Piazza dei Mirti, periferia est di Roma. Una debolissima pioggia accompagna l’incontro con Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio che ha recentemente scritto un libro singolare e di rara onestà intellettuale, “La razza zingara. Dai campi nomadi ai villaggi attrezzati: lo scarto umano in 25 anni di storia”. Stasolla si è innamorato di una donna romnì, l’ha sposata, con lei ha diviso la vita nei campi, sgombero dopo sgombero in una via crucis durata decenni durante la quale è riuscito a laurearsi, studiando nella piccola roulotte della sua famiglia. Oggi anima l’associazione 21 luglio.
Ma non è tanto la sua storia personale ad interessarmi. Quanto le cose che ha
scritto. La prima domanda che mi ero preparata (“Perché è così difficile capire
quella cultura?”) non la farò. Mi accorgo subito che è sbagliata. “Non esiste
una cultura rom, ne esistono almeno
ventidue – dice – come non esiste una cultura italiana. Un altoatesino e un
cagliaritano condividono l’identica cultura? Mangiano gli stessi cibi? Hanno lo
stesso rapporto con la natura? La cultura rom non è che uno stereotipo”.
Ma la lingua? La lingua è comune.
“Niente affatto. Tra quelle ventidue culture ci sono
persone che non parlano affatto romanés, o addirittura non lo capiscono. E poi
non esiste un solo romanés. Anche tra chi lo parla le differenze dovute alla
provenienza sono molto forti, e molti fanno fatica a capirsi. L’idea, veicolata
da qualche associazione, che chi viveva nei campi faceva parte di una nazione
con storia lingua e cultura omogenee, era una menzogna. O meglio, l’abbaglio di
qualcuno ripetuto e rinforzato che è diventato man mano una valanga. Da qui
nasce la narrazione sui rom e
sui campi nomadi”.
Eppure negli anni ’70-80 si sosteneva
che erano popolazioni diverse, che avevano bisogno di vivere in piccoli campi,
spostandosi spesso, perché non avrebbero voluto vivere in case.
“Non è così. Basti pensare che in Italia solo 28.000
persone, per lo più provenienti dalla ex Jugoslavia, vivono nei campi, su
180.000 appartenenti alle comunità rom.
Gli altri, attuando a volte qualche strategia di mimetizzazione, vivono in
case. Chi vive nei campi è semplicemente un deprivato di diritti, un profugo di
guerra. Ma la generalizzazione di chi parla di diversità culturale nasconde la
volontà di trattare diversamente quelle persone. Che, ripeto, sono profughe.
Basta guardare cosa è successo a Bologna, unica città ad aver trattato chi
cercava rifugio dalla guerra come un profugo. Furono requisite 43 caserme, le
persone hanno avuto documenti di riconoscimento, hanno partecipato a percorsi
di inclusione come in altre città europee. Oggi vivono tutti in case, cittadini
tra cittadini. E’ stata data loro una buona opportunità, sono cambiati i
percorsi”.
Dunque i rom non esistono.
“E’ un’etichetta. E non si tratta solo di linguaggio,
di politicamente corretto. Perché, innanzitutto, è impossibile fare censimenti
etnici. Chi sarebbe rom? Il
figlio di un matrimonio misto come si classifica? E se un fratello dichiara di
essere nomade e l’altro
italiano? L’etichetta etnica è irrilevante e inutile, e non fa che perpetuare
uno stigma. Se una persona è in fuga dalla guerra, è un profugo. Se vive in
baracca, è un baraccato o un senza tetto. Se viene segregato o colpito
dall’antiziganismo è una persona discriminata.
Non esistono criteri oggettivi per determinare chi sia rom e
chi non lo sia. Esistono paesi in cui i rom sono
riconosciuti come minoranza e altri in cui non lo sono; non tutti coloro che si
autodefiniscono o sono definiti rom parlano la stessa lingua, o condividono una
religione; i gruppi hanno provenienze geografiche diverse, così come diverse
sono le condizioni socio-economiche o i livelli di scolarizzazione o il tasso
di partecipazione alla vita politica”.
E la vostra associazione, la 21 luglio,
non si occupa solo di rom…
“La nostra ragione sociale dice che siamo
un’organizzazione non profit che supporta gruppi e individui in condizione di
segregazione estrema e di discriminazione tutelandone i diritti e promuovendo
il benessere delle bambine e dei bambini. Senza sfumature etniche. Lavoriamo su
periferie urbane, dritti negati. Abbiamo pubblicato una ricerca in
collaborazione con Roma Today: “Non dire rom”.
Un piccolo esperimento sociale: la redazione si è impegnata a non scrivere mai,
se non riportando dichiarazioni di altri, rom o campi nomadi nelle
notizie di cronaca. Ma disoccupato o baraccato, o baraccopoli. La differenza
tra i questionari somministrati all’inizio e alla fine del percorso è stata
notevole. La sottolineatura della situazione sociale ha stemperato i toni
razzisti e antiziganisti. Allo stesso modo le risposte vanno cercate in
politiche di welfare per tutti , e non in anacronistiche politiche etniche”.
Da dove viene il concetto di cultura
rom, rivendicato con orgoglio da una parte di quel popolo?
“Non tutti i rom vivono nei campi. C’è una piccola
fetta di rom italiani, mai
vissuti nei campi, che propaga un nazionalismo identitario forte. E forse ha
intravisto nei sostanziosi stanziamenti europei un’occasione. Penso che
bisognerebbe invece eliminare i progetti sui rom, gli uffici speciali comunali
o regionali: un flusso di finanziamenti, stipendi, carriere. Attorno alla
questione rom c’è un apparato
costoso, ma inutile”.
Quindi, per risolvere la questione…
“Invece di spendere quel notevole flusso di soldi
negli progetti e negli uffici speciali, basta incalanarli nei flussi normali.
Per esempio nelle case popolari. Quasi tutti quelli che vivono nei campi hanno
diritto a una casa popolare. Avendo la volontà di risolvere la questione dei
baraccamenti con canali ordinari, basterebbe un pugno di assistenti sociali e
sei mesi. Molti nelle case popolari già ci vivono: negli ultimi tre anni 600
persone hanno ottenuto senza clamori, e perché ne avevano diritto, una casa
popolare. Un miracolo? Macché, è la scoperta dell’acqua calda”.
Tu hai vissuto, e lo racconti, la
stagione degli sgomberi continui, da Signorello a Raggi. Un tormento con un suo
peso elettorale.
“E’ vero, è stato difficile. Arrivare su uno spiazzo
con la roulotte, non accendere la luce e star svegli tutta la notte per timore
di rappresaglie era duro. Temperato dal fatto che, con la famiglia, avrei
potuto sottrarmi, come poi, in un’altra fase della vita, abbiamo fatto. Abbiamo
pensato che avendo ricevuto tanto dalla comunità, avremmo dovuto restituirlo in
impegno civile. Ma allora avevamo passione e voglia, e la fatica pesava meno.
Strano dirlo, ma è stato il periodo più bello della mia vita. L’ho vissuta con
pienezza, nonostante i momenti dolorosi. So di essere fortunato: non sono sazio
di questa vita, ma sono pieno di bei ricordi”.
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