panino; vi daremo
gratis i libri e gli altri materiali di cui potete aver bisogno. Ma in cambio
vi faremo pensare di più, vi faremo usare il cervello a pieno regime, più di
quanto vi sia mai capitato. Dovrete leggere e pensare le stesse idee con cui vi
trovereste a fare i conti al primo anno di corso a Harvard, a Yale o a Oxford.
“Dovrete
venire in aula con la neve, con la pioggia, che faccia freddo o che faccia
buio. Nessuno vi coccolerà, nessuno andrà più piano per consentirvi di seguire.
Dovrete sostenere dei test e scrivere delle tesine. E io non posso promettervi
nient’altro, alla fine del corso, che un attestato. Prenderò contatto con dei
college per vedere se sono disposti a riconoscere questo corso in vista di una
vostra possibile iscrizione, ma non posso promettervi niente. Se frequentate il
nostro corso, dovete farlo perché volete studiare i classici, perché volete un
certo tipo di vita, una ricchezza della mente e dello spirito. Ecco tutto
quello che ho da offrirvi: filosofia, poesia, storia dell’arte, logica,
retorica e storia americana.
“I vostri
docenti saranno tutte persone che si sono distinte nel loro campo”, aggiunsi, e
raccontai qualcosa a proposito di ciascun collega. “Questo è il corso. Da
ottobre a fine maggio, con due settimane di vacanza per Natale. In America è
generalmente accettato che le discipline umanistiche appartengano alle élite.
Secondo me, le élite siete voi”. A quel punto la ragazza asiatica disse: “Ma a
voi, che ve ne viene?”. “Questo è un progetto pilota. Sto scrivendo un libro, e
il corso dimostrerà, spero, la mia idea sugli studi umanistici. Il suo successo
o il suo fallimento dipendono dai docenti e da voi”. Si iscrissero tutti tranne
uno.
Ripetei la
nuova presentazione nella sede del Grand Street Settlement e in altri luoghi
della città. Alla fine per i trenta posti del corso c’erano circa cinquanta
candidati. Nel frattempo, quasi tutti i miei tentativi di raccogliere fondi
erano risultati vani. L’esperimento ottenne un appoggio soltanto dallo
scrittore Starling Lawrence – che è anche caporedattore alla W.W. Norton, la
casa editrice con cui avevo firmato il contratto per pubblicare il mio libro –,
dalla mia casa editrice e da una piccola fondazione familiare privata. Eravamo
ben lontani dal poter coprire le spese previste dal bilancio. Tuttavia, mia
moglie Sylvia e io eravamo del parere che i costi erano molto bassi, e
decidemmo di andare avanti.
La droga e Kant
Abel Lomas divideva un appartamento con un altro e lavorava part time: faceva i
pacchi da Macy’s. Il padre aveva abbandonato la famiglia alla sua nascita, e la
madre era stata uccisa dal patrigno quando Abel aveva tredici anni. Senza
nessuno che lo aiutasse, senza una casa, aveva vissuto per strada, prima in
Florida, poi di nuovo a New York. Si manteneva con la piccola pensione di
reversibilità della madre.
Dopo la
sessione di reclutamento a The Door, salii in macchina con Abel, e mentre da
Canal Street risalivamo Sixth Avenue parlammo di etica. Aveva la parlata tipica
dei duri da strada: sputava fuori le idee in frasi grezze, fatte di quattro,
cinque, otto parole: sfilze di affermazioni brusche senza mai una subordinata
che desse qualche sfumatura ai suoi pensieri. Non sprecava tempo in
chiacchiere, come ci insegna a fare la timidezza, né sprecava fiato con
espressioni di circostanza.
“Che ne
pensi della droga?”, chiese, con la sua curiosa parlata affannosa resa ancor
più roca dall’accento dominicano. “Ho un cugino che fa lo spacciatore”. “Ho
visto un sacco di gente rovinata dalla droga”. “Già, ma se i tuoi non hanno
niente da mangiare, ti metti a vendere droga. Che cosa è peggio: lasciar morire
di fame i tuoi o spacciare?”. “D’accordo, ma fame e tossicodipendenza sono
tutte e due cose brutte, no?”. “Sì”, disse. Non “già”, e neppure “hmm-mm”, ma
un “sì” preciso, quasi formale. “Allora si tratta di capire qual è il peggiore
di due mali. E come si fa a decidere?”.
