Anche per chi, come me, nulla sa di calcio, la stupefacente meteora della Superlega appare assai interessante. Intanto perché il suo epilogo conferma il cruciale ruolo politico che ancora riveste questo intrattenimento di massa: nella istantaneità con cui capi di governo come Johnson, Macron e Draghi sono intervenuti per bloccare questa ulteriore involuzione del sistema calcio, si legge la preoccupazione, quasi il terrore, delle “democrazie” per un’Europa in cui i cittadini-bambini cessino di essere distratti e appagati dal pallone. Il consenso, la pace sociale, la possibilità che tutto resti com’è (fingendo continuamente di cambiare): tutto il sistema riposa sul fatto che la palla non venga sottratta a un cittadino studiatamente mantenuto in stato di minorità. Ben altre sono le superleghe pronte a partire davvero, nella noncuranza dei più.
Partiamo
dalla più somigliante a quella calcistica, una vera goccia d’acqua: l’autonomia
differenziata delle regioni italiane. Non per caso nota anche (dal titolo del
libro che le ha dedicato l’economista Gianfranco Viesti) come “secessione dei
ricchi”, sottotitolo perfetto anche per la Superlega calcistica. L’idea è
identica: in un certo sistema (in questo caso l’Italia) i più ricchi (in questo
caso Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) decidono di giocare da soli, facendosi le loro regole e smettendo di
condividere gioco, soldi e benefici con tutti gli altri membri del
sistema. Il principio è semplicissimo, nell’eterna banalità del male: l’egoismo
che diventa politica, senza mediazioni. Si salva chi può: da solo. C’è da
sperare che il “no” che nessuno, nemmeno sui colli più alti, è stato capace
finora di dire alla superlega delle Regioni italiane, l’abbia in verità detto
la pandemia: che sta dimostrando (a così caro prezzo) il totale fallimento di
una sanità divisa per venti regioni.
Ma altrove
il modello superlega è già da tempo attivo, senza che nessuno abbia fatto una
piega: anzi. Alludo alle istituzioni culturali italiane, le articolazioni del
ministero (che ora sciaguratamente si chiama) della Cultura: i musei, i siti
monumentali, le biblioteche, gli archivi. Dalla riforma Franceschini (2014) in
poi la cultura italiana è stata
organizzata in un sistema di serie, come il calcio: i musei sono la
serie A, i siti monumentali la B, le biblioteche la C e gli archivi la D. Un
sistema in cui, scendendo, si va, come sul Titanic di De Gregori, verso il
dolore e lo spavento.
Ma non
bastando questo colpo alla solidarietà di quello che la Costituzione chiama
il “patrimonio storico e artistico della Nazione” è stata costruita una vera e propria Superlega: quella dei
musei autonomi pigliatutto, che sono stati brutalmente asserviti alla
politica ma in cambio hanno ottenuto il diritto di non condividere i soldi dei
loro biglietti con i fratelli più poveri. Così oggi (o meglio ieri, prima della
pandemia) succede che il Colosseo non sappia dove mettere i soldi (e infatti
progetta di buttarli via nella dissennata ricostruzione dell’arena: a proposito
di intrattenimento circense del popolo), mentre a pochi passi la chiesa di San
Giuseppe dei Falegnami vede rovinosamente crollare il tetto (2018) per mancanza
di manutenzione ordinaria. La Superlega dei musei è questo: mors tua,
vita mea.
È piuttosto
stupefacente notare come per il calcio si sia parlato di “immoralità” con toni
colmi di indignazione (come se poi Uefa, Fifa etc fossero il regno
dell’etica…), mentre per la
condanna a morte del patrimonio culturale “minore” del Paese nessuno (o quasi)
abbia fiatato. Non è forse abbastanza evidente che è immorale anche
inaugurare mostre da milioni di euro mentre nel cratere sismico dell’Italia
centrale non ci sono soldi per evitare che piova sugli affreschi delle chiese
ancora senza copertura?
Se la
Superlega dei musei sembra ormai passata in giudicato, almeno per ora, c’è un
altro ambito cruciale della cultura in cui da anni si prova a realizzarne una
identica, per ora senza riuscirci: l’università. Il sogno proibito dei
liberisti all’amatriciana che popolano i giornali italiani è quello di costruire una Superlega di atenei (del
Nord) che abbiano i soldi per fare ricerca (al servizio del mercato),
distinta per legge da una pletora di università di serie B che facciano solo
didattica, cioè avviamento alle professioni. Un progetto che cementificherebbe
la diseguaglianza cognitiva che già attanaglia il Paese, e sterilizzerebbe
definitivamente quel poco di pensiero critico che ancora gli atenei riescono a
produrre, a dispetto dell’aziendalizzazione imposta dalla Legge Gelmini e da
una burocrazia della valutazione che sembra fatta apposta per distruggere la
libertà del sapere.
L’ossessione di creare esclusivi (cioè escludenti) club per ricchi è uno dei riflessi
condizionati di una società che ha fatto della selezione e del controllo
l’unica religione. Nel calcio, questa volta, è stata stroncata sul nascere: ma
in tutto il resto come andrà a finire?
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