Gli operai esistono e muoiono tre ogni giorno,
ma di rado le loro storie riescono ad andare oltre un trafiletto su un giornale
di provincia e un foglio funebre con scritto «grande lavoratore». Amen.
Eppure provateci a raccontare le storie
degli operai e delle operaie. Provate a raccontare le storie degli operai che
muoiono e vedete cosa vi dicono. Mandate un manoscritto alle case editrici che
parli di vite come quelle di Luana D’Orazio.
Nell’ordine:
a) Non vi risponderanno.
b) Oppure i più onesti vi diranno che
l’ufficio marketing non dà buoni segnali sulla storia di un operaio morto.
c) Qualcun altro vi dileggerà: ancora una
storia di operai morti? E che siamo, nell’Ottocento?
d) Infine – ma sono i più stronzi –
qualcun altro vi dirà: «Ma che tristezza… e fattela una risata ogni tanto».
Non è un problema solo italiano,
intendiamoci. Faccio un esempio clamoroso: Shuggie Bain di Douglas Stuart. Ha vinto il premio
editoriale in lingua inglese forse più importante al mondo nel 2020, il Booker
Prize, con una storia di classe operaia ambientata a Glasgow. Un romanzo
bellissimo, un vero capolavoro. Pubblicato da un editore medio dopo che il
manoscritto aveva ricevuto ben 34 rifiuti tra Stati uniti e Gran Bretagna. Poi
adesso è un capolavoro, ma prima era un manoscritto da respingere che parlava
di una donna povera e alcolista.
Altro esempio: 2019, Joseph Ponthus,
un operaio dei macelli bretoni, pubblica in Francia un libro stranissimo: À la ligne, un
romanzo in prosimetri che racconta la sua esperienza di operaio interinale, tra
Upton Sinclair e il Diario di un manovale di Thierry Metz. Qualche
editore rifiuta il manoscritto, poi lo pubblica un editore di fascia media.
Diventa un best seller in Francia, quasi novantamila copie vendute, vince premi
importantissimi. Subito i diritti stranieri cominciano a essere venduti nelle
principali lingue (inglese o spagnolo) come nei mercati più piccoli (ad
esempio, in serbo). E in Italia? Le case editrici italiane lo leggono e lo
rifiutano. Dai, una storia che parla di operai, ma che siamo impazziti? Gli
operai non esistono più, no, lo sanno tutti, vero? E dai, siamo tutti ceto
medio ormai, no?
Nel frattempo io ho iniziato a curare una
serie editoriale, la collana Working Class di Alegre,
che cerca di pubblicare storie operaie, quelle storie che appunto l’immaginario
dei mass media italiani evita come la peste. Per riscattarle dal vuoto della
grande editoria che non si interessa alle storie degli operai (anche quando si
parla di lavoro, si cerca di non parlare di lavoro operaio). Pubblichiamo tra
l’altro un memoir durissimo di un sottoproletario di Nottingham, Chav di
D. Hunter, che guarda caso diventa un piccolo cult book, recensito sui principali giornali,
segnalato da Internazionale come uno dei libri dell’anno. Si
difende bene come vendite, certo, ma siamo un vascello leggero, non una nave da
guerra. Fosse uscito con una grande casa editrice un libro come Chav avrebbe
venduto migliaia e migliaia di copie.
Per questo dubito attorno
all’acquisizione dei diritti di À la ligne, il libro di Ponthus. Nessun grande
editore lo vuole. In Spagna l’ha pubblicato una major, se lo pubblico nella mia
piccola collana sarà difficile ottenere un successo di copie, a parte quello –
che do per scontato – della critica più militante. So che Joseph è malato, non
può più lavorare. Ne parlo anche con lui, penso che la questione economica sia
importante. Il tempo passa.
Intanto Joseph è davvero molto malato,
non mi ha fatto capire quanto, e all’improvviso muore, a 42 anni, per un
tumore. Io ci rimango di sasso, passo giornate in stato catatonico, pensando
che devo pubblicare o far pubblicare il suo libro. Intanto in Francia la morte
di Joseph finisce su tutti i telegiornali, ne parlano continuamente in tv e si
sveglia di rimbalzo anche la sonnolente editoria italiana. Noi di Alegre ci
decidiamo a fare un’offerta ma finalmente un’editrice italiana importante, di
quelle che vincono lo Strega, acquisisce i diritti. E menomale, perché
quel libro è un meraviglioso capolavoro. Peccato che anche Joseph sia dovuto
morire per rendersi visibile nell’immaginario mainstream italiano. E a questo
punto mi chiedo: ma davvero dobbiamo morire perché dobbiate accorgervi di noi?
Queste righe le ho scritte di getto, col
magone alla gola per la morte di Luana, dopo aver incontrato ieri mattina degli
studenti della quinta di un Istituto tecnico di Piombino, ragazzi che hanno
praticamente quasi la sua stessa età, che lavoreranno anche loro nella
meccanica, forse. E mi è toccato in sorte di parlare di sicurezza sul lavoro e
di storie operaie, proprio quando il corpo di Luana veniva estratto
dall’abbraccio letale di una macchina. Leggete queste righe adesso, prima che
cali di nuovo il sipario sulle vite operaie. Sulla vita di Luana, che non ha
mai potuto raccontare la sua storia, come almeno ha fatto Joseph. Una storia
che andrebbe raccontata, anche se noi siamo i primi a credere che le nostre
storie non contino nulla, e crediamo alle storie che ci raccontano, quelle
storie che finiscono bene, dove i giovani a ventidue anni si divertono e fanno
le cazzate, e poi dopo fanno i cervelli in fuga e infine fanno i master
all’estero in università prestigiose e poi cominciano la loro carriera.
Invece la tua storia è diversa. Sei
un’operaia e una madre e finisci dentro gli artigli di una macchina. E poi
scende il sipario sulla tua storia, che nessuno racconterà, almeno non nella
grande editoria italiana. Oppure ti racconteranno, ma a modo loro. Come ha
scritto Simona Baldanzi,
diranno che eri giovane, bella e sfortunata, e non che eri un’operaia
sfruttata, perché le storie operaie non esistono, perché finiscono sempre male
e dagli uffici marketing non arrivano buoni segnali. Perché sono storie
vecchie, che non succedono più, che non esistono più come gli operai che non
esistono più.
E fatevela voi una risata, se vi riesce,
perché io c’ho il groppo alla gola e non ce la faccio davvero.
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