La domanda
arrivò all’altezza della Trentaquattresima, dove Sixth Avenue resta paralizzata
da un traffico diabolico fino a tarda notte. I clacson suonavano, la gente
sciamava controluce per la strada.
Mentre
oltrepassavamo Herald Square e riprendevamo a procedere verso nord, io dissi:
“Ci sono diversi modi di guardare la questione. Uno l’ha proposto Immanuel
Kant, che diceva di non fare nulla che non si desideri veder diventare legge
universale; insomma, si deve fare solo quello che pensiamo dovrebbero fare
tutti. Quindi, Kant non sarebbe d’accordo a vendere droga, ma neanche a lasciar
morire di fame i propri cari”. Ancora una volta, rispose con un “sì” formale.
“Poi c’è un
altro modo di vedere la cosa, cioè chiedersi quale sia il bene più grande per
il maggior numero di persone: in questo caso, impedire ai propri cari di morire
di fame o impedire a decine, forse a centinaia di persone di perdere la vita
per colpa della droga. E allora, qual è il bene più grande per il maggior
numero di persone?”. “È come dico io”, disse. “Cioè?”. “Che non si deve vendere
droga. Si può sempre trovare da mangiare. Con i sussidi, o in qualche altro
modo”. “Sei un kantiano”. “Sì”. “Ma lo sai chi è Kant?”. “Credo di sì”.
Eravamo
arrivati alla Settantasettesima, e prima che io svoltassi verso est lui scese
per prendere il metrò. Quando aprì la portiera e si accese la luce interna
della macchina, mi colpì il suo stile quasi militare. Aveva i capelli tagliati
di fresco, come un cadetto dell’accademia. I suoi abiti erano puliti e senza
una grinza. Era un orfano, e un perfetto ragazzo di strada. Di lì a poche
settimane avrebbe compiuto diciannove anni, i sussidi previdenziali sarebbero
finiti, e lui sarebbe dovuto andare ad abitare in un centro accoglienza.
Alcuni di
coloro che si presentarono al colloquio preliminare erano troppo poveri. Quando
cominciammo, non lo credevo possibile, e anche adesso non vorrei crederlo: ma
era vero. C’è un punto in cui il livello delle forze che accerchiano i poveri
può diventare insormontabile: quando non resta più il tempo o l’energia per
essere altro che poveri. Nella maggior parte dei casi, non riuscii a iscrivere
quelle persone, e quando vi riuscii, ben presto furono costrette ad abbandonare
gli studi.
Via via che
i colloqui procedevano, prese lentamente corpo una classe. Allora non potevo
immaginare chi sarebbe riuscito ad arrivare alla fine dell’anno e chi no. Una
giovane donna presentò una tesina ordinatamente battuta a macchina che diceva:
“Un tempo ero una senzatetto, poi ho vissuto all’ospizio per un po’. Adesso il
mio spazio me lo garantisce la Partnership for the Homeless. Adesso vivo da
sola e i miei mezzi sono molto limitati. Finanziariamente, sono oppressa dai
debiti. Non posso permettermi di mangiare quanto dovrei…”.
Due
fratelli, maschio e femmina, profughi di Tashkent, abitavano con i genitori ai
margini estremi di Queens, molto oltre il capolinea del metrò. Non avevano
soldi e tutte le scuole a cui avevano fatto domanda gli avevano rifiutato
l’iscrizione. Inizialmente mi ero proposto di non accettare immigranti né
persone che avevano difficoltà con l’inglese, ma quei due li accolsi nel corso.
Accolsi anche quattro studenti che erano stati in galera, tre che erano
senzatetto, tre donne incinte, una che per effetto della droga viveva in uno
stato di quasi sonnambulismo – durante il quale era stata violentata – e uno
che conoscevo da tempo e che stava morendo di Aids.
Ascoltandoli,
mi chiesi che effetto avrebbe fatto loro seguire il corso. Perché mai avrebbero
dovuto interessarsi alla pittura italiana del Quattordicesimo secolo, alle
tavole di verità o alla morte di Socrate?
