UNO. Sarà bene tenerlo a mente: la
comunicazione, anche quella sociale, non è fatta solo di parole scritte e parlate.
Nel libro Le labbra del tempo, Eduardo Galeano racconta storie
brevi quanto preziose: ogni volta che passa il dottore, Doña Maximiliana,
un’anziana ricoverata in ospedale, lo prega di prenderle il polso. Il medico
crede sia un po’ suonata ma è un uomo paziente e l’accontenta, sempre. Impiega
anni a capire che la vieja stava solo chiedendo di
essere toccata. Le mani possono arrivare lontano, fino raggiungere
le chiavi dei cancelli più profondi del dolore, là dove un farmaco non entra
mai.
§
DUE. È troppo tempo che conviviamo con i
dispositivi di dissoluzione del sociale. La paura del contagio, poi, è un
formidabile strumento di controllo, perfino etico. Bisognerebbe inventare
qualcosa, ma siamo ancora assorbiti da questa comunità dell’intangibile, in cui
la pelle, il corpo e gli odori dell’altro risultano ogni giorno più alieni. Il
virus ci è servito da amplificatore di ciò che sapevamo: abitiamo una casa
attraversata da necro-politiche di espropriazione della vita. Si estrae valore
dai nostri corpi e dal nostro tempo, dalle patologie come dalla terra e dai
fiumi. E poi nulla di tutto quel che potrebbe essere la vita in comune viene
tollerato. Cosa nascerà da un mondo silenziato in cui il contatto prevalente
avviene attraverso schermi freddi e dispositivi tecnologici?
§
TRE. Lo spazio contemporaneo è dominato da
un eccesso di comunicazione, un altro tipo di comunicazione, che non passa per
i corpi ed è in gran parte inutile o inservibile. Spesso genera impoverimento
intellettuale e morale, ma soprattutto impedisce di cogliere i processi che
modificano in profondità quello che accade. Il diritto e perfino la possibilità
di essere informati, ma soprattutto di interpretare quel che avviene a scala
planetaria, è poco più di un mito, segnato da una nuova superficialità. C’è chi
dice sia la superficialità dei titoli. E ogni buon giornalista sa che i titoli,
una volta esaurita la necessaria funzione seduttiva, possono semplificare in
modo irrimediabile la realtà. Non sono autosufficienti, i titoli. Hanno bisogno
di essere spiegati, a maggior ragione in un tempo segnato in misura abissale
dalla complessità. La domanda è: possiamo ancora limitare quella
superficialità, possiamo aprirvi delle fessure?
§
QUATTRO. A noi di Comune piace
la politica delle domande. Una di quelle che sono più frequenti, nel nostro
mestiere, dice: dove va il giornalismo? Ah, saperlo. No, non ne abbiamo idea,
ed è assai preferibile dirselo. Le fesserie cerchiamo di raccontarle solo in
casi molto estremi. Generalmente, quando si parla di informazione al di sopra delle
parti e nelle notti di luna opaca. Quel che ci pare di aver capito, invece,
dopo qualche decennio di avventuroso inseguimento della pratica dell’obiettivo,
è che per raccontare i fatti c’è bisogno di condurre un’instancabile battaglia
contro quel che si pensa di essere. È una lotta ancora una volta per cambiare,
certo, ma comincia da sé stessi. Una lotta contro la conferma delle proprie
convinzioni più consolidate, contro una certa allergia all’autocritica ma,
naturalmente, è una lotta anche contro le tortuose vie attraverso cui il
potere-dominio, cioè il potere-su qualcuno o qualcosa e non il potere-di fare,
cattura le esperienze. Si chiama ordine delle cose esistenti.
§
CINQUE. Non c’è campo delle conoscenze in cui
la relazione tra natura e cultura o tra storia e vita biologica sia più
interconnessa di quello del linguaggio, che è un codice di comunicazione, cioè
un sistema che associa segni e significati, indispensabile a scambiare
contenuti e/o informazioni. Il linguaggio, poi, tra gli individui della specie
che sta cercando di estinguersi, può diventare una lingua, anche se quegli
individui non sono capaci di articolar parola. Con le parole, invece, si
compongono barzellette, cronache, reportage giornalistici, canzoni, fumetti e
molte altre forme narrative con le quali entriamo in relazione giorno dopo
giorno. Però le parole devono poter camminare di bocca in bocca. Altrimenti si
muore soli.
§
SEI. Nel 1969, anno del primo passo sul
satellite naturale, da queste parti c’è stato un autunno dalle temperature particolarmente
elevate. Era l’Autunno dei Consigli che non erano destinati agli acquisti.
Nacquero nelle fabbriche e quelli che dentro ci trascorrevano l’intera vita
uscirono fuori, in lunghe file, per provare a cambiare la società intera. Non
era facile vincere quella partita, ma riuscirono a cambiare i principi, le idee
e le convinzioni di molta gente. Sull’insieme di quei tre elementi, una persona
– o un gruppo di persone – fondano la propria concezione della vita: è la
filosofia.
§
SETTE. I cambiamenti climatici e quelli
sociali, come si vede, hanno una lunga storia. E a proposito di storia e
filosofia, sempre in quell’anno, il 1969, un filosofo della storia e della
politica bulgaro dal nome pronunciabile, Tzvetan Todorov, inventò un nome
bizzarro per designare l’analisi delle forme e delle strutture della
narrazione. Nacque così la narratologia, che poi, anche grazie a uno dei
maestri di quel bulgaro emigrato a Parigi, tale Roland Barthes, di professione
semiologo, finì per servire tanto alla ricerca di una vera e propria grammatica
del racconto. La narratologia, naturalmente, non studia soltanto i racconti
letterari e forse non si può neanche definire una scienza, almeno nei termini
in cui la vede oggi l’intenso dibattito avviato in Tv dai virologi italiani.
Non sappiamo nemmeno se la narratologia studi il racconto della società che
cambia. Non si sa mai: potremmo scoprirlo alla fine di questi nostri incontri.
Benvenuti, ovunque ascoltiate
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