Ad avvertirlo che suo figlio Mobarak era sull’imbarcazione naufragata il 21 aprile al largo della Libia è stato un amico che ha chiamato da Tripoli, qualche ora dopo il ritrovamento dei resti del gommone. Gli è squillato il telefono mentre stava lavorando al mercato e ha saputo in questo modo che suo figlio era morto in un naufragio. Una vertigine, è quello che ha provato. Mobarak aveva 23 anni, era sudanese, era partito il 20 aprile alle dieci di sera dalla spiaggia di Al Khoms in Libia, una città 120 chilometri a est di Tripoli, insieme a più di altre cento persone.
Dal momento che ha saputo della morte di suo figlio, Abdullah guarda in
maniera irrazionale il telefono sperando di ricevere un messaggio su WhatsApp
da Mobarak. “Guardo di continuo le nostre chat, era sempre collegato e ora
invece è sempre offline”, mi racconta in una lunga telefonata. La loro linea di
comunicazione si è interrotta e per Abdullah, in assenza di conferme sulla
morte di suo figlio, nell’impossibilità di avere indietro il corpo e celebrare
un funerale, questo silenzio è l’unica riprova che gli sia successo qualcosa di
grave. Abdullah non sapeva neppure che suo figlio fosse partito, si erano
sentiti due giorni prima, su WhatsApp e poi al telefono. “Chiamami”, è stato
l’ultimo messaggio che gli ha mandato il figlio.
Non gli aveva detto che avrebbe provato ad attraversare il mare. “Gli avrei
detto di non farlo”. Abdullah da giorni non riesce a mangiare né a dormire:
“Mia moglie è distrutta”. La coppia, che ha altri sei figli, tre maschi e tre
femmine, abita nella periferia di Khartoum, in Sudan, ma è originaria del
Darfur, come la maggior parte dei naufraghi del 21 aprile.
“Siamo dovuti scappare, c’era la
guerra, la situazione è sempre stata difficile per noi”, racconta. Mobarak era
il figlio maggiore, era partito da Khartoum un anno e mezzo fa per andare a
lavorare in Libia e aiutare la famiglia. “Studiava all’università in Sudan,
economia, ma voleva lavorare, per aiutarci. Era un ragazzo generoso. Non so
come spiegare ai suoi fratelli e alle sue sorelle che l’abbiamo perso. Ho perso
mio figlio maggiore, non riesco nemmeno a pensarci”. Nelle foto che Abdullah mi
manda via WhatsApp Mobarak ha un’espressione seria su un volto ancora acerbo di
ragazzo, due grandi occhi neri un po’ irregolari e delle cicatrici sulla
fronte. Le fotografie lo ritraggono insieme ai suoi amici in Sudan. Ora
Abdullah vorrebbe almeno poter fare il funerale a suo figlio: “Siete sicuri che
lo abbia ingoiato il mare? I corpi sono stati recuperati?”, chiede.
Mobarak Abdullah è presumibilmente una delle circa 130 persone annegate al
largo della Libia il 21 aprile. Ma non ci sono certezze, perché i cadaveri del
naufragio non sono stati recuperati, né identificati ufficialmente. Hanno
chiesto aiuto per ore, ma nessuno è intervenuto in soccorso: né i libici né gli
italiani né i maltesi. I volontari del network europeo Alarm Phone hanno
diramato l’allerta la mattina del 21 aprile, quando hanno ricevuto la prima
chiamata direttamente dal barcone. “Ci chiamavano di continuo, perché le
condizioni meteo stavano peggiorando, ma alla fine il loro telefono satellitare
si è scaricato”, racconta Deanna Dadusc, una delle volontarie di Alarm Phone.
La Ocean Viking, l’unica nave umanitaria presente nella zona, ha raggiunto
l’area del disastro alle 4.25 del 22 aprile e insieme ad altri tre mercantili
ha trovato il gommone dodici ore dopo, distrutto, circondato da dieci cadaveri
tenuti a galla da camere d’aria e da giubbotti salvagente. “Nessuno ha
coordinato le ricerche della nostra nave e degli altri tre cargo, era come
muoversi al buio”, racconta Alessandro Porro, responsabile italiano di Sos
Méditerranée. La cosiddetta guardia costiera libica ha detto che avrebbe
recuperato i corpi, ma non lo ha fatto. Frontex si è difesa affermando di avere
“immediatamente allertato i centri di soccorso in Italia, Malta e Libia, come
previsto dal diritto internazionale”. Ma il risultato è che 130 persone sono
morte dopo aver chiesto aiuto per due giorni, senza risposta. Secondo
l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), dall’inizio del 2021 i
morti in mare nel Mediterraneo centrale sono 580. “Gli stati si sono rifiutati
di agire per salvare le vite di oltre cento persone. È questa l’eredità
dell’Europa?”, ha commentato Safa Msehli, portavoce dell’Oim.
Il naufragio del 21 aprile è l’ultimo di una lunga serie dovuta alla
pericolosità della traversata, all’assenza di un coordinamento nei salvataggi e
alla mancanza di mezzi navali di soccorso nel Mediterraneo centrale. La Ocean
Viking era l’unica nave civile nell’area. Nell’ultimo anno molte navi
umanitarie sono state sottoposte a fermo amministrativo dalle autorità italiane
per dei cavilli. Dal maggio del 2020 le ispezioni della guardia costiera
italiana sono state frequenti e severe e hanno portato al blocco delle navi
delle ong per lunghi periodi. Inoltre dal 2017 ci sono state sedici inchieste
aperte dalle procure, in cui le ong sono state accusate di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina.