Tra la fine
della fase di reclutamento e la sessione di orientamento che avrebbe aperto il
corso, andai in visita a Bedford Hills per parlare con Niecie Walker. Faceva
caldo, e il viaggio in macchina dalla città era stato penoso. Ancora non
conoscevo Niecie molto bene. Lei non si fidava di me e io non sapevo che cosa
pensare di lei. Mentre parlavamo, teneva in mano un’enorme pillola bianca. “Per
l’Aids”, disse. “Stai male?”. “I miei linfociti T sono calati, ma non sto né
bene né male. Parlami del corso, Earl. Che cosa insegnerai?”. “Filosofia
morale”. “E che si studia?”.
Aveva
trasformato la visita in un interrogatorio. La cosa non mi infastidiva. Al
termine del colloquio io sarei tornato nel “mondo libero”; se lei voleva che il
nostro incontro fosse un interrogatorio, non intendevo contraddirla. Dissi:
“Cominceremo con Platone: l’Apologia, un po’
di Critone, qualche pagina del Fedone, in modo che sappiano che cosa è capitato a
Socrate. Poi leggeremo l’Etica nicomachea di
Aristotele. Poi voglio che leggano Tucidide, in particolare l’orazione funebre
di Pericle, per fare un collegamento fra etica e politica, per condurli nella
direzione in cui spero che li porti il corso. Finiremo con l’Antigone, ma letta come filosofia morale e politica,
oltre che come tragedia”.
“Manca
qualcosa”, disse lei, adagiandosi all’indietro nella sedia con un’aria di
superiorità. Il viaggio in macchina era stato lungo, la giornata era calda,
l’aria nella stanza era stantia e umida. “Ah sì?”, dissi. “E che sarebbe?”.
“L’allegoria della caverna di Platone. Come fai a insegnare filosofia ai poveri
senza l’allegoria della caverna? Il ghetto è la caverna. L’istruzione è la
luce. Questo, i poveri lo capiscono”.
La scoperta della caverna
Una settimana dopo, all’inizio dell’incontro di orientamento, ogni docente
parlò per uno o due minuti. Il dottor Inclán e la sua assistente per le
ricerche, Patricia Vargas, distribuirono un questionario concepito per misurare
il ruolo della forza e il livello di riflessione presenti nella vita degli
studenti. Spiegai che ciascuna lezione sarebbe stata ripresa da una
videocamera: un modo in più per documentare il progetto. Infine assegnai il
primo compito a casa: “Per preparare il nostro prossimo incontro, vorrei che
leggeste un breve passo dalla Repubblica di
Platone: l’allegoria della caverna”.
Cercai di
indovinare quanti studenti si sarebbero ripresentati per la prima lezione.
Speravo fossero venti, me ne aspettavo quindici e temevo che potessero essere
dieci. Insieme a Sylvia, che aveva accettato di assumersi parte dei compiti
amministrativi del corso, preparammo caffè e biscotti per venticinque.
Riempimmo di tessere del metrò un contenitore di plastica.
Alle sei
c’erano soltanto dieci studenti seduti attorno al lungo tavolo, ma alle sei e
un quarto il numero era raddoppiato, e qualche minuto più tardi ne entrarono
altri due dalla strada ormai immersa nel crepuscolo. Avevo tracciato sulla
lavagna una linea per illustrare il progresso del pensiero attraverso il tempo,
dal ruolo del mito nelle società neolitiche all’Epopea di Gilgamesh, per
arrivare al Vecchio Testamento, a Confucio, ai Greci, al Nuovo Testamento, al
Corano, all’Epopea di Son-Jara, per finire con poesie nahuatl e maya, che ci
portarono al contatto fra Europa e America, dove aveva inizio il corso di
storia.
La linea del
tempo serviva da contesto e da geografia, oltre che da storia: non vi era razza
o grande cultura che venisse trascurata. “Mettiamoci d’accordo su un punto”,
dissi loro, “siamo tutti esseri umani, indipendentemente dalle nostre origini.
E adesso, entriamo nella caverna di Platone”.
