E’ all’ombra delle fosche tragedie globali, che di solito si consumano le tragicommedie italiane. Anch’esse, alle volte, assumono risvolti drammatici (pensiamo alla stagione dello stragismo di Stato durante la guerra fredda), ma il più della volte forme ed esiti delle vicende italiane, si collocano nel campo del grottesco. Come per una vocazione nazionale, o una misteriosa inerzia che spinge in quella direzione. In questo senso, la foto di gruppo sul palco della lobby israelita romana, quello su cui l’intero ceto politico italiano, il 12 maggio, si è arrampicato scompostamente, quasi sgomitando, sotto l’egida della gloriosa bandiera israeliana, è anche una foto d’epoca, a suo modo. Potrebbe finire nei libri di scuola del futuro – di una scuola finalmente matura, formativa e consapevole – nel capitolo sulla crisi italiana di inizio secolo; la didascalia direbbe: questa era la classe dirigente italiana di allora, quelli che governavano insieme e insieme corsero in aiuto del più forte, dell’oppressore, dell’invasore, sorridendo e stringendosi tra loro. Gli studenti del futuro (più attrezzati di quelli odierni) si stupiranno: ma come? Si schierarono tutti dalla parte dell’invasore?
Non potranno
capire, quei ragazzi, come sia stato possibile che, nell’Italia del 2021, la
distruzione di Gaza City, sia stata raccontata a reti unificate come una
proterva aggressione palestinese. Neanche Goebbels nel ’39 ebbe il coraggio di
dire ai tedeschi che la Polonia minacciava la sicurezza della Germania.
Per molti politicanti schierati su quel palco, a Portico d’Ottavia, quel tipo di collocazione è stata assunta in modo inconsapevole, automatico, come fosse una postura naturale. Non è il frutto di una discussione politica, di una riflessione, di una scelta di campo ponderata. E del resto in quali sedi sarebbe potuto maturare un eventuale dibattito? I partiti si sono squagliati e le istituzioni rappresentative sopravvivono come feticcio o simulacro. Questo ceto politico non ha conosciuto altro che quel tipo di posizionamento. E’ gente cresciuta in seno all’ortodossia euro-atlantico-sionista, quella in cui il fascio di interessi denominato “Occidente” non presenta più divaricazioni o alternative al suo interno. E’ un fascio compatto, monocromatico.
Foto
d’epoca, dicevamo, Salvini, Letta, Meloni e vario sottobosco umano, che petto
in fuori impugnano la bandiera bianca e celeste, sotto l’occhio soddisfatto e
ammiccante dei dirigenti della rappresentanza sionista in Italia. Immagini
storiche, a loro modo, in grado di restituire il sapore di un’epoca – tanto
quanto le vecchie foto sgranate degli squadristi in camicia nera, con fez e
pantaloni a sbuffo, testimoni viventi dell’epopea gaglioffa e criminale del
ventennio; o la foto del Presidente Leone che mostra le corna agli studenti,
simbolo di un’Italietta marcia, antica e profonda; o l’istantanea di un Craxi
livido e incredulo, che esce dall’Hotel Raphael sotto una pioggia di monetine,
mentre crollano gli scenari di cartapesta della Prima Repubblica. Foto gallery
antropologica di un paese indecifrabile.
Ah, ecco,
giusto: Bettino Craxi. Qualcuno farà mai leggere a quel timido ectoplasma di
Enrico Letta, il testo del discorso che l’allora presidente del Consiglio
pronunciò alla Camera il 6 novembre del 1985, dopo lo strappo di Sigonella e il
caso Achille Lauro – un discorso in cui il Presidente del Consiglio italiano
rivendicava il diritto alla lotta armata per il popolo palestinese, paragonando
la resistenza araba al nostro Risorgimento? Povero Letta, rimarrebbe a bocca
aperta. Che razza di Italia era? – si chiederebbe allibito l’ectoplasma. Era
un’Italia altrettanto atlantista, guidata da un Presidente del Consiglio
anticomunista, che però qua e là, in politica estera, si prendeva anche la
responsabilità di assumere posizioni autonome: perché alle spalle c’era un’idea
repubblicana di interesse nazionale – evitare che l’Italia diventasse un campo
di battaglia geopolitico, tutelare le linee di approvvigionamento energetico e
le reti di commercio internazionale –, dentro un paese ancora vivo, giovane,
che discuteva (non ossessivamente solo di vaccini), un paese che si divideva,
dibatteva, articolava le sue posizioni. E un ceto politico che allora molti noi
osteggiarono (a morte) ma che oggi giganteggia, davanti all’immagine degli eroi
di Portico d’Ottavia, coraggiosamente schierati dalla parte dei bombardieri.
E quella
foto Letta-Salvini-Meloni, come potremmo chiamarla, per conservarla degnamente
nel pantheon bislacco e vigliacchetto della storia patria? La foto di Portico
D’Ottavia? No, finiremmo per nobilitarla con accostamenti classicheggianti.
Battezziamola piuttosto: foto della Ripresa e Resilienza; si, così,
con la denominazione pomposa che hanno affibbiato al loro piano bipartisan di
distribuzione di soldi pubblici alle lobbies private. I posteri rideranno della
totale incongruenza della didascalia, rispetto alle facce di quella ciurma di
sopravvissuti. Perché si capisce bene che l’unica cosa davvero resiliente è
il caparbio attaccamento di costoro ai brandelli residui del loro potere –
ormai ampiamente commissariato da centri di comando extra-nazionale o
extra-istituzionale.
Hanno voglia
a mettersi in posa. Non rappresentano più niente. Sono solo utili idioti o
sbiadita tappezzeria di quelli che comandano davvero. Nessuno – americani o
israeliani – ha bisogno della loro approvazione. Probabilmente, il criminale di
guerra Netanyahu non ricorda neanche il nome o la faccia di Salvini, nonostante
il piccolo padano esibisca sempre orgoglioso la foto con Bibi. Israele non ha
mai avuto bisogno di alibi democratici: rappresenta l’Occidente e agisce senza
fronzoli e ipocrisie; gli bastano i carri armati le batterie antimissile.
A proposito
di missili: non piacciono a nessuno, e forse non piace neanche Hamas; ma chi ha
un po’ di residua onestà intellettuale deve riconoscere che è solo grazie a
quei missili che esiste ancora una “questione palestinese”. Sono i missili a
tenere aperta la ferita. Fosse per i cantori della pacificazione – quelli che
siedono a Washington, Bruxelles, Riad o al Cairo – l’assimilazione coloniale
delle terre di Palestina sarebbe già compiuta da tempo. Se settant’anni di
resistenza e speranza antisionista, sono ormai affidati a qualche migliaio di
Qassam, la colpa non è dei palestinesi, ma dei traditori d’Oriente e
d’Occidente che li hanno da tempo condannati a uscire dalla storia.
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