Da quanto emerge da un’inchiesta di The Intercept, tradotta da
Internazionale, nella criminalizzazione dell’operato delle ong ha svolto un ruolo
importante la Direzione nazionale antimafia. Per ora nessuno è stato rinviato a
giudizio, ma l’effetto è stato devastante: le ong hanno perso credibilità e
donatori. L’inchiesta più nota è quella della procura
di Trapani, chiusa a fine marzo. Le 40mila pagine dell’indagine rivelano uno sforzo
investigativo anomalo verso le ong: sono stati intercettati decine di operatori
umanitari, giornalisti, perfino avvocati e parlamentari che non erano indagati.
Dalle carte dell’inchiesta emerge che già alla fine del 2016 il ministero
dell’interno aveva chiesto alla polizia giudiziaria di indagare sull’operato
delle ong del mare, ritenute responsabili dell’aumento degli arrivi dalla Libia.
La prima ong a pattugliare il Mediterraneo centrale è stata Migrant
offshore aid station (Moas) nel 2014. Ma tra il 2015 e il 2016 undici ong si
sono unite alla guardia costiera italiana e ai mezzi navali europei con 14
navi. Nel 2017, con la firma del Memorandum d’intesa
tra Italia e Libia, che prevedeva l’addestramento della guardia costiera libica, è cominciato
un graduale ritiro dei mezzi governativi europei. Nel 2018 i libici sono
riusciti a farsi riconoscere dalle autorità marittime internazionali una zona
di ricerca e soccorso (Sar) sotto il loro controllo. Tuttavia Tripoli non
risponde quasi mai alle chiamate di soccorso e i mezzi a disposizione sono
pochi, inadatti a pattugliare un tratto di mare così vasto. Le persone fermate
dalla guardia costiera libica inoltre sono riportate nei centri di detenzione
dove le Nazioni Unite hanno documentato “indicibili orrori”. L’esistenza della
Sar libica è diventata l’alibi delle autorità italiane, maltesi ed europee per
ritardare e omettere i soccorsi. Spesso il telefono dei libici squilla a vuoto
e il maltempo diventa una condizione sufficiente per sospendere le ricerche.
Ma c’è una tragedia nella tragedia: è molto difficile identificare i morti
e le autorità non si fanno neppure carico di informare le famiglie della
presunta scomparsa dei loro cari. Di questo si occupano spesso i volontari, gli
stessi che provano ad allertare le autorità, quando ci sono imbarcazioni in
difficoltà. “Quando è avvenuto quest’ultimo naufragio, abbiamo saputo che
sull’imbarcazione c’erano dei sudanesi. Sui siti internet e sulle chat dei
sudanesi della diaspora hanno cominciato a girare delle foto e dei nomi che
sono state in qualche caso condivise con noi. Ma ci chiediamo se sia giusto
allertare le famiglie, se spetti a noi questo compito o se invece debbano
essere le autorità a farlo”, chiede Dadusc. Sulle chat e sui siti della
diaspora sudanese in Europa intanto circolano le foto di alcuni ragazzi, i
nomi, i video animati delle preghiere che gli vengono dedicate per prendere in
qualche modo commiato. Tutto viene spedito ai volontari, che tuttavia non sono
nella condizione di confermare ufficialmente la morte.
Nel momento in cui è avvenuto il naufragio, risultavano in mare altri due
gommoni: uno era partito da Zuara, un altro da Al Khoms. È molto difficile,
dunque, per i volontari avere certezze sull’identità dei naufraghi. “Quello di
cui siamo sicuri è che se si fosse trattato di naufraghi europei lo sforzo per
identificarli e per informare le famiglie sarebbe stato molto diverso”, afferma
Dadusc. I messaggi nelle chat intanto non smettono di arrivare: “Potete
confermare che mio figlio sia morto?”, chiede il padre di Ali Abu Bakr, un
altro sudanese di 27 anni, che presumibilmente era sulla barca affondata. “Il
mare ha restituito i corpi?”. Non si dà pace del fatto che il corpo del figlio
non sia stato recuperato. Anche lo zio di Mohammed Abdul Khaleq è molto attivo
sui social network, sta facendo girare le sue foto in un abito da cerimonia
blu, lo fa per aiutare la madre del ragazzo, vorrebbe avere la certezza che
Mohammed sia una delle vittime del naufragio. Aveva 25 anni, si era laureato in
comunicazione all’università in Sudan. Poi era partito un anno fa per la Libia
per aiutare la famiglia. Anche lui non aveva detto ai familiari che si sarebbe
messo in mare per provare la traversata.
I parenti sapevano soltanto che le cose in Libia non andavano bene, che
Mohammed avrebbe voluto in futuro andare in Europa per trovare un lavoro
migliore e aiutare sua madre, che è rimasta da sola a Khartoum. A Berlino
intanto il 29 aprile un gruppo di operatori umanitari e volontari hanno
organizzato una protesta per chiedere che siano ripristinati i soccorsi nel
Mediterraneo. Durante il sit in sono stati letti i messaggi di un attivista
sudanese che in questo momento si trova in Francia e che sta aiutando le
famiglie nell’identificazione dei morti. “Ogni volta che avviene un naufragio
tutti piangono per una settimana, ma poi si ripete la stessa tragedia. Questi
disastri non si fermeranno, se non saranno puniti i responsabili”, dice Ahmed
Musab, l’attivista sudanese. Le sue parole sono risuonate in una piazza di
Berlino, ma i volontari si sono chiesti se saranno ascoltate.
Nessun commento:
Posta un commento