Quando ascoltare
pareri difformi può aiutare un gruppo a prendere decisioni valide
Imparare a prendere buone decisioni è un po' come imparare a nuotare,
spiegava lo psicologo Robin Dawes, qualche anno fa. La possibilità di nuotare è
garantita dal nostro fisico, dai muscoli, dalla capacità di coordinare i nostri
movimenti in maniera funzionale. Ma per imparare a nuotare occorre qualcosa in
più: bisogna imparare a resistere alla tentazione di voler tenere sempre la
testa fuori dall'acqua. Occorre imparare a resistere ad un istinto naturale.
Cercando di tenere la testa fuori dall'acqua, infatti, il nostro corpo tenderà
naturalmente ad assumere la posizione verticale e quindi ad affondare. Questa è
la reazione istintiva di un nuotatore principiante. Abbiamo tutto ciò che ci
serve per nuotare ma dobbiamo imparare ad indirizzare nel modo corretto le
nostre risorse fisiche, contrastando coscientemente le reazioni più immediate
e, paradossalmente, più naturali.
Decidere (bene) è un’arte
Lo stesso vale per l'arte della decisione. Impariamo a prendere buone
decisioni quando diventiamo coscienti dei rischi connessi alle nostre reazioni
più immediate e naturali ed apprendiamo quando e come contrastarle. Abbiamo
tante volte ripetuto che gli errori o, più propriamente, le “distorsioni
cognitive” (bias), non sono altro che effetti collaterali del nostro naturale
modo di pensare, di elaborare giudizi e di prendere decisioni.
Si manifestano a causa del cosiddetto “savanna principle”, del
fatto, cioè, che il nostro cervello oggi, è, evolutivamente parlando, lo stesso
che ci consentiva di sopravvivere nell'ambiente ostile della savana nel quale
vivevamo 150.000 anni fa. Riconoscere un predatore affamato era questione di
vita o di morte e, per questo, siamo diventati abilissimi ad interpretare le
intenzioni dalle espressioni facciali, mentre scegliere cibi salutari, i rischi
di portafoglio o il mutuo a tasso fisso o variabile, cosa oggi più rilevante,
allora non erano opzioni neanche contemplate. Quindi oggi, per prendere
decisioni corrette siamo, a volte, costretti ad andare contro le nostre spinte
primordiali e i nostri istinti naturali. Essere sviati, per questo, è un
attimo, mentre recuperare lucidità è una questione di disciplina,
consapevolezza e tecnica.
Saper ascoltare anche chi non è d’accordo
Un esempio in questo senso ci viene dalle decisioni di gruppo. Abbiamo discusso in altre occasioni l'effetto deleterio
che il cosiddetto groupthink può produrre sulla qualità delle nostre scelte. Il
conformismo, associato alla paura di scontentare la leadership o le norme
condivise dal gruppo, silenzia il dissenso produttivo, il pensiero critico, le
posizioni eccentriche, che, invece, nella maggior parte dei casi possono
favorire quel pluralismo che nutre l'eccellenza. Saper ascoltare chi non la
pensa come noi, dare credito alle posizioni strane e dissonanti, agli
eccentrici, agli anticonformisti può essere faticoso ma, alla fine, paga
sempre. Silenziare il dissenso, invece, appiattisce, chiude e, per quanto rassicurante,
alla fine rende sterili, aridi e improduttivi.
Ricordo il filosofo austriaco Paul Feyerabend che, a proposito del suo
anarchismo epistemologico, affermava: «Prendevo ora una posizione, ora l'altra,
in parte per sfuggire alla noia, in parte perché sono un bastian contrario e in
parte per la mia crescente convinzione che persino il punto di vista più
stupido e disumano ha qualche merito e vale la pena difenderlo» (“Addio alla
ragione”, Armando Editore, 1990). La voglia e la capacità di accogliere
posizioni “altre” dalle nostre non si rivela utile solo perché queste possono
essere migliori delle nostre. Seppur non scontato, questo è certamente facile
da capire.
L’utilità dell’errore
La cosa davvero strana, invece, è che le posizioni discordanti possono
rivelarsi utili anche quando sono del tutto sbagliate. È il semplice fatto di
dare spazio a chi la pensa diversamente da noi, anche se tali posizioni sono
assurdamente diverse e incomprensibili, che ci aiuta a focalizzare meglio le
nostre posizioni e a prendere decisioni migliori.
