venerdì 21 maggio 2021

Le storie operaie finiscono male - Alberto Prunetti

 

 

Gli operai esistono e muoiono tre ogni giorno, ma di rado le loro storie riescono ad andare oltre un trafiletto su un giornale di provincia e un foglio funebre con scritto «grande lavoratore». Amen.

Eppure provateci a raccontare le storie degli operai e delle operaie. Provate a raccontare le storie degli operai che muoiono e vedete cosa vi dicono. Mandate un manoscritto alle case editrici che parli di vite come quelle di Luana D’Orazio.

Nell’ordine:

a) Non vi risponderanno.

b) Oppure i più onesti vi diranno che l’ufficio marketing non dà buoni segnali sulla storia di un operaio morto.

c) Qualcun altro vi dileggerà: ancora una storia di operai morti? E che siamo, nell’Ottocento?

d) Infine – ma sono i più stronzi – qualcun altro vi dirà: «Ma che tristezza… e fattela una risata ogni tanto».

Non è un problema solo italiano, intendiamoci. Faccio un esempio clamoroso: Shuggie Bain di Douglas Stuart. Ha vinto il premio editoriale in lingua inglese forse più importante al mondo nel 2020, il Booker Prize, con una storia di classe operaia ambientata a Glasgow. Un romanzo bellissimo, un vero capolavoro. Pubblicato da un editore medio dopo che il manoscritto aveva ricevuto ben 34 rifiuti tra Stati uniti e Gran Bretagna. Poi adesso è un capolavoro, ma prima era un manoscritto da respingere che parlava di una donna povera e alcolista.

Altro esempio: 2019, Joseph Ponthus, un operaio dei macelli bretoni, pubblica in Francia un libro stranissimo: À la ligne, un romanzo in prosimetri che racconta la sua esperienza di operaio interinale, tra Upton Sinclair e il Diario di un manovale di Thierry Metz. Qualche editore rifiuta il manoscritto, poi lo pubblica un editore di fascia media. Diventa un best seller in Francia, quasi novantamila copie vendute, vince premi importantissimi. Subito i diritti stranieri cominciano a essere venduti nelle principali lingue (inglese o spagnolo) come nei mercati più piccoli (ad esempio, in serbo). E in Italia? Le case editrici italiane lo leggono e lo rifiutano. Dai, una storia che parla di operai, ma che siamo impazziti? Gli operai non esistono più, no, lo sanno tutti, vero? E dai, siamo tutti ceto medio ormai, no?

Nel frattempo io ho iniziato a curare una serie editoriale, la collana Working Class di Alegre, che cerca di pubblicare storie operaie, quelle storie che appunto l’immaginario dei mass media italiani evita come la peste. Per riscattarle dal vuoto della grande editoria che non si interessa alle storie degli operai (anche quando si parla di lavoro, si cerca di non parlare di lavoro operaio). Pubblichiamo tra l’altro un memoir durissimo di un sottoproletario di Nottingham, Chav di D. Hunter, che guarda caso diventa un piccolo cult book, recensito sui principali giornali, segnalato da Internazionale come uno dei libri dell’anno. Si difende bene come vendite, certo, ma siamo un vascello leggero, non una nave da guerra. Fosse uscito con una grande casa editrice un libro come Chav avrebbe venduto migliaia e migliaia di copie.

Per questo dubito attorno all’acquisizione dei diritti di À la ligne, il libro di Ponthus. Nessun grande editore lo vuole. In Spagna l’ha pubblicato una major, se lo pubblico nella mia piccola collana sarà difficile ottenere un successo di copie, a parte quello – che do per scontato – della critica più militante. So che Joseph è malato, non può più lavorare. Ne parlo anche con lui, penso che la questione economica sia importante. Il tempo passa.

Intanto Joseph è davvero molto malato, non mi ha fatto capire quanto, e all’improvviso muore, a 42 anni, per un tumore. Io ci rimango di sasso, passo giornate in stato catatonico, pensando che devo pubblicare o far pubblicare il suo libro. Intanto in Francia la morte di Joseph finisce su tutti i telegiornali, ne parlano continuamente in tv e si sveglia di rimbalzo anche la sonnolente editoria italiana. Noi di Alegre ci decidiamo a fare un’offerta ma finalmente un’editrice italiana importante, di quelle che vincono lo Strega, acquisisce i diritti.  E menomale, perché quel libro è un meraviglioso capolavoro. Peccato che anche Joseph sia dovuto morire per rendersi visibile nell’immaginario mainstream italiano. E a questo punto mi chiedo: ma davvero dobbiamo morire perché dobbiate accorgervi di noi?

Queste righe le ho scritte di getto, col magone alla gola per la morte di Luana, dopo aver incontrato ieri mattina degli studenti della quinta di un Istituto tecnico di Piombino, ragazzi che hanno praticamente quasi la sua stessa età, che lavoreranno anche loro nella meccanica, forse. E mi è toccato in sorte di parlare di sicurezza sul lavoro e di storie operaie, proprio quando il corpo di Luana veniva estratto dall’abbraccio letale di una macchina. Leggete queste righe adesso, prima che cali di nuovo il sipario sulle vite operaie. Sulla vita di Luana, che non ha mai potuto raccontare la sua storia, come almeno ha fatto Joseph. Una storia che andrebbe raccontata, anche se noi siamo i primi a credere che le nostre storie non contino nulla, e crediamo alle storie che ci raccontano, quelle storie che finiscono bene, dove i giovani a ventidue anni si divertono e fanno le cazzate, e poi dopo fanno i cervelli in fuga e infine fanno i master all’estero in università prestigiose e poi cominciano la loro carriera.

Invece la tua storia è diversa. Sei un’operaia e una madre e finisci dentro gli artigli di una macchina. E poi scende il sipario sulla tua storia, che nessuno racconterà, almeno non nella grande editoria italiana. Oppure ti racconteranno, ma a modo loro. Come ha scritto Simona Baldanzi, diranno che eri giovane, bella e sfortunata, e non che eri un’operaia sfruttata, perché le storie operaie non esistono, perché finiscono sempre male e dagli uffici marketing non arrivano buoni segnali. Perché sono storie vecchie, che non succedono più, che non esistono più come gli operai che non esistono più.

E fatevela voi una risata, se vi riesce, perché io c’ho il groppo alla gola e non ce la faccio davvero.

da qui

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