martedì 11 maggio 2021

Che fine hanno fatto i rohingya? - Stefano Romano

 


 

Negli ultimi anni il fotografo Stefano Romano ha intervistato decine di famiglie rohingya rifugiate in Malesia, dove come fantasmi vivono ai margini della società, senza possibilità di accedere a istruzione e sanità pubblica.


“Lasciamo che anche loro camminino sulla terra.

Su questa nostra madre terra

Cresceranno sempre di più.

Se non riusciamo a garantire loro il ritorno,

Lasciamo che si diffondano su qualsiasi riva “.

Mohammad Nurul Huda, da “Rohingyas”

 

“Irohingya sono una minoranza prevalentemente musulmana dello stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale. Contano circa un milione di persone, ma le leggi approvate negli anni ’80 li hanno effettivamente privati della cittadinanza birmana. La violenza è esplosa in Myanmar il 25 agosto dopo che una fazione di militanti rohingya ha attaccato postazioni di polizia, uccidendo 12 membri delle forze di sicurezza del Myanmar. Le autorità del Myanmar, in luoghi sostenuti da gruppi di buddisti, hanno lanciato una repressione, attaccando villaggi rohingya e case in fiamme. Secondo l’UNHCR, il 28 settembre il numero di rohingya che successivamente sono fuggiti dal Myanmar per il Bangladesh ha raggiunto i 500.000”. In questo modo i rohingya venivano descritti nella sinossi introduttiva del World Press Photo alle fotografie che fecero conoscere questa tragedia al mondo. Era il 2018.

La comunità internazionale iniziava a conoscere le cifre e l’orrore di questo genocidio. Poi si sarebbe alzata una voce di protesta contro il premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, allora a capo del paese. La si accusava di tacere davanti allo sterminio, spalleggiata al potere dall’esercito che, del genocidio, ne era l’esecutore. Suona ironico, adesso, vederla destituita con un colpo di Stato perpetuato proprio dall’esercito del Myanmar.

Va detto che già nel 2014 Shaihdul Alam, il fotografo più famoso del Bangladesh, aveva fotografato le navi abbandonate dai ronhingya sulle spiagge della Malesia. Lo stesso aveva fatto nel 2016 documentando l’arrivo dei rifugiati nel distretto di Teknaf a Cox’s Bazar, prima che venissero accolti nel campo profughi. A tal proposito si veda il suo ultimo libro, The Tide Will Turn (Vijay Prashad, 2020).

Sta di fatto che, come tutte le cose, la tragedia di questo popolo vortica impetuosa come un mulinello d’aria sulla sabbia, per poi disperdersi e svanire in poco tempo. Chi non ha voce per urlare il proprio dolore cade velocemente nel disinteresse.

Una persecuzione vecchia almeno 237 anni

Se quella dei rohingya è una tragedia che abbiamo iniziato a conoscere in anni recenti, la sua storia ha radici molto antiche. Non è vero che la persecuzione sia iniziata negli anni Ottanta, come viene riportato spesso. Già nel 1784 l’esercito birmano iniziò ad uccidere i rohingya, quando il re birmano Bodawpaya conquistò Arakan. E non solamente loro, a dimostrazione che il problema va oltre l’essere di fede islamica: tra le minoranze etniche perseguitate ci sono anche i chin, i kayah, i mon e altri ancora.

Il Myanmar è un paese misterioso e tormentato, che ha cambiato nome (da Birmania, nel 1989) e tre diversi dominanti, passando dagli inglesi ai giapponesi fino all’esercito militare. Tutto pare iniziare con le vicende di Shaha Shuja, secondo figlio dell’imperatore Mughal che dominava tutto il Bengal. A causa di tradimenti e conflitti per la successione al trono, Shah Shuja fu costretto a fuggire dal Bengal e da Chittagong raggiunse Arakan (tuttora questo itinerario è chiamato Shuja Road). Qui fu ospite del Principe musulmano di Arakan Sanda Thudamma, che fu tradito proprio dal discendente del Mughal e che per questo lo uccise. Questa ribellione provocò la reazione tremenda del re Mughal, che lo uccise a sua volta e obbligò alla schiavitù il popolo di Arakan. Fino, praticamente, ai giorni nostri.

 

I rohingya in Malesia

Ho conosciuto le prime famiglie rohingya quando visitai la Malesia nel 2017. Ero ospite di una famosa università del Penang, l’isola al nord della Malesia; fu molto toccante conoscere alcuni dei bambini rohingya ospiti del Penang Peace Learning Center, una struttura fondata da Kamarulzaman Askandar, professore di studi su Peace and Conflict (USM) e coordinatore regionale del Southeast Asian Conflict Studies Network (SEACSN).

Madri rohingya accompagnano le figlie alla scuola del professor Askandar

Lo intervistai per capire più in profondità i vari aspetti del conflitto in Myanmar e la presenza dei rohingya in Malesia. Tra le altre cose, il professore Askandar mi spiegò che secondo lui si trattava senza ombra di dubbio di genocidio e, per questo, il problema riguardava tutti i paesi, che avrebbero dovuto “non solo essere consapevoli, ma anche agire per la risoluzione”. Sul ruolo del suo paese, in cui già allora erano presenti quasi 90mila rifugiati rohingya, Askandar mi aveva spiegato che “nonostante la Malesia non sia un firmatario della convenzione sui rifugiati, ha accolto un gran numero di rifugiati rohingya e permesso allo staff dell’UNHCR di registrarli”. Ribadì che la questione era globale, non solo della Malesia e che andava risolta direttamente in Myanmar. D’altro canto, “la Malesia dovrebbe fare qualcosa per fare pressione sul governo del Myanmar”, “per trattarli umanamente, per dare loro la vita sociale e politica che realmente richiedono e che dovrebbero avere”…

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