Charlan Nemeth è una psicologa dell'Università di Berkeley in California.
La Nemeth è un'esperta, tra le altre cose, di “dissent”, di come, cioè, idee
inizialmente minoritarie si fanno strada nella testa della gente. È un tema che
ha a che fare con la psicologia dei gruppi, con le tecniche di brainstorming e,
più in generale, con il tema della creatività. Abitualmente quando si partecipa
ad una sessione di brainstorming, cioè quando diverse persone si incontrano per
ragionare liberamente intorno ad un problema alla ricerca di soluzioni
creative, per evitare i tipici problemi delle dinamiche di gruppo, come, per
esempio, il conformismo, l'opportunismo e il free-riding o, ciò che gli esperti
chiamano arrendevolezza sociale, le regole del gioco prevedono, tra le altre
cose, di limitare le critiche al minimo, di dare importanza ad ogni idea
proposta, di apprezzare la quantità e non solo la qualità dei pensieri espressi
e di valorizzare e sviluppare creativamente le idee proposte da altri.
Conflitti creativi
Ci sono anche altri approcci, anche se non altrettanto diffusi. Mentre le
tecniche di brainstorming spingono verso la riduzione del conflitto e la
ricerca dell'armonia tra i membri del gruppo, altri approcci pongono l'enfasi
sul valore creativo del conflitto. Alcuni, per esempio i tifosi della “Nominal
Group Technique”, propongono che i membri del gruppo lavorino, in una prima
fase da soli, in modo da elaborare idee differenti e indipendenti le une dalle
altre e che poi, solo in un secondo momento, ci si ritrovi insieme per
discuterle collettivamente. L'idea di fondo è quella secondo cui i gruppi non
funzionano molto bene nella fase di generazione delle idee a causa della
zavorra che può crearsi a causa della valenza sociale della situazione e del
fatto che si può cercare di evitare il conflitto tra i partecipanti e, quindi,
a scegliere soluzioni non tanto ottimali quanto piuttosto accomodanti.
Coloro che propugnano la tolleranza verso una certa dose di conflittualità
e di divergenza all'interno dei gruppi lo fanno, invece, sulla base del fatto
che la diversità e il pluralismo di visioni possono portare una ricchezza che è
estranea al conformismo, stimolano il pensiero critico e spingono gli
interlocutori verso la ricerca di informazioni inedite e soluzioni creative. La
presenza di un certo spazio di conflittualità e diversità, si dice, può creare
una situazione nella quale ciascuno si sente libero di generare e sostenere le
sue idee in maniera convinta ed autentica.
Un interessante esperimento
Nemeth e i suoi colleghi hanno deciso di provare a testare l'efficacia
delle due prospettive – armonia vs dibattito – sulla generazione di soluzioni
efficaci e creative. Viene progettato un esperimento per testare l'effetto
delle regole tradizionalmente pacificanti, tipiche del brainstorming
tradizionale, con quelle, invece, che suggeriscono un confronto aperto,
schietto e perfino critico (Nemeth, C., Personnaz, B., Personnaz, M., Goncalo,
J. “The liberating role of conflict in group creativity: A study in two
countries”. European Journal of Social Psychology 34, pp. 365–374. 2004).
Vengono organizzati 52 gruppi, ciascuno formato da 5 persone, negli Stati Uniti
e 39 gruppi simili in Francia. Ad ogni gruppo vengono concessi venti minuti di
tempo per cercare di trovare soluzioni al problema della congestione del
traffico nell'area di San Francisco, per i gruppi americani, o nell'area
parigina, per i gruppi francesi. L'obiettivo esplicito è quello di far emergere
il maggior numero possibile di soluzioni ragionevoli.
L'esperimento assegna, in maniera del tutto casuale, i gruppi di
partecipanti a tre diversi trattamenti. In una prima condizione, detta
“minimale”, i partecipanti non ricevono nessuna istruzione supplementare. Ai
partecipanti alla condizione “brainstorming”, invece, vengono fornite le
istruzioni che di solito vengono date in questi casi, tra cui, anche, in
particolare, quella di ridurre al minimo le critiche e le discussioni. Ad un
terzo gruppo, quelli appartenenti al trattamento “debate”, invece, vengono date
le stesse istruzioni tranne quella relativa all'astensione dalle critiche.