Dissi loro
che nella sezione filosofia del corso non ci sarebbero state lezioni: avremmo
usato il metodo socratico, il cosiddetto dialogo maieutico. “‘Maieutico’ viene
da una parola greca che significa ‘levatrice’. Nel nostro dialogo, io assumerò
il ruolo di una levatrice. Ora, che cosa voglio dire? Che fa la levatrice?”.
Fu l’inizio
di una storia d’amore, l’istante iniziale della loro infatuazione per Socrate.
In seguito, Abel Lomas avrebbe descritto quell’istante nel suo tipico stile
senza fronzoli, dicendo che era stata la prima volta che qualcuno faceva caso
alle loro opinioni.
Grace Glueck
inaugurò il corso di storia dell’arte in una stanza buia illuminata dalle
diapositive della caverna di Lascaux, poi portò l’attenzione degli studenti
sull’Egitto, organizzando una visita al Metropolitan Museum of Art per vedere
il tempio di Dendur e le gallerie degli egizi.
Arrivarono
al museo un venerdì sera. Darlene Codd si portò dietro il suo bambino di due
anni. Pearl Lau arrivò come al solito in ritardo. Uno degli studenti, che non
vedeva l’ora – così mi aveva detto – di andare a visitare il museo, non si fece
vivo, e la cosa mi stupì. Seppi in seguito che era stato arrestato perché
venendo al museo aveva saltato il cancello dei biglietti nella stazione del
metrò, e ora si trovava in prigione, a disposizione del tribunale penale di
Brooklyn.
Verso la
fine della serata, Grace fece uscire gli studenti dalle sale dell’antichità e
li condusse nell’ala Rockefeller, dove parlò dei rapporti fra cultura e arte
nel Mali, nel Benin e nelle isole del Pacifico. Quando gli studenti, ritirati i
soprabiti, si riunirono vicino all’ingresso del museo, preparandosi ad andar
via, Samantha – una ragazza alta, magra, che portava un berretto da cacciatore
e un giaccone blu scuro da marinaio – si tirò da parte. Poi ci salutò agitando
la mano in modo esagerato, e tornò dentro le gallerie egizie.
Il poeta e il professore
Charles Simmons cominciò il corso di poesia presentando versi sotto forma di
indovinello e di barzelletta. Si era proposto di stupire gli studenti, e ci
riuscì. Dapprima lesse loro le poesie ad alta voce, interrompendosi per fare
delle chiose che li aiutassero a seguire. Mostrò loro poesie d’amore e di
seduzione, e commenti satirici su quelle stesse poesie fatti da altri poeti in
epoche successive. Gli studenti gli chiedevano: “Leggiamo?”, ma Charles rifiutava.
Voleva allettarli con l’opportunità di leggere dei versi ad alta voce. Fra lui
e gli studenti cominciò così un braccio di ferro, che si concluse non per opera
sua, bensì grazie a Hector Anderson. Quando Charles chiese se in aula c’era
qualcuno che scriveva poesie, Hector alzò la mano.
“Ci puoi
recitare una delle tue poesie?”, disse Charles. Fino a quel momento Hector non
era mai intervenuto spontaneamente, anche se quando era interrogato parlava
bene e faceva osservazioni intelligenti. Preferiva starsene sbracato sulla
sedia, vestito da capo a piedi con indumenti mimetici, mangiando fette di
melone fresco. In risposta alla domanda di Charles, Hector si tirò su a sedere.
“Se spegne quella videocamera”, disse. “Non voglio che nessuno usi i miei
versi”. Quando fu ben certo che la spia rossa era spenta, Hector si alzò in
piedi e recitò verso dopo verso una poesia che si sarebbe potuta collocare
all’interno di un triangolo ideale formato da Urlo di Allen
Ginsberg, il Libro delle Lamentazioni e
l’hip-hop. Quando Charles e gli altri studenti ebbero finito di applaudire,
chiesero a Hector di recitarla di nuovo, e lui li accontentò. In seguito,
Charles mi disse: “Quel ragazzo è un fenomeno”. Il disagio che Hector provava
in presenza mia e di Sylvia si trasformò in familiarità: venne a casa nostra
per un piccolo party di Natale e in altre occasioni. Come studente, cominciò in
silenzio, quasi in segreto, a superare molti dei suoi compagni di classe.
