1. Israele è uno Stato criminale. Fondato
su basi teologiche e tenuto in piedi dal terrore, dal colonialismo e dalla
segregazione. Ma questo è noto, sono note le violazioni dei diritti umani, le
occupazioni illegali di terre e di case, gli arresti di bambini, le fucilate
sui contadini e gli omicidi mirati all’estero. Come non è nuovo che il concetto
di guerra sviluppato nelle stanze dell’esercito “di difesa” israeliano non
presuppone il coinvolgimento di civili come perdite collaterali, bensì come
obbiettivo esplicito per fiaccare, tramite paura e caos, la resistenza
palestinese (ma possiamo immaginare che non si farebbe problemi a bombardare
famiglie di innocenti anche all’estero).
Quando si guarda alla forma politica e
militare sionista, si guarda all’avanguardia dell’Occidente, laboratorio di
governo sociale securitario che combina produzione massiva di consenso con
articolati dispositivi di contro-insorgenza e di mobilitazione militare
talmente ampia da strabordare oltre ogni confine fino a non poter distinguere
più ambito civile da ambito militare.
Bollarlo di nazismo o di barbarie fine a
se stessa è solo fuorviante, poiché lo limita ad una situazione di
eccezionalità apparentemente irriproducibile, oscurando invece il ruolo oltre
che geopolitico, anche laboratoriale strategico: nella questione
arabo-israeliana vengono messi a regime e verificati esperimenti di governo
propri di un territorio in crisi permanente; che è proprio ciò che l’Occidente
ha davanti a sé come prospettiva e da quel laboratorio trae (o meglio, compra)
strumenti e lezioni per blindare la sua posizione. Quella che è stata definita
più volte democrazia autoritaria ha frequentato
parecchie lezioni in ebraico. La questione
arabo-israeliana non è qualcosa di altro dall’Europa,
è l’eccezione che può serenamente essere norma in un tempo venturo.
2. La violenza che si abbatte ciclicamente
sul popolo palestinese non è solo dettata da inimicizia etno-religiosa, fa
parte in maniera strutturale della nazione ebraica in quanto potenza di
occupazione coloniale; l’intreccio di guerra, politica, nazionalismo e
apartheid fa sì che il conflitto sia anche il materiale che stabilizza ed
influenza i rapporti politici ed elettorali interni. In questo caso, una
manovra che mira a tenere in sella il fragilissimo governo di Netanyahu
puntellato dall’estrema destra. Discorso simile vale anche per il campo palestinese,
dove la resistenza all’occupazione israeliana è il pane migliore per le ormai
decadenti formazioni politiche maggiori, nella contesa per il potere interno,
specialmente a ridosso delle elezioni rinviate, dopo quindici anni in cui non
si sono tenute, proprio a ridosso dell’esplodere delle ostilità. Ma sotto le
contese elettorali esistono le soggettività reali che in questi eventi, volenti
o nolenti, precipitano nell’agire collettivo e determinano alle volte,
imprevisti cambiamenti di rotta.
3. In uno slogan non freschissimo, ma
molto in voga al momento, si dice “non è una guerra, è un genocidio”. In parte
è vero, Israele bombarda le case degli innocenti non solo nei momenti caldi,
pratica la pulizia etnica quotidianamente espellendo gli arabi dai territori
occupati, brutalizzandoli tramite i suoi soldati, relegandoli ai gradini più
bassi della scala sociale, impedendone la mobilità e minandone le
infrastrutture necessarie alla sopravvivenza sociale; questo è fuor di dubbio.
Ma nei giorni attuali, quello a cui si è assistito è effettivamente una guerra,
e non perché i generali di Tzahal si siano dati delle regole minime se non di
buon cuore almeno di diritto internazionale, ma perché da parte palestinese è
scattata una reazione probabilmente non preventivata da alcun attore in campo.
Dopo gli incidenti alla moschea di
Al-Aqsa, l’entrata in campo delle brigate Al-Qassam di Hamas e di quelle
Al-Quds del Movimento per la Jihad Islamica, ha fatto emergere una potenza di
fuoco finora inedita. La mole di ordigni lanciati sulle città israeliane, in
grado di forare lo scudo missilistico aereo IronDome, non era mai stata
utilizzata e segna un passaggio di fase nelle capacità organizzative e militari
delle milizie, così come la precisione d’attacco, puntando a porti, ferrovie e
centrali elettriche ha dimostrato una volontà che esula dalle precedenti
rappresaglie che disarticolano l’uso dello spazio pubblico israeliano, ma punta
a fiaccare ed inibire la capacità di risposta dell’avversario infliggendo danni
ampi alle sue infrastrutture.
È una dialettica bellica che, al netto
delle lampanti disparità in campo, si muove da pari a pari. Quando i giornali
italiani titolano “guerra tra Israele e Hamas” sbagliano. È guerra tra Stato
Israeliano e Nazione Palestinese.
4. Secondo motivi differenti e logiche
simili, per muovere il conflitto, tanto le forze sioniste che quelle arabe
necessitano di un enorme slancio propagandistico per mantenere più ampio e
compatto possibile il blocco di consensi.
Con la paranoide logica da assediato portata avanti da Israele per
decenni, l’ipotesi bellica è un evento a cui la sua popolazione è perennemente
pronta e reattiva, non solo, ne è parte integrante della propria identità
collettiva.
Per ragioni diverse, riassumibili in una
quotidianità fatta di violenza strutturale, da parte palestinese, l’evento
bellico è qualcosa di estremamente familiare ed oltre l’angoscia delle bombe
che cadono, esiste probabilmente la consapevolezza che in quel momento la
possibilità non sia solo quella di ricevere morte ma anche di darla. Per quanto
orribile questo possa sembrare, il grande pensatore martinicano Franz Fanon ha
ben insegnato come stia proprio qui la scintilla della liberazione dal giogo
coloniale. A Israele serve che i suoi cittadini siano stretti a falange a
difesa di se stessi per mantenersi in piedi come potenza, alla Palestina è
necessario che i sentimenti di rabbia e frustrazione diventino motore di
cambiamento alimentati dal martirio collettivo.
Ed ecco che la guerra è tale non solo
perché si stiano confrontando le reciproche forze militari, ma perché ogni uomo
o donna (o bambino, come nel caso del recente video di un bambino ebreo di otto
anni con un fucile d’assalto a tracolla) che respiri è parte della linea del
fronte. I raid aerei e i lanci di razzi sono la parte più visibile di
un’inimicizia belligerante che si combatte strada per strada, casa per casa. In
questa logica si inscrivono i tumulti che hanno visto i palestinesi scontrarsi
con coloni e polizia in ogni città, i rispettivi luoghi di culto assaltati a
più riprese, i pogrom antiarabi, i linciaggi di cittadini isolati da
parte di gruppi avversari; gli attacchi missilistici da oltre confine per
forzare un allargamento del conflitto. Quando l’inimicizia è al suo apice, la
regia dello scontro non sta più nelle camere di un quartier generale, ma è
polverizzata lungo tutto il campo di battaglia.
Altro che soluzione di “due popoli due
stati”, questa è paccottiglia da diplomazia bella e scaduta da un pezzo: questa
inimicizia che oggi è al suo picco massimo, resta attiva perennemente come
inimicizia assoluta e seppure l’unico sbocco possibile sul lungo termine, nella
mente dei generali, è l’eliminazione totale dell’avversario, l’unica soluzione
reale (e mai permanente) sarà politica, non in senso diplomatico ma in senso di
stabilimento di rinnovati rapporti di forza.
A dispetto delle dichiarazioni dei vari
portavoce, questa guerra non la vincerà chi avrà distrutto definitivamente
l’altro ma chi avrà conquistato una forza maggiore una volta cessate le
ostilità.
5. La mobilitazione generale significa lo
sprigionamento di energia sociale, la catalizzazione di processi in nuce o
compressi. Ma quando vengono liberate forze di massa, specialmente in momenti
critici, è difficile stabilire quanto esse resteranno entro i parametri
definiti dall’alto.
In entrambi i campi, la risposta compatta
alla guerra non risolve le contraddizioni interne a due società in profonda
crisi; tutti i giovani palestinesi che hanno preso in mano il fucile e che non
sono inquadrati nelle brigate, tutti quelli che si sono scontrati con pietre,
lame e fuochi d’artificio, difendono sì la Palestina in quanto identità
collettiva, ma non per forza le sue istituzioni riconosciute. Anzi, davanti
allo scarso credito di cui godono queste ultime, verrebbe da pensare che in
atto, dentro la guerra, sia in gioco anche una rivolta contro lo status quo: liquidare questa mobilitazione totale
come solo diretta dall’alto, o solo resistenza anti-israeliana è semplicistico
e fallace. C’è la ricerca di un riscatto soggettivo e di uscita da una
situazione di invivibilità determinata sì dallo Stato ebraico ma anche da una
borghesia compromessa e molle, da una classe politica dedita alla micragnosa
amministrazione della miseria e della difesa del piccolo privilegio.
Né il presidente Abbas, né la dirigenza di
Hamas o Fatah avrebbero rischiato una escalation militare per difendere la dozzina
di case di Sheik Jarrah; verosimilmente più che proteggere le case hanno difeso
la propria posizione rincorrendo la fuga in avanti della gioventù palestinese
che già da settimane era organizzata nella difesa dagli sfratti e nel confronto
con i sempre più frequenti pogrom dei coloni; la rivolta sulle scalinate della
moschea di Al Aqsa presa d’assalto dalle truppe di Tzahal non è stato che un
eclatante casus belli.
6. Al momento in cui scatta il cessate il
fuoco la diplomazia internazionale plaude al ritrovato equilibrio e si appresta
ad archiviare dai tg questa ennesima brutta storia in quel del Medio Oriente.
Israele celebra la chiusura dell’operazione Guardiano delle Mura come un
successo, ma anche in tutti i territori della Palestina si rincorrono le
manifestazioni di vittoria e attorno alla moschea di Al-Aqsa scoppiano di nuovo
scontri con la polizia israeliana. Di nuovo, come dieci giorni fa. La pace è
formale e temporanea, destinata ad infrangersi in una nuova offensiva che è
solo questione di tempo.
Intanto nessuna delle due parti è avanzata
di un passo, qual è allora la vittoria? Da parte palestinese si celebra una
prova di forza inedita per gli ultimi quindici anni. La tornata di quattrocento
razzi lanciati prima del cessate il fuoco, aveva tutta l’aria del cannone a
salve che saluta un avvenimento importante: una potenza militare con cui si
dovrà da ora fare i conti e che si erge a rinnovato scudo del popolo
palestinese.
Le milizie ripongono i lanciamissili, ma
coloro che invece restano a combattere in strada non è detto che siano disposti
a smobilitare. Proseguono i pogrom dei coloni, proseguono quelle ostilità
quotidiane che non fanno notizia, ma è possibile che si sia data ora
un’accelerazione alle forme di resistenza e di contrattacco che vadano oltre le
organizzazioni ufficiali.
È su questo che bisogna ora focalizzare
l’attenzione: che la Terza Intifada, come è stata immediatamente definita dai
giornali, sia effettivamente al suo inizio? Inoltre, il timone della resistenza
è stato indubbiamente in mano ad Hamas e alla Jihad Islamica e Fatah,
nonostante la sua potenza di fuoco, è rimasta in secondo piano tirando fuori le
armi solo dopo diversi giorni; si dà allora la possibilità di uno slancio
avanti dell’islam politico all’interno di questo passaggio? Ma, soprattutto,
quale versione di islam politico (no, non è tutto Isis) si affaccia come
vincente agli occhi di una gioventù sul piede di guerra, data anche
l’incapacità di presa di parola delle organizzazioni più vicine a una matrice
marxista che pure hanno preso parte alle ostilità ma rimanendo sostanzialmente
subalterne e senza voce? Il nodo, di difficile scioglimento, non è ovviamente
se ci piaccia o meno Hamas piuttosto che Fatah, questa è tifoseria da salotto,
ma piuttosto: si dà, anche sotto una cornice islamica, un possibile spazio di
ricomposizione e di conflitto con cui si riesca a dialogare e che sappia
offrire un avanzamento ed un riferimento anticoloniale alle popolazioni
mediorientali, nel cui immaginario la Palestina è un riferimento potente,
nonché a quelle occidentali le cui organizzazioni antagoniste hanno da tempo
abbandonato un punto di vista internazionale che non sia di mera solidarietà o
snobismo intellettuale? Oppure le rive del Giordano vedranno semplicemente la
rabbia e le istanze di liberazione assorbite in un ennesimo quadro jhiadista
ancora senza rivali in quanto ad egemonia culturale?
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