Ci sono volute alcune intercettazioni di conversazioni
di giornalisti per provocare la protesta e l’indignazione di una stampa da
decenni appiattita sulle veline di questure e procure. Esito determinato da
spirito corporativo assai più che dalla gravità del fatto, certo, ma l’indignazione può
essere il punto di partenza per un’analisi di quanto ci sta accadendo intorno
in tema di conformazione politico-culturale e di repressione delle opinioni e
delle condotte dissenzienti.
I giornalisti intercettati erano, in vario modo,
impegnati nel documentare le operazioni di soccorso di migranti nel
Mediterraneo e gli scambi politici sottostanti al blocco dei flussi migratori.
Per questo, non per la presunta commissione di reati (mai contestati), sono
stati sottoposti per mesi a controlli, tracciamenti, intercettazioni. Diciamolo
in modo esplicito: bisognava fare terra bruciata intorno ai
migranti diffondendo il messaggio che le organizzazioni impegnate nel soccorso
in mare e persino i giornalisti che ne documentano le attività sono collusi con
i trafficanti, corrotti e, magari, al soldo di potenze straniere. Ciò a
sostegno di una impostazione nella quale le campagne xenofobe della Lega si
sono intrecciate con gli strappi del ministro Minniti (padre,
oltre che degli accordi con la Guardia costiera libica, del codice di condotta per le ONG), con la propaganda di Di Maio (a
cui si deve, tra l’altro, l’appellativo «taxi del mare» attribuito alle navi
impegnate nel salvataggio dei naufraghi) e con le iniziative marcatamente
repressive di diverse Procure, da Catania a Trapani e a Locri nei
confronti di ONG o di esperienze simbolo dell’accoglienza come quella di Riace. Il tutto con l’appoggio o il
silenzio complice di gran parte della stampa indipendente.
Un’operazione tuttora in pieno svolgimento con le perquisizioni e i sequestri di
Trieste nei
confronti dei responsabili dell’associazione Linea d’ombra impegnati contro i
respingimenti illegali di richiedenti asilo al confine con la Slovenia o con lo
sgombero, a Oulx, della casa cantoniera occupata e
autogestita Chez JesOulx, ultimo ricovero per i migranti in transito verso la Francia. A
dimostrazione della continuità politica, sul punto, tra il governo
giallo-verde, il Conte bis e l’attuale esecutivo di unità
nazionale. Il messaggio è chiaro: quel che occorre cancellare, insieme alle
migrazioni, è la visibilità stessa di un diverso modo di affrontarle.
Ciò non riguarda solo le migrazioni. L’espulsione del
conflitto sociale dalla scena pubblica è stata, a partire dal luglio 2001, una
delle costanti della politica di tutti i governi che si sono succeduti (e delle
maggioranze che li hanno sostenuti). Con un caso di scuola: quello della Valle
di Susa, dove l’esistenza di un grande movimento popolare di opposizione alla
nuova linea ferroviaria Torino-Lione è stato trasformato da questione politica
e democratica in problema di ordine pubblico. Lo ha scritto con efficace
sintesi il Tribunale permanente dei popoli, nella sentenza pronunciata al riguardo
l’8 novembre 2015: «si sono esclusi gli individui e le comunità locali da ogni procedura
effettiva di partecipazione nella deliberazione e nel controllo della
realizzazione delle opere, simulando anzi procedure di partecipazione fittizie
e inefficaci; non si è dato corso ai procedimenti attivati nei tribunali per
far valere i diritti di accesso alla informazione e alla partecipazione nei
processi decisionali; […] e c’è stata la diffusione di informazioni contenenti
falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità,
all’impatto dei lavori; la simulazione di un processo partecipativo; l’adozione
di misure legislative aventi come obiettivo l’esclusione della partecipazione
dei cittadini e delle comunità locali; la strategia di criminalizzazione della
protesta con pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia, che
includono anche la persecuzione penale sproporzionata, la imposizione di multe
eccessive e reiterate e l’uso sproporzionato della forza». Anche in questo caso
ciò è avvenuto con il sostegno pressoché totale della
stampa e con
un’azione repressiva della
magistratura senza
precedenti per numero di indagati, qualità delle imputazioni, impiego di misure
cautelari, dilatazione delle ipotesi di concorso di persone nel reato e
finanche – come nel caso del processo intentato contro Erri De Luca –
riesumazione del delitto di apologia di reato. Ed è una fase tuttora in corso
come dimostra, da ultimo, la vicenda della carcerazione di Dana Lauriola, con rifiuto di ogni misura
alternativa, in esecuzione di una condanna a due anni di reclusione per un
blocco stradale senza uso di violenza nei confronti delle persone. Va aggiunto
che il caso della Valle di Susa, come tutti i casi di scuola, è solo la punta
di un iceberg che comprende la repressione del conflitto
sociale messo in
campo dalle fasce più radicali e non omologate della società e dai movimenti di opposizione ad altre
grandi opere.