Timothy
Koranda era, fra i professori, il più professorale. Durante le ore del corso
insegnava logica e copriva di disegni ogni millimetro di lavagna, dal pavimento
al soffitto: qui l’intersezione fra più insiemi, là le tavole di verità, nel
mezzo un grande quadrato con tante opposizioni. Dopo la lezione, camminava fino
alla fermata del metrò con gli studenti, chiacchierando di zen, di logica o di
Heisenberg.
In una delle
serate più fredde di quell’inverno, presentò ai suoi allievi alcuni problemi
logici espressi in linguaggio comune, che si potevano risolvere risolvendo le frasi
in forma simbolica. Distribuì le fotocopie di un problema lungo due pagine, poi
scrisse alcune delle frasi più importanti alla lavagna. “Portatevelo a casa”,
disse, “e la prossima volta vedremo chi lo ha risolto. Anch’io cercherò di
trovare la risposta”.
Ma prima
ancora che terminasse di scrivere le frasi chiave, David Iskhakov alzò la mano.
Pur essendo attentissimi in classe, né David né sua sorella Susana
intervenivano spesso. Lei era timida, e lui imbarazzato di non parlare un
inglese perfetto.
“Posso
antare a lavagna?”, disse David. “Così tu vede se io trovato risposta giusta di
kvesto proplema”. Tim e David cancellarono insieme la lavagna, poi David
cominciò a ricoprirla di segni e di simboli. “Se primo zignore guadagna kvesti
soldi, e secondo signore è più vicino a kvesta città…”, disse ponendo le
premesse con cura. In capo a circa cinque minuti, concluse: “Risposta è: B
arriva Cleveland per primo!”. Samantha Smoot esclamò: “Ma la risposta non è
questa! Hai fatto un errore nella prima parte, lì, dove dice chi guadagna di
più”. Tim li osservava soddisfatto, le braccia conserte. “Vi farò portare il
problema a casa”, disse.
Quella sera,
all’uscita del Clemente Center, Sylvia e io trovammo un grappolo di studenti
che discutevano animatamente cercando di ripararsi l’un l’altro dal vento.
Aveva cominciato a cadere la neve, una polvere che ti faceva scivolare sul
ghiaccio grigio che ricopriva tutto, salvo una striscia stretta al centro del
marciapiedi. Al centro del gruppo c’erano Samantha e David, che stavano ancora
litigando sulla soluzione del problema. Mi sporsi per cercare di cogliere la
natura della discussione. Sembravano ancora più cortesi che in aula, perché
adesso si governavano da soli.
Un problema per Socrate
Un sabato mattina, in gennaio, mi telefonò a casa David Howell. “Signor
Shores”, fece, anglicizzando il mio nome come facevano tanti studenti.
“Signor
Howell!”, risposi quando riconobbi la sua voce. “Come sta, signor Shores?”. “Io
bene. E lei?”. “Ho avuto un piccolo problema in ufficio”.
Aha, pensai
io: brutte notizie in arrivo. David è un giovanottone, generalmente affabile,
ma con un carattere piuttosto focoso. Secondo sua madre, in passato aveva avuto
dei comportamenti violenti. In classe era stato uno degli studenti migliori, un
ragazzo tranquillo, di ventiquattro anni, che faceva sempre le letture a casa e
proponeva spesso interessanti collegamenti fra le materie umanistiche e la vita
quotidiana. “Che cosa è successo?”.
“Signor Shores, in ufficio da me c’è una
donna. Un giorno, lei mi ha detto delle cose e io le ho detto delle cose. Lei è
andata dal capufficio a dire che le avevo detto quelle cose, e lui mi ha fatto
chiamare per darmi una lavata di capo. Lei ha quarant’anni e la sua vita
sociale è inesistente, mentre io ho una vita sociale molto attiva, e lei è
gelosa di me”. “E allora?”. Il tono della sua voce e il giorno che aveva scelto
per telefonarmi non lasciavano presagire nulla di buono. “Signor Shores, mi ha
fatto arrabbiare al punto che avrei avuto voglia di sbatterla al muro. Ho
cercato di parlare con qualche amico per calmarmi un po’, ma non c’era
nessuno”. “E tu che hai fatto?”, chiesi, nel timore che mi stesse telefonando
dalla guardina. “Io, signor Shores, mi sono chiesto: che cosa farebbe
Socrate?”. Ragionando, David Howell aveva concluso che, in fondo, la gelosia
della sua collega non era affar suo, e si era fatto passare l’arrabbiatura. Una
sera, durante una lezione di storia americana, stavo parlando agli studenti
delle idee che Gordon Wood espone in The Radicalism of the American
Revolution. Discutevamo della ribellione di alcuni intellettuali
contro gli studi classici all’inizio del Diciottesimo secolo. Avevo appena accennato
al fatto che Benjamin Franklin aveva cambiato idea in età avanzata, quando
Henry Jones alzò la mano.