I partecipanti a questo trattamento, piuttosto, sono incoraggiati a
esprimere liberamente le loro idee, ad impegnarsi a fondo nel dibattito e ad
esprimere, anche criticamente, la loro posizione a riguardo di ogni proposta.
Alla fine dei venti minuti di tempo a disposizione, ogni gruppo riporta le
diverse soluzioni individuate e ad ogni partecipante viene chiesto di indicare
privatamente anche tutte le soluzioni a cui aveva pensato ma non aveva
espresso, così come tutte quelle emerse dopo la fine del dibattito.
Quando il confronto è costruttivo
I risultati mostrano che, mentre il numero totale delle idee generate nei
tre gruppi non differisce significativamente, anche se sono più numerose quelle
nei gruppi “debate”, 24 in media, rispetto a quelle nei gruppi “brainstorming”
e “minimale”, 20 e 18.8, rispettivamente, emergono, invece, differenze
significative quando si considera il numero di idee prodotte complessivamente,
sia quelle espresse che quelle non espresse, così come quelle che sono emerse
dopo, in seguito alla discussione nei gruppi. In questo caso i gruppi “debate”
dove le istruzioni suggerivano un confronto aperto, sincero e perfino critico,
hanno prodotto, in media, 36 idee contro le 26 e le 22 degli altri gruppi. Un
trend simile si ritrova sia con i partecipanti nordamericani che con quelli
francesi. Contrariamente a quanto si può pensare, la possibilità di considerare
idee diverse, di criticare le posizioni degli altri membri del gruppo e di
portare su un piano di sostanziale sincerità il dibattito, lungi
dall'ostacolare il lavoro dei gruppi e di impedire l'emersione di soluzioni
creative, attiva, invece, processi che portano a risultati migliori, almeno in
termini quantitativi.
La “spinta” delle idee altrui
Ma forse l'aspetto più interessante della ricerca riguarda ciò che avviene
dopo la conclusione dei lavori del gruppo. Coloro che avevano avuto la
possibilità di dibattere a fondo con gli altri membri, finiscono col generare
un numero maggiore di idee e di possibili soluzioni anche una volta terminato
l'incontro con gli altri. Ciò significa che le idee espresse dagli altri
posseggono una spinta generativa che continua ad operare in maniera persistente
nei singoli anche al di là dell'interazione diretta. Tradizionalmente le
istruzioni che vengono date nelle sessioni di brainstorming prevedono un “non
criticare” che, si pensa, possa sollevare i membri del gruppo dalla
preoccupazione di venir giudicati non tanto sulla qualità delle idee espresse,
ma sul piano personale; una paura che gli esperti di creatività considerano
come un ostacolo alla libera generazione ed espressione delle idee.
I risultati di Charlan Nemeth e dei suoi colleghi sembrano, invece, puntare
nella direzione opposta quando, chiudendo la ricerca, affermano: «L'enfasi
sulla cortesia e l'indicazione a evitare le critiche possono essere
controproducenti. Forse, la libertà, anche la libertà di discutere e criticare,
è più adatta alla generazione di soluzioni creative (…) Ci sono, inoltre, prove
che mostrano che il dissenso e la critica funziona meglio quanto è autentico e
sentito, piuttosto che solamente simulato. Il risultato fondamentale, tuttavia,
è che l'incoraggiamento al dibattito - e anche delle critiche, se giustificate
- sembra stimolare la creatività. E le culture che consentono e persino
incoraggiano tale espressione di punti di vista diversi possono stimolare
meglio di altre l'innovazione».
In uno studio successivo, condotto da Stefan Schulz-Hardt dell'università
di Gottinga e dai suoi colleghi, vengono ottenuti dei risultati ancora più
contro-intuitivi. Il paradigma sperimentale utilizzato è quello del cosiddetto
“profilo nascosto”, (hidden profile). In un “profilo nascosto”, parte delle
informazioni è condivisa tra i membri del gruppo (cioè tutti i membri
possiedono queste informazioni prima della discussione), mentre altre
informazioni non sono condivise; ci sono cioè delle informazioni note ad un
solo membro del gruppo, prima che la discussione abbia inizio. Come se tutti
avessero un'idea vaga della figura rappresentata nel puzzle, ma qualcuno avesse
un'idea molto più chiara delle immagini rappresentate in una porzione dello
stesso puzzle. Le informazioni condivise e le informazioni private hanno
implicazioni decisionali diverse e solo condividendo correttamente tutte le
informazioni private si può riuscire ad ottenere la soluzione ottimale del
problema. I risultati sperimentali mostrano che è molto raro e complicato
giungere a queste soluzioni e quasi sempre i gruppi falliscono nel costruirsi
un quadro preciso grazie alla condivisione di tutte le informazioni private dei
singoli. Schulz-Hardt e colleghi a questo punto hanno un'idea. Cosa succede se
proviamo a mischiare un po' le acque dando ad alcuni partecipanti delle false
certezze?
Smentire “false certezze”
Per testare questa ipotesi costruiscono un esperimento nel quale il profilo
nascosto è quello di un candidato ottimale per un certo posto di lavoro. I
partecipanti lavorano come una commissione di selezione. Ci sono vari gruppi,
ma essenzialmente ad un gruppo viene sottoposto il profilo nascosto ma
“spezzettato” in varie informazioni private possedute solo da ciascun singolo
membro del gruppo; ad un altro gruppo, invece, vengono fornite le false
certezze: informazioni false per far credere che il candidato ideale era B o C
anche se, sulla base dei dati completi, il candidato migliore era, invece, il
soggetto A. Ma nessuno poteva essere a conoscenza di questo prima che la
discussione avesse inizio. Quello che si osserva è che, quando ognuno è
convinto che il suo candidato, sia B o C, sia il candidato migliore, a causa
del dibattito che scaturisce, la probabilità che si capisca che il candidato
migliore non è né B, né C, ma, piuttosto A, vengono quadruplicate.
Considerare le ragioni per cui anche il candidato B e quello C avrebbero
potuto avere delle chances, fa emergere in maniera più chiara per tutti le
ragioni per cui il candidato migliore è, effettivamente, il candidato A. B e C
erano scelte sbagliate, ma la possibilità di confrontarsi anche su queste
scelte ha fatto sì che la scelta migliore emerga più facilmente e
frequentemente (Schulz-Hardt, S., Brodbeck, F. C., Mojzisch, A., Kerschreiter,
R., & Frey, D., 2006. “Group decision making in hidden profile situations:
Dissent as a facilitator for decision quality”. Journal of Personality and
Social Psychology 91(6), pp. 1080–1093). Le organizzazioni e i gruppi che
coltivano l'unanimismo e il conformismo perché fondati, magari, su una struttura
fortemente gerarchica o perché costruiti sul principio di fedeltà al potere,
plasmano, non solo i giudizi e il comportamento dei membri, ma il modo di
pensare.
Numerosi studi hanno mostrato come, davanti ad una posizione non condivisa
dal singolo, ma maggioritaria nell'organizzazione, le persone tendono ad
assumere, progressivamente, il punto di vista della maggioranza. Nel tentativo
inconscio di giustificare con buone ragioni la posizione della maggioranza, non
solo tendiamo ad adottarne la stessa prospettiva, ma ci convinciamo della bontà
di quella posizione, per esempio, ricercando e facendo riferimento solo a
quelle informazioni che sono coerenti con la posizione maggioritaria e
sottostimando il peso delle informazioni contrarie. Ecco perché i dissidenti
sono salutari, anche se dovessero avere sempre torto: perché rappresentano un
antidoto all'unanimismo e, in questo modo, ci aiutano a sfuggire a molti dei
nostri più potenti “bias” che sviano la nostra mente. Il “bias” della conferma,
per esempio, l'“overconfidence” e il “grouthink”, solo per fare qualche
esempio. Pensiamoci un po'. Il dissenso non ci piace proprio perché ci
costringere a mettere in discussione le nostre ragioni e ci costringe ad andare
a fondo delle motivazioni che sostengono le nostre posizioni. Ma è proprio
questa dinamica che ci aiuta a prevenire alcuni dei “bias” che più facilmente
distorcono i nostri giudizi e sviano le nostre scelte. Cosa preferiamo, dunque,
il confronto faticoso, ma costruttivo o la più semplice e banale
accondiscendenza?
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