Non basta. Quando il conflitto sociale, negli ultimi
anni, è tornato anche nei luoghi di lavoro, soprattutto nei settori della
logistica e dei lavoratori migranti, le pratiche di repressione e
criminalizzazione si sono estese anche lì fino all’uso di lacrimogeni contro
gli scioperanti, alla riscoperta del delitto di “picchettaggio” e alla dilatazione a dismisura
dell’istituto del concorso di persone nel reato. Oggi si contano di nuovo a
centinaia i lavoratori sottoposti a processo penale per violenza privata,
per resistenza a pubblico ufficiale e per il delitto di blocco stradale
ripristinato dal decreto legge 213/2018, uno dei decreti Salvini, pur ridimensionato in sede di
conversione in legge. E non mancano ulteriori gravi distorsioni istituzionali e
politiche come quelle, esemplari, emerse da ultimo a Piacenza, comprensive
della pretesa della magistratura inquirente di valutare la fondatezza o meno delle vertenze
sindacali e
degli esposti contro le agitazioni
promosse da altre sigle sindacali presentate in questura addirittura dalla Cgil.
Fin qui i fatti, alcuni fatti, tra i
quali, pur nella loro eterogeneità, si intravede un filo rosso:
l’insofferenza nei confronti del dissenso, della protesta, dell’opposizione
radicale, del pensiero diverso e la scelta di escluderli dalla
scena politica attraverso la rimozione, la criminalizzazione, la repressione.
È, a ben vedere, l’altra faccia della crisi della democrazia, di quella crisi
che individuiamo, in genere, con il venir meno dei canali della rappresentanza
(dai partiti ai corpi intermedi), l’adozione di sistemi elettorali che
escludono le minoranze, il trasferimento del potere reale in luoghi diversi
dalla politica, la concentrazione dell’informazione in poche mani prive di
legittimazione e molto altro ancora. L’altra faccia della crisi è, appunto, la
rinuncia della politica a gestire i conflitti in modo partecipato e la
conseguente attribuzione della loro soluzione agli apparati (in particolare la
polizia e la magistratura) con deleghe improprie e interventi legislativi ad
hoc, talora favoriti da fenomeni drammatici, dal terrorismo alla pandemia. Ma
così – è evidente anche se rimosso dal discorso pubblico – la democrazia cessa
di essere il governo dei più e assume connotazioni autoritarie
e verticistiche che ne sono, in realtà, la negazione. Parallelamente, le
libertà diventano privilegi, alla pari dei beni materiali, disponibili a
dismisura per pochi ricchi sempre più ricchi e negati alla maggioranza delle
donne e degli uomini (mentre anche sotto il profilo del diritto i codici
dei ricchi diventano, anche formalmente, diversi da quelli dei poveri). Non
siamo né in Turchia né in Russia – va detto con chiarezza per non deformare la
realtà – ma le avvisaglie di una democrazia autoritaria (un ossimoro utilizzato
ormai senza pudore) sono molte e univoche. E, se non contrastate per tempo,
rischiano di consolidarsi producendo guasti irrimediabili.
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