“Se i Padri
fondatori amavano tanto le materie umanistiche, come mai hanno trattato così
male gli indiani?”. A quella domanda non sapevo rispondere. Del mutato
atteggiamento nei confronti degli indigeni d’America si potevano proporre
spiegazioni così diverse da creare confusione; forse poteva risultare vagamente
utile qualche riferimento alla posizione di Rousseau o di James Fenimore
Cooper. Per un attimo mi chiesi se dovevo parlare agli studenti dei trascorsi
nazisti di Heidegger. Poi mi accorsi che Abel Lomas, seduto all’estremità
opposta del tavolo, aveva alzato anche lui la mano. “Sì, signor Lomas?”, dissi.
Abel
cominciò: “È quello che intende Aristotele quando parla di intemperanza: sai
che una cosa è moralmente giusta ma non la fai perché sei sopraffatto dalle
passioni”. Gli altri studenti annuirono. Tutti quanti avevano ereditato le
ferite causate dall’intemperanza di uomini istruiti; adesso avevano un alleato
in Aristotele, che gli aveva offerto un modo di analizzare le azioni dei loro
antagonisti.
Chi conosce
la storia antica comprende la radicalità delle discipline umanistiche. Sa che
la politica non è nata in un mondo perfetto, bensì in una società ancora più
imperfetta della nostra, una società che accettava la schiavitù, negava i
diritti delle donne, praticava una forma di omosessualità che sfiorava la
pedofilia e sopportava gli intrighi e la corruzione dei suoi dirigenti. Il
genio di quella società nasceva dal fatto che l’uomo poteva ricreare se stesso
attraverso il riconoscimento della propria umanità espressa nell’arte, nella
letteratura, nella retorica, nella filosofia e nel concetto impareggiabile di
libertà. In quel preciso istante, finiva l’isolamento della vita privata e
cominciava la politica.
Coloro che
vincono al gioco della società moderna, e persino coloro che appartengono per
censo al ceto medio, dispongono di altri mezzi per conquistare il potere:
questi mezzi li possiedono fin dalla nascita. Loro lo sanno. E sanno
esattamente che cosa fare per proteggere il loro posto nella gerarchia economica
e sociale. Come ha detto Allan Bloom, autore di un pamphlet in difesa
dell’élitismo – The Closing of American Mind, che è
diventato un best seller su scala nazionale – costoro riservano lo studio delle
discipline umanistiche esclusivamente a quei giovani che “sono stati allevati
fra gli agi e nell’aspettativa di un benessere sempre crescente.
Nell’ultimo
incontro prima della consegna dei diplomi, gli studenti del Clemente Course
dovettero rispondere allo stesso insieme di domande cui avevano risposto nella
sessione di orientamento. Fra ottobre e maggio, uno era morto di Aids, un’altra
aveva abbandonato per via di una gravidanza; c’era chi aveva lasciato per
un’offerta di lavoro, chi per l’anemia, chi per una depressione, chi a causa di
un figlio schizofrenico, chi di altre costrizioni. Tuttavia, dei trenta
studenti inizialmente ammessi al corso, sedici lo avevano portato a termine e
ben quattordici avevano ottenuto dal Bard College il riconoscimento del loro
diploma. Il dottor Inclán era del parere che la loro stima di sé e la loro
capacità di intuire e risolvere problemi fossero aumentate in misura
significativa; il loro uso delle aggressioni verbali come tattica per la
soluzione dei conflitti era notevolmente diminuito. E tutti quanti mostravano
di apprezzare in misura assai maggiore concetti come la benevolenza, la
spiritualità, l’universalismo e il collettivismo.
Auguri da Catone
La frequenza del Clemente Course costava circa duemila dollari a studente: a
paragone della disoccupazione, dei sussidi o della galera, gli studi classici
sono un affare. Ma entrare in possesso della facoltà di riflettere e della
capacità di pensare in termini politici pone i poveri di fronte a una scelta, e
qualsiasi cosa scelgano, ormai sono un pericolo: potrebbero usare la politica
per farsi strada in una società fondata sul gioco; potrebbero usarla per
sfuggire all’accerchiamento della forza e regalarsi una vita meno dura, e
comportarsi semplicemente da cittadini; oppure, potrebbero scegliere di opporsi
al gioco.
Nessuno può
prevedere gli effetti della politica, anche se a tutti noi piacerebbe pensare
che siamo sempre accompagnati dalla saggezza. Ecco perché i poveri vengono
tanto spesso mobilitati, ma sono così raramente politicizzati. Non si può mai
escludere la possibilità che essi adottino un punto di vista morale diverso da
quello dei loro mentori. E chi se la sente di correre questo rischio?
La sera
della consegna dei primi diplomi del Clemente Course, gli studenti e i
familiari occuparono tutte le ottantacinque sedie che avevamo stipato nella
sala conferenze dove si erano tenute le lezioni. Robert Martin, il vicepreside
del Bard College, lesse ad alta voce i nomi dei diplomati, e l’ex sindaco di
New York, David Dinkins, consegnò i diplomi. Si tennero discorsi e furono
scambiati doni: gli studenti mi regalarono una targa su cui spiccava il mio
nome, scritto sbagliato. Io dissi qualche parola su ciascuno di loro, mi
congratulai con tutti e alla fine dissi: “Ecco il mio augurio per voi: possiate
non essere mai più attivi di quando non state facendo niente…”. Dai loro
sorrisi, capii che avevano riconosciuto le parole di Catone che avevo scritto
sulla lavagna durante il corso. E ricordarono anche il momento in cui eravamo
arrivati alla soluzione di quel giallo abilmente costruito che è l’Etica nicomachea di Aristotele: è nella vita
contemplativa che l’uomo diviene più simile a Dio. Uno o due studenti, forse
anche di più, chiusero gli occhi. Nel silenzio calato momentaneamente in sala
era possibile pensare.
Nel giugno
del 1997 il Clemente Course in the Humanities è arrivato alla fine del suo
secondo anno. Si erano iscritti ventotto nuovi studenti, e quattordici si sono
diplomati. Un’altra versione del corso comincerà quest’autunno nello Yucatán,
in Messico, dove si studierà letteratura classica maya in lingua originale.
Il 14 maggio
1997 Viniece Walker si è presentata per la seconda volta davanti alla
commissione incaricata di concedere la libertà condizionata. Aveva scontato
oltre dieci anni della sua condanna, ed era stata la migliore dei reclusi. In
una versione del Clemente Course che si era tenuta in carcere, mi aveva fatto
da assistente. Dopo una breve udienza, la sua richiesta di libertà condizionata
è stata respinta. Dovrà scontare altri due anni prima che la commissione
riesamini il suo caso.
Un anno dopo
il diploma, dieci dei primi sedici diplomati del corso frequentavano corsi
universitari quadriennali oppure la scuola per infermieri, e quattro di loro
avevano ricevuto una borsa di studio per frequentare il Bard College. Gli altri
diplomati frequentavano community college oppure avevano un lavoro a tempo
pieno. Tranne una, che era stata licenziata dal fast food dove lavorava per
aver tentato di fondare un sindacato.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Earl Shorris (1934-2012) era un collaboratore di Harper’s Magazine. Nel
1995 aveva fondato il Clemente course for the humanities, un programma
accademico di dieci mesi progettato per fornire corsi di letteratura e
filosofia a livello universitario a studenti a basso reddito di New York.
In questo saggio apparso su Harper’s Magazine raccontava i primi
due anni del programma.
Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 1998 nel numero 227 di Internazionale.
Nessun commento:
Posta un commento