lunedì 24 maggio 2021

ricordo di Shadi Habash






Che non si dica Balaha - Francisco Soriano

 

Il 2 maggio è morto nelle carceri egiziane Shadi Habash. Il giovane regista era stato incarcerato e torturato per la sua collaborazione artistica con il cantante Ramy Essam, esiliato in terra svedese dal 2015 a causa delle persecuzioni per le sue attività dissidenti nei confronti del regime egiziano. Habash aveva realizzato nel 2018 un video musicale dal titolo “Balaha”: significa “dattero” ed è il nomignolo che gli egiziani hanno riservato al loro dittatore. In realtà il riferimento sarcastico si riferisce al personaggio di un film degli anni ottanta in cui si narra la storia di un malato psichiatrico di nome Balaha, finito in isolamento proprio per il suo disagio mentale. La canzone che ha reso Habash un detenuto dissidente conteneva parole di denuncia sociale e non semplicemente di ilarità nei confronti del regime: “Tu vivi nei giardini e noi, invece, dentro le celle… ti hanno rubato le terre promettendoti grappoli d’uva, ci hanno rubato il nostro Nilo e ti hanno lasciato qualche goccia …”.

Per comprendere il grave stato di persecuzione, tortura e violazione di qualsiasi diritto umano in Egitto è necessario riportare qualche statistica ufficiale. Nel mese di aprile di quest’anno sono stati giustiziati nove prigionieri: erano accusati dell’uccisione di altrettanti agenti durante gli attacchi al commissariato di Kerdasa nell’agosto del 2013. L’esecuzione è avvenuta nel mese sacro del ramadan e ha visto coinvolto nella mattanza anche un uomo di 82 anni. A causa di questa spirale di vendetta il sistema giudiziario egiziano ha triplicato le esecuzioni che, nel 2020, ha portato l’Egitto al terzo posto nel vergognoso primato dei Paesi che applicano questa orribile pratica. Le ultime esecuzioni sono solo una parte di quelle riservate a un gruppo di 183 persone condannate a morte con sentenza emessa nel 2014 da un tribunale di Giza e confermate dalla Corte di Cassazione. Nei due mesi di ottobre e novembre del 2020, secondo fonti di Amnesty International, ci sono state 87 esecuzioni di cittadini condannati alla pena di morte. Il Committee for Justice (CFJ) è una associazione indipendente dei diritti umani con sede a Ginevra e attiva negli studi e ricerche sulle violazioni dei diritti umani nell’area MENA, acronimo di Medio Oriente e Africa del Nord. Questa associazione ha stilato un ultimo report dal titolo emblematico: The Giulio Regenis of Egypt. Il documento rappresenta un quadro inquietante perché fa emergere il grado di disumanità delle autorità egiziane che, dalla seconda metà del 2013 (anno del golpe del generale Abdel Fattah Al-Sisi) all’ottobre del 2020, hanno intensificato nelle carceri le loro pratiche repressive: sono deceduti almeno 1.058 prigionieri a causa di torture o morti provocate dal rifiuto di prestare le adeguate cure mediche. In questo caso la pandemia da Covid-19 ha dato una mano al regime. La volontaria astensione da parte delle autorità alle cure mediche nei confronti dei detenuti è una delle modalità preferite dal regime del faraone Abdel Fattah Al-Sisi per spegnere il dissenso dei prigionieri politici. Infatti secondo le stime ufficiali delle associazioni umanitarie il 71% dei decessi totali nelle prigioni, dal 2013 al 2020, è determinato dalla carenza di cure mediche. Nel 2021 la percentuale potrebbe essere addirittura superiore: questa tragedia denota un’inaccettabile deriva umanitaria senza precedenti nel mondo.

Queste sono le stime ufficiali che non tengono conto delle sparizioni e delle detenzioni nei centri di carcerazione “informali”: attività che avvengono secondo modelli di tortura di tipo “sudamericano”, tristemente ricordati per il fenomeno dei “desaparecidos”, cioè persone uccise dopo strazianti torture e occultate in fosse comuni o lanciate ancora in vita nell’oceano da aerei in volo.

In particolare bisogna sottolineare il valore perverso di un articolo del codice penale egiziano, l’articolo 143, che prevede la custodia cautelare a tempo indeterminato quando si viene accusati di reati punibili con la pena di morte: terrorismo, sedizione, reati di opinione e pericolosità nei confronti dell’ordine pubblico. Come in Turchia il reato di terrorismo mantiene una volontaria ambiguità. Questo determina l’allargamento della sua sfera di applicabilità in pene severissime nei confronti di cittadini che, con il terrorismo non hanno nulla a che fare: è un atto pensato e programmato per poter perseguitare con maggiore legittimità e con una parvenza di “legalità”. Meglio sottolineare che, al contrario, i metodi di un terrorismo di stato si riconoscono meglio nei rastrellamenti, nella tortura, nella sparizione di inermi cittadini accusati di aver contestato il regime o, semplicemente, di averne studiato contraddizioni e illegalità. In questo quadro insopportabile di ingiustizie come non ricordare la vile messinscena della cattura e l’uccisione di fantomatici rapinatori accusati di essere coinvolti nell’uccisione di Giulio Regeni, al fine di depistare le indagini dei magistrati italiani nei confronti dei servizi di sicurezza egiziani. Secondo il Committee for Justice (CFJ), dal luglio al settembre del 2020 si sono verificati 557 casi di sparizione forzata nelle carceri e 20 casi di tortura che hanno provocato la morte o danni irreversibili nelle vittime. Questi sono numeri recenti che non considerano tutti i casi dal 2013. Un periodo in cui vi è stato un proliferare di migliaia di incredibili crimini nei confronti di cittadini inermi. Sembra a questo punto naturale sottolineare che le violazioni sono determinate e possibili in sede processuale dalla mancanza di indipendenza del potere giudiziario. Le persone vengono sottoposte all’insostenibile pratica delle carcerazioni preventive arbitrarie e prolungate secondo il sistema delle “porte girevoli”, condizione che si aggiunge alla mancanza di tutele ai fini di un processo equo fra chi accusa e chi si difende. Infatti è “normale” in Egitto la persecuzione dei difensori delle vittime anche attraverso la carcerazione con incriminazioni simili a quelle riservate ai propri clienti. In questo quadro come non ricordare la sorte riservata a Bahey El Din Hassan direttore del Center oh Human Rights Studies of Cairo, condannato in contumacia l’anno scorso a 15 anni di reclusione. Il caso di Patrick Zaki è ancora più paradossale se si pensa che il giovane studente copto è stato incarcerato e mai più rilasciato per aver scritto sui social media pensieri che offendevano e addirittura avrebbero messo in pericolo la sicurezza delle istituzioni egiziane. Il presidente del CFJ ben evidenzia, in molteplici interventi a mezzo stampa, che le autorità egiziane dispongono di elenchi che osiamo definire ‘preconfezionati’, contenenti una serie di accuse che possono essere mosse contro oppositori, difensori dei diritti umani e giornalisti: adesione e finanziamento di gruppi terroristici, spionaggio, incitamento alla violenza e al terrorismo. […] Sostanzialmente servono da pretesto per poter procedere con la custodia cautelare in carcere, da prolungare poi ad libitum, per sbarazzarsi dei cittadini scomodi”.

Nell’ottobre del 2019 Shadi Habash riusciva a far diffondere un suo messaggio con l’obiettivo di chiedere aiuto alle autorità internazionali e testimoniare la condizione dei detenuti politici in Egitto: Resistere in prigione significa resistere a te stesso. Proteggi te stesso e la tua umanità dall’impatto di quello che tu vedi ogni giorno. Ti fermi, vai di matto o lentamente muori perché sei stato buttato dentro una stanza due anni fa e sei stato dimenticato, non sapendo quando ne verrai fuori. Sono alcune settimane che l’attivista Alaa Abdel Fattah ha cominciato uno sciopero della fame e della sete per sensibilizzare l’opinione pubblica sul trattamento sanitario insufficiente o dolosamente assente nelle carceri, soprattutto nel contenimento del Covid-19. Ai familiari della donna sono state proibite le visite e la possibilità di farle pervenire medicinali. Altre due attiviste, Marwa Arafa e Kholoud Said, hanno subito una carcerazione dopo essere scomparse dalle loro abitazioni: sono ricomparse in mano alle forze di sicurezza egiziane qualche settimana dopo. Alle due donne viene tuttora riservato un trattamento davvero “speciale” perché detenute nella sezione Scorpion, che ospita detenuti politici accusati di reati d’opinione. Sembra segnato il destino di Patrick Zaki: nei suoi confronti le autorità si distinguono ancora una volta per la loro sistematica opera di annientamento psicologico e fisico dello studente. Il regime mostra sempre di più atteggiamenti paranoici, disumani e punitivi al limite della sopportazione. La verità è che il sistema economico egiziano getta sempre di più la popolazione in uno stato di depressione provocata da fame e disoccupazione: un sistema sfrontatamente liberista improntato alla corruzione e allo smantellamento dei servizi pubblici. Le risorse vengono spese in sistemi di controllo interno della popolazione e di acquisto di armi come deterrente esterno. Il Cairo è partner privilegiato dell’Italia nell’acquisto di strumenti bellici, secondo le stime più attendibili per un giro di affari di in decine di miliardi di euro. Secondo quanto riferisce la Rete italiana per la pace e il disarmo (Ripd), l’Egitto “è il Paese destinatario del maggior numero di licenze; è in aumento la propria quota fino a 991,2 milioni di euro grazie alla licenza di vendita delle due Fregate Fremm”. E questa è solo una parte delle spese egiziane nel nostro Paese.

Pertanto è evidente constatare che gli affari valgono molto di più della vita delle persone, anche se si tratta di un cittadino italiano come nel caso di Giulio Regeni. Una vergogna ben imbandita sull’altare dell’ipocrisia e della complicità silente a crimini efferati.

da qui

 

 

Shadi Habash, un nuovo caso oscuro dall’Egitto - Marco Magnano


Il regista e videomaker è morto nel carcere di Tora, vicino al Cairo, dopo due anni di detenzione senza processo. La sua colpa? Un videoclip

Ancora una volta, l’Egitto è protagonista di un caso di giustizia negata che si somma alle numerose storie di cui il Paese, negli ultimi anni, si è reso protagonista.

A rompere il generale silenzio sul sistema di incarcerazioni e sparizioni forzate che gli organi di sicurezza egiziani hanno allestito sin dal colpo di Stato che nel 2013 portò al potere Abdel Fattah Al-Sisi, è questa volta la morte di un fotografo e regista egiziano, Shadi Habash, morto a soli 24 anni venerdì 1 maggio nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo, lo stesso in cui è rinchiuso Patrick George Zaki.

Habash era stato arrestato nel marzo 2018 e da allora era detenuto in attesa di processo. «La sua salute è andata peggiorando per diversi giorni», racconta all’agenzia stampa France Presse il suo avvocato, Ahmed el-Khwaga, «era stato portato in ospedale, poi è stato rimandato in carcere, dov’è morto». Le autorità egiziane non hanno commentato quanto accaduto, ma la ragione dell’arresto è chiara a tutti. «Come videomaker - spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia - ha diretto una serie di video, compreso quello incriminato di questo cantante esule in Svezia che aveva scritto un brano satirico, Balaha, che in italiano si traduce con “dattero”, rivolto al presidente al-Sisi». “Balaha” non è soltanto il frutto, ma è un personaggio comico del cinema popolare egiziano degli anni Settanta, noto per mentire in modo patologico. Un messaggio forte ed evidentemente vietato in un Paese in cui, come ricorda ancora Noury, «c'è una linea rossa che supera inavvertitamente, perché è mobile, separa quello che è lecito per quello che è illecito e uno non si rende conto di averla oltrepassata fino a quando viene portato in carcere».

La canzone, tuttavia, non era nemmeno stata scritta da Habash, che aveva soltanto diretto il video, ma dal poeta Galal el Beheiry, anche lui in carcere, insieme al cantante Rami Essam, una delle voci più note della Rivoluzione del 2011, quando due suoi brani (Pane, libertà, giustizia sociale e Irhal, ”vattene”, indirizzato a Hosni Mubarak) furono cantati insieme a lui da milioni di manifestanti a piazza Tahrir.

A pochi giorni dalle elezioni del marzo del 2018, che videro la riconferma di al-Sisi, il video della canzone di Essam, che ora è in esilio in Svezia, aveva superato i tre milioni di visualizzazioni su Youtube. Troppo per un potere politico che non accetta di essere messo in discussione.

Proprio allora Habash venne portato in carcere, nella prigione di Tora, e tenuto in detenzione preventiva per indagini che non sono mai andate avanti. «È la prassi in Egitto. Quel carcere - continua Noury - o ti uccide di botte o ti uccide di mancate cure mediche o ti uccide di isolamento. Il 2 maggio è accaduto anche lui, così com’era accaduto ai suoi compagni di prigionia, come stanno raccontando le cronache degli esuli egiziani di questi ultimi giorni».

La condizione di sistematica incertezza a cui si è sottoposti nelle carceri egiziane porta ancora una votla all’attenzione mondiale le condizioni in cui i detenuti vivono all'interno delle prigioni del Paese, già normalmente pericolose e sovraffolate e in queste settimane rese ancora più pericolose dalla pandemia di coronavirus. In questa incertezza vive anche Patric George Zaki, il cui arresto preventivo è stato prorogato di 45 giorni in 45 giorni senza nemmeno una formalizzazione delle accuse.

Martedì 5 maggio i giudici egiziani hanno deciso che lo studente dell’Università di Bologna, rimarrà in carcere nonostante le sue preoccupanti condizioni di salute. Zaki, infatti, soffre d’asma e ha problemi respiratori seri, che nel contesto dell’emergenza sanitaria globale rappresentano un ulteriore elemento di allarme. «Sappiamo che è vivo - chiarisce il portavoce di Amnesty - per il semplice fatto che nessuno ci ha detto che è morto. L'ultima visita i suoi familiari l'hanno potuta effettuare il 9 di marzo, quindi siamo quasi a due mesi di distanza. Quello che sappiamo è che dovrebbe essere scarcerato, prima di tutto perché è innocente, e poi perché è un soggetto a rischio. E allora quello che Amnesty International ha deciso di fare in queste ultime settimane insieme all'Università di Bologna e al Comune di Bologna è di sollecitare un provvedimento umanitario di rilascio per motivi di salute. Lo abbiamo fatto coinvolgendo l'ambasciatore italiano in Egitto, Giampaolo Cantini, che ha risposto garantendo interessamento in una prima occasione e gli abbiamo riscritto proprio in questi giorni per chiedere che dia seguito alle sue buone intenzioni». Buone intenzioni che purtroppo, finora, non hanno portato a risultati concreti.

Il fatto è che queste violazioni, così evidenti, così documentate e dal rilievo internazionale, non sembrano avere alcuna conseguenza. «Politicamente - riflette Riccardo Noury - l’Egitto non rende conto a nessuno, perché i rapporti sono così forti sul piano bilaterale con tanti Paesi e sono rapporti di convenienza, di armonia, di scambi di varia natura. Dovrebbe rendere conto agli organi internazionali sui diritti umani, ai meccanismi sui diritti umani delle Nazioni Unite che però hanno un potere persuasivo pari a zero, possono fare dei report delle denunce e approvare delle risoluzioni, condannare, però tutto questo non incide. Inciderebbe una presa di posizione politica nei rapporti di alcuni paesi chiave con l'Egitto ma questa presa di posizione manca».

È legittimo chiedersi se la crisi del mercato degli idrocarburi, il crollo del prezzo del petrolio e in generale la flessione economica globale, possano ridurre la posizione di forza dell’Egitto, costringendolo a rendere conto delle proprie azioni di fronte alla comunità internazionale. Tuttavia, il Paese non è così dipendente dalle esportazioni di petrolio come lo sono altri nella regione, soprattutto nella Penisola arabica o nel Golfo persico, quindi anche questa ipotesi sembra da scartare. «L'Egitto - conclude infatti Noury - ha altre risorse che non sono semplicemente legate a fattori economici. La sua posizione lo rende un Paese chiave nella zona dell'Africa del Nord, in particolare rispetto alla Libia, ma anche rispetto a fenomeni come l'immigrazione. È stato il primo Paese a raggiungere la pace con Israele, quindi in qualche modo è considerato un esempio di moderazione e di progresso. Queste sono carte che l'Egitto gioca con intelligenza, minacciando che se venisse a mancare questo ruolo equilibratore e di pace nell'area il terrorismo esploderebbe, l'immigrazione ripartirebbe e la Libia si spezzerebbe ancora di più».

da qui

 

 

il presidente (dittatore) egiziano Abdel Fattah al-Sisi non vuole essere chiamato dattero

il presidente (dittatore) egiziano Abdel Fattah al-Sisi non vuole essere chiamato dattero

il presidente (dittatore) egiziano Abdel Fattah al-Sisi non vuole essere chiamato